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DIOECESIS JULIENSIS - DIOCESI DI ZUGLIO
(tuttora inglobata nell' Arcidiocesi di Udine)

 

 

La tradizione pesa sullo spirito come l'aria sulle ali dell'aereo
(Nicolàs Gòmez Dàvila)

Il Signore ha tanta compassione della Diocesi di Udine,
che, per conservare ancora quel pò di Fede rimasta,
non manda più preti

(Anonimo sacerdote udinese)


Confini antichi della Diocesi di Zuglio
Auspicabile nuovo territorio della restaurata Diocesi di Zuglio

 

Animadôrs
Alfio Englaro & Marino Plazzotta

 

 

Primo gruppo di interventi

  • Una singolare carriera ecclesiastica - KIPKOECH ARAP ALFRED - Da vèscul di Zuj a vescovo militare del Kenya

  • Una grande manifestazione di popolo - SCENSCE 2000 A S. PIERI - Cose mai viste, cose mai scritte

  • Una legittima aspirazione della Carnia - LA DIOCESI DI ZÚJ - Un fulgido passato che permea il presente

  • Origine delle Diocesi del Friuli - Rapida sintesi storica

  • Problemas pa Diocesi di Zùj

  • Preti per la Diocesi di Zùj - Una proposta con due obiettivi

  • TUTTE LE DIOCESI ITALIANE  Regione per regione - Chê di Zuj inmò a no è

  • La provincia della Carnia e la Diocesi di Zuglio (in friulano)

  • La provincia della Carnia e la Diocesi di Zuglio (in italiano)

  • Un tetto bugiardo che copre vergogne 

Secondo gruppo di interventi

  • Il cerimoniale episcopale (immagini del libro)
  • In viaggio da Zuglio ad Aquileia
  • IL FURLAN lenghe liturgjche
  • DIOCESI DI ZUGLIO valorizzerebbe anche Udine
  • LA GLESIE MARI BANDONADE
  • IN SICILIA SI’, IN CARNIA NO. PERCHE’?
  • PREGHIERA di un prete PER LA DIOCESI DI ZUGLIO
  • CHIESA UDINESE - (TROPPO) IMPEGNO PER OBIETTIVI (TROPPO) POLITICI
  • IN CALABRIA SI, IN CARNIA NO. PERCHE’?
  • CARNIA  ritorna Beleno

Terzo gruppo di interventi

  • LO STUPORE DEGLI ATTI - DIOCESI DI ZUJ : quattro righe
  • VEXATA QUÆSTIO - Il malessere dei preti
  • Il territorio della Diocesi di Zuglio
  • DIOCESI DI ZUGLIO -
  • “ZUGLIO una diocesi negata” - Un video istruttivo e chiaro
  • SCENSE 2001- Una presenza significativa, Un’assenza inattesa

  • 1751 - 6 LUGLIO - 2001 - Un triste anniversario, un mesto compleanno

  • UN PALLIO VIRTUALE Per l’Arcivescovo di Udine

  • LA DIOCESI DI ZUGLIO
    Come quando dove è nata questa IDEA-PROGETTO

  • SULLA NECESSITA’ DI RIPRISTINARE LA DIOCESI DI ZUGLIO (in friulano e italiano)

Quarto gruppo di interventi

  • IL PIU’ ANTICO BATTISTERO DI CARNIA

  • COLLE ZUCA - Una testimonianza forte, un segno di speranza

  • Lettera del Centro Amicizia e Libertà alla curia

  • “QUESTO CONVEGNO NON S’HA DA FARE, NE’ DOMANI NE’ MAI”

  • RECUPERO DEL TITOLO DI ZUGLIO

  • I Preti di Carnia

  • Scense 2003

  • Copertina della Cassetta VHS dedicata alla Diocesi di Zuglio

  • Una ciotola di riso per i “cjargnei cence Diu”

  • VOLEIS UN VESCUL E NON VEIS NENCJE PREIDIS    

Quinto gruppo di interventi

  • Diocesi di S. Pietro

  • Voglia di futuro

  • SCENSCE 2004 - Un buon seminato

  • Juliensis sermo
    IL VESCOVO DI ZUGLIO E’ NUNZIO IN SRI LANKA

  • Quale diocesi dopo il referendum?
  • Barcellona-Udine stupefacenti analogie
  • Ubi Petrus ibi Ecclesia
  • La Diocesi di Zuj segont me
  • Scense 2005
  • La diocesi della Carnia

Sesto gruppo di interventi

  • SCENSE 2007 - Nel segno di Pre Toni Bellina
  • MISSALE AQUILEJENSIS ECCLESIE

  • SCENSE 2008 - Una presenza inattesa

  • SUMMORUM PONTIFICUM

  • ET INTROIBO AD ALTARE DEI

  • IL VESCOVO DI ZUGLIO AMBASCIATORE IN SIRIA
  • 175 VESCUI FURLANS - Prezioso volumetto di Pieri Pincan
  • SCENSE 2009 - Una solenne ripetizione
  • MISSUS EST - Canto natalizio della Carnia
  • SCENSE 2011 - Grandi e piccole novità

 

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Ricordo di uno strenuo oppositore della Diocesi di Zuglio

A distanza di 5 anni dalla sua morte, ci piace ricordare don Renzo Micelli anche in questo particolare luogo non solo per la sua figura di prete "di e in" Carnia ma soprattutto per la sua costante strenua e immutata opposizione alla Diocesi di Zuglio. Come rispettammo allora la sua posizione (peraltro a noi incomprensibile) così oggi lo vogliamo ricordare affettuosamente a tutti coloro che ancora si battono (sempre più flebilmente e sempre più inutilmente) per la restaurazione moderna di questa istituzione ecclesiastica, che in questo sito ha trovato e trova sempre nuove ragioni di speranza e nuove valide motivazioni pratiche. Del resto è sempre preferibile un chiaro e tenace oppositore ad una idea che un tiepido (e magari falso) sostenitore di essa.

 

 

Credo di credere
Una testimonianza di fede da un uomo di scienza

Su affettuosa ed insistente sollecitazione del curatore di questo sito, Corrado Venturini ha inteso offrire questo importante contributo:

"Forse qualcuno si ricorda ancora di me. Del ‘fì dal Mestri’, quel Maestro Venturini che a Cleulis e Timau ha fatto scuola nei lontani anni ’50 e ’60 e dal quale ho appreso la gioia di frequentare il Creato, rappresentato dai boschi, dalle acque e dalle rocce che circondavano la mia casa di allora, appoggiata lungo la strada nazionale, presso la sponda del Rio Seleit, in uno spazio ritagliato tra la Chiesa di Santa Geltrude e il campo sportivo.
Acque e rocce che molti anni più tardi, lasciati già da tempo i luoghi natali, mi richiamarono a loro con la forza delle proprie meraviglie. Fu questo per me l’inizio di una rinnovata frequentazione di quei siti d’infanzia. Frequentazione che questa volta si arricchiva dell’analisi scientifica e naturalistica, sviluppata prima come studente in Scienze geologiche, in seguito come professore di geologia in quella stessa università che mi aveva accolto per meglio impostare il mio desiderio di sezionare e comprendere la Natura.
 
Siediti sopra un prato isolato, sotto un cielo stellato:
se sei scienziato… non vedi il Creato
.

La frase potrebbe riassumere una condizione che non ha valore assoluto, ma che rispecchia la posizione di buona parte degli uomini (e donne!) di scienza. Più indaghi i prodotti della Natura e più la verità dei fatti appare codificabile attraverso numeri ed equazioni. Più la investighi e più si dimostra esprimibile tramite azioni e reazioni, più diventa separabile in cause ed effetti, documentabili e ripetibili. Quanto sfugge a questa prassi è ritenuto semplicemente indimostrabile e dunque da rigettare come fantasia priva di credibilità. Dio dunque incarnerebbe questo requisito di “non credibilità”. 
Non per niente questa posizione è quella degli atei convinti. Convinti che tutto sia retto dal caso e che per caso ci troviamo proiettati, nostro malgrado, in questa strana combinazione di eventi che chiamiamo vita, destinata a spegnersi tanto rapidamente quanto, improvvisamente, si è, per ognuno di noi, accesa.
Grandi - e oserei dire sarcastiche e cattive - sono l’intransigenza e la condanna degli atei nei confronti dei credenti. E’ strana l’arroganza usata da chi non crede nei confronti di chi umilmente dimostra di credere o cerca con fatica di credere.
Dire ateo significa parlare di chi non mette nemmeno in discussione la pretesa assenza di Dio. E’ così, e ne sono certi. Più che certi. Il loro credo è tetragono, non scalfibile nella dichiarazione di valore assoluto. Non posso fare a meno di citare una frase di un ateo qualsiasi preso a caso da Internet: Chi crede di avere la Verità Assoluta può essere molto pericoloso (Giorgio Villella, ex segretario UAAR- Unione Atei e Agnostici Razionalisti). Sembra proprio stia parlando degli atei, depositari e proclamatori a oltranza della loro verità… invece, al contrario, fa riferimento ai credenti.
Peccato che sulla Terra tutti coloro che credono in Dio, almeno una volta abbiano dubitato della propria fede. Questo non accade agli atei, corazzati di una sicumera incrollabile che sfocia nel giulivo sarcasmo alla Odifreddi nei confronti di chi poveramente si lascia irretire dalla Chiesa e dai suoi proclami di salvezza. Forse, a ben vedere, è l’avversione alla Chiesa - fatta di persone umane - che alimenta l’ateismo. Ma, al di là di tutto, vi siete mai accorti come in ogni circostanza le persone di fede appaiano più serene e ‘luminose’ di chi si dichiara schierato dalla parte opposta? 

Copertina dell'opera di quattro scienziati, tra cui il cattolico (e carnico) Corrado Venturini

 

Credere è uno spreco di intelligenza?
La Storia, fin dai tempi di Cristo, è piena di importanti o famosi atei che hanno “cambiato bandiera” diventando credenti, folgorati sulla via di Damasco. Sollecito, a questo proposito, una sola illuminante lettura inerente alle vicende della “Madonna delle Tre Fontane”, maturate nel dopoguerra romano. Al contrario, non ho mai sentito fatti che narrino ‘conversioni’ di famosi credenti verso l’ateismo.
Certo è che molti uomini (e donne!) di scienza vogliono le prove per credere. In mancanza di prove si sentono autorizzati a non credere. Sarebbe più giusto che, con intelligenza, si dichiarassero agnostici, ossia impossibilitati a prendere una posizione per mancanza di conoscenze. Invece no, la mancanza di prove finisce per costituire una prova. Questo non è un modo di procedere prettamente scientifico. Fa specie leggere la frase Credere è uno spreco di intelligenza, come affermato da tale Maria Turchetto (direttore de L’Ateo - con la A maiuscola, ndA). Nessun credente si sognerebbe mai di svillaneggiare un ateo e nemmeno di compatirlo. Questa è un’altra differenza che dà indirettamente la sostanza delle due opposte scelte di vita. Com’è vero che la bontà e il valore di ogni scelta si possono leggere attraverso i frutti che essa produce!
A chi parla di mancanza di prove, questa volta consiglio una lettura particolare, diventata famosa e scritta da un avvocato di Trieste che, in circostanze tragiche e imprecisate, perse un figlio ventenne che in seguito"ritrovò": Lino Sardos Albertini – “Esiste l’aldilà”. Inoltre, sono convinto che basterà avere pazienza e le prove cercate diventeranno - entro un secolo, forse meno - un fatto comunemente accettato e accertabile. Prevedo si parlerà allora anche di psicofonia e di scrittura automatica, meravigliandosi di quanto tempo sia occorso per sdoganarne la loro credibilità. Le stesse apparizioni mariane - disattese e ignorate da chi non vuole evidenze a sfavore del proprio ateismo - procedono da tempo nella direzione concreta dell’accumulo di prove congruenti con una realtà ultraterrena. A tal proposito, senza citare né Fatima né Lourdes, né tanto meno Medjugorie, voglio chiedere a chi mi legge di cercare notizie inerenti alla Madonna del Pilar e al suo evento prodigioso risalente al 1640, in terra spagnola (Saragoza), documentato con dovizia di perizie dai medici del tempo. Nonostante tutto, c’è chi, con malcelata ironia, pure in questi casi insinua dubbi, come accade anche per questo fatto miracoloso (senza riuscire però ad addurre prove nella direzione opposta!).
Sollecito anche una illuminante lettura inerente alle vicende della Madonna delle Tre Fontane, maturate nel dopoguerra romano. Sono convinto che letture e notizie come quelle sopra citate potranno forse coinvolgere positivamente qualcuno tra gli agnostici, ma certamente nemmeno scalfire la sicumera degli atei. Per loro, per gli uomini (e donne!) di scienza come me, ma - contrariamente al sottoscritto - convinti assertori del positivismo trionfante, propongo la seguente modesta metafora, con la quale concludo questo modesto contributo:

Il foglio incredulo
“Un foglio di carta sottilissimo stava appoggiato, piatto, sulla piatta superficie di un’ampia scrivania. Era immobile, capace solo di comunicare, di apprendere, ma non di vedere. Chiese notizie sul mondo alla scrivania che lo sorreggeva, e quella iniziò a parlare. Cominciò col narrare di sé, delle proprie quattro solide gambe di mogano, del suo capiente e profondo cassetto. Si dilungò nel descriverne il multiforme e ricco contenuto, dalle gomme più varie, ai calamai di vetro cilindrico modellato in sinuose forme, ai tamponi assorbenti dal manico in legno lavorato…
Poi, si accorse che il foglio non capiva. Era in grado soltanto di comprendere l’essenza della grande superficie piatta e scura di legno antico sul quale stava appoggiato. Il resto gli era perfettamente incomprensibile, per quanto inizialmente si fosse sforzato di ascoltare con attenzione quanto la scrivania gli andava raccontando. Non erano soltanto descrizioni difficili da capire, erano proprio impossibili da percepire. Impossibili perché l’esistere del foglio era basato su due dimensioni soltanto e quelle per lui erano le misure dell’intero mondo reale.
Non poteva nemmeno lontanamente comprendere il significato di “profondità”, o quello di “aggiungere una terza dimensione”. Il suo mondo tangibile, pratico e, in una sola parola, reale, era quello misurabile con le sole altezza e larghezza. Non è che rifiutasse la profondità, semplicemente il suo cervello bidimensionale non poteva comprenderne, nemmeno lontanamente, il significato. Per la scrivania, invece, misurare tutto anche attraverso l’uso della profondità era qualcosa di perfettamente logico e scontato.
Si fece avanti a quel punto un monaco scrivano. Era rimasto in disparte ad ascoltare i pensieri intercorsi tra i due, il foglio e la scrivania. Si assettò la tonaca sedendosi al tavolo di lavoro e aprendone il cassetto. Ne trasse una penna d’oca che intinse nel calamaio. Cominciò in silenzio a scrivere sul foglio un sintetico trattatello sulle tre dimensioni, sulla geometria solida, sull’effetto prospettico, con la certezza che a quel foglio la realtà delle cose, raccontata così, di lì a poco sarebbe divenuta chiarissima. Il foglio riceveva tutto quanto, ma senza capirci nulla. Quando infine fu pieno di tracce d’inchiostro, il pezzo di carta si stufò e con veemenza proclamò l’insensatezza di quelle righe bluastre prive di significato. Lo fece con forza e disprezzo verso il tentativo del monaco scrivano, proclamando la verità unica e certa del proprio mondo bidimensionale.
Il monaco, alla fine spazientito, ripose lentamente la penna nel cassetto, prese il foglio a due mani, ne fece una pallottola di carta e, con lancio sicuro e preciso, la inviò rapida verso il focolare che ardeva in fondo alla sala.

Mentre la pallottola di carta correva incontro al proprio destino il monaco scrivano si strinse nella tonaca, si alzò e si allontanò in direzione opposta, verso la porta che poi richiuse dietro di sé.
Se avesse potuto sentire i pensieri di quel foglio appallottolato che, sempre più luminoso, percorreva ormai la parte discendente della parabola verso il fuoco, sarebbe tornato indietro di corsa, emozionato e commosso.
“Ho capito, ho capito! Ora tutto mi è chiarissimo!” stava gridando col suo pensiero il foglio. Anzi, non più il foglio, ma quella tonda, tridimensionale pallottola di carta nella quale il monaco l’aveva forgiato un attimo prima di lanciarlo verso il focolare acceso”."

Corrado Venturini

 


Il MISSUS che si canta a Timau

Mauro Unfer di Timau ha avuto l'ottima idea di registrare durante la novena del S. Natale 2011 (precisamente domenica 18 dicembre), il canto del MISSUS EST nella melodia in uso in questo paese di confine (in comune di Paluzza) di lingua germanofona. Occorre subito dire che questa melodia non è quella diffusa in tutto il Friuli e la Carnia (cioè quella famosissima del Candotti) ma è una tipica melodia che si rifà direttamente all'antico stile patriarchino che nei nostri paesi è comunemente indicata con l'appellativo "a la vecje" peraltro in auge ormai solo in pochissimi paesi, tra cui anche Cercivento. Per ascoltare e vedere questa singolare liturgia (sopravvissuta per secoli ed ora a forte rischio di estinzione) vai a questo indirizzo di "You tube":

Missus a Timau

 

Traduzioni... infedeli
(
note sulla Preghiera Eucaristica II)

 

Alcune settimane fa, ebbi modo di prendere per mano l’opuscolo «Preces eucharisticæ et præfationes» (Typis Poliglottis Vaticanis, MDMLXVIII). Stampato (come dice) nel 1968, esso riporta le Preghiere eucaristiche II, III e IV, allora composte e introdotte ex novo nella grande liturgia della Chiesa cattolica. Ai testi eucaristici veri e propri, sono aggiunti i prefazi, le loro modalità d’esecuzione in canto, alcune spiegazioni e, anzitutto, il decreto della Sacra Congregazione dei Riti, presieduta dal card. Benno Gut (che si firma anche quale presidente del «Consilium deputatum ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia») e dice che i testi erano stati approvati da papa Paolo VI. La possibilità di leggere le Preghiere eucaristiche II, III e IV nel testo originale, in latino, aveva suscitato in me una certa curiosità.
Il primo testo da prendere in considerazione era, dunque, come naturale, la «prece eucharistica» seconda. Quale fu perciò la mia sorpresa nel constatare che il testo italiano non è in tutto fedele a quello latino, disposto per tutta la Chiesa, a volte come semplice evidenziazione letteraria, ma a volte, purtroppo, anche con interventi arbitrari sulla sostanza!
Ecco i due testi a confronto e le osservazioni fatte:


Vere sanctus es, Dómine,
fons omnis sanctitátis.
Hæc ergo dona, quǽsumus,
Spiritus tui rore sanctífica,
ut nobis Corpus et Sanguis
fiant Dómini nostri Iesu Christi.

Padre veramente santo,
fonte di ogni santità,
santifica questi doni
con l'effusione del tuo Spirito
perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.

 

Come ognuno vede, all’originale ci sono due frasi e sono state arbitrariamente ridotte a una. La prima frase originale è un’esclamazione; dice: «Veramente santo sei [tu], Signore, [sei] fonte di ogni santità[!]», ma è stata tradotta come un’invocazione, che costituisce un tutt’uno con la seconda frase originale, facendo perdere la bellezza di quella esclamazione, nella quale c’era un’eco del Padre Nostro.
Colpisce poi la traduzione di Domine con Padre; è vero che in questo caso per Dominus si intende la prima persona della Santissima Trinità, ma non si vede perché fosse necessaria questa modifica, anzi, essa proprio sorprende.
Fuse assieme le due frasi, la traduzione è costretta, procedendo nel suo arbitrio, ad ignorare l’ergo (=dunque), che costituisce la normale ripresa e sottolineatura dell’esclamazione gioiosa di prima, in italiano annacquata come abbiamo notato. 
La traduzione omette, poi, il quǽsumus (=[ti] preghiamo), che, nella deformazione letteraria in corso, non può più inserire.
Il rore (=con la forza, la potenza) è stato tradotto con l’arbitrario, per quanto suggestivo termine di effusione.
L’ut, che è un finale (=affinché) è stato tradotto come un causale, perché.
Corpus et Sanguis, all’originale al maiuscolo, sono stati resi in italiano al minuscolo.
L’espressione Dominus noster Iesu Christus (al nominativo), nella quale il termine centrale è Dominus è stata riformulata con l’evidenziazione del nome di Gesù Cristo, sicché il Dominus noster diventa un semplice predicato.

 


Qui cum passioni voluntáriæ traderétur, accépit panem
et grátias agens fregit, dedítque
discípulis suis, dicens :
Accípite et manducáte:
Hoc est enim Corpus meum,
Quod pro vobis tradétur.
Simili modo, postquam cenátum est, accípiens et cálicem,
íterum grátias agens dedit
discípulis suis, dicens:
Accípite et bíbite ex eo omnes:
Hic est enim calix
Sánguinis mei
novi et ætérni testaménti,
qui pro vobis et pro multis
effundétur in remissiónem peccatórum.
Hoc fácitein meam commemoratiónem.

Egli, offrendosi liberamente alla sua passione,
prese il pane e rese grazie,
lo spezzò, lo diede
ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e mangiatene tutti:
questo è il mio Corpo
offerto in sacrificio per voi.
Dopo la cena, allo stesso modo,
prese il calice e rese grazie, lo diede
ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e bevetene tutti:
questo è il calice del mio Sangue
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me.

 

Il qui (=il quale, semplicisticamente tradotto egli) a questo punto si riferisce anzitutto all’Iesu Christus, mentre nel testo originario è riferito al Dominus; sottolineava che, ad offrirsi, era stato lo stesso Dominus, ovvero, in definita Dio, il Figlio di Dio. Così com’è stato reso in italiano ad offrirsi è invece l’uomo Gesù Cristo. Da storia sacra, il fatto che si commemora, è ridotto a storia soprattutto umana, il cui soggetto è il personaggio Gesù, di cui si ricorda (si sta per commemorare) la donazione sacrificale a beneficio dell’umanità; ma è un uomo tra gli uomini, a farlo. Il suo donarsi è ridotto da atto redentore, da sacrificio redentore del Figlio di Dio, a donazione umana della propria vita, come possono fare ed effettivamente hanno fatto anche altri; quanti non hanno affrontato la passione, in questo senso solo immanente, per il bene dei fratelli, di un qualche fratello?
Il descrittivo «cum passioni voluntariæ traderetur» (=mentre si offriva ad una volontaria immolazione» fa da premessa (nell’originale) alla frase principale, che inizia con l’accepit panem. Il traduttore trasforma quel descrittivo da descrizione essenziale della scena, qual è, quasi in un inciso; da sostanza, che si concretizza e dà significato a quello che Gesù sta per compiere e dire, diventa una specie di cornice, uno sfondo; sembra quasi che ciò che conta non sia il tradere (=offrirsi) che Gesù fa di sé, ma il prendere il pane, ecc. Ancora una volta, cioè, la realtà sacrificale viene posta in subordine, rispetto alla pura fenomenologia dello svolgersi dell’Ultima Cena e il significato della stessa Cena, che dovrebbe essere la realtà da evidenziare, viene affermato quasi di passaggio.
Arbitraria anche la resa di passioni voluntariæ (=a un’immolazione volontaria; un dativo) con l’avverbio liberamente, collegato però non più, come all’originale, all’atto profondo dell’immolarsi, ma ridotto a quello, assai più semplice, di un generico «offrirsi liberamente», che sembra tanto un «mettersi a disposizione».
Il testo immediatamente seguente vede delle manipolazioni arbitrarie analoghe alla prima. Il «gratias agens» (=rendendo grazie) e il dicens (=dicendo) sono inseriti come gli altri verbi (fregit, dedítque) in un’unica narrazione, riducendoli da verbi che descrivono il contesto generale della scena e verbi che fanno una specie di elencazione di atti spiccioli compiuti da Gesù.
Lo stesso meccanismo verrà usato dal traduttore nel brano successivo alle parole di consacrazione del pane. Il «Simili modo, postquam cenatum est» è tradotto, infatti, invertendo le frasi, cioè: «Dopo la cena, allo stesso modo», anziché: «Allo stesso modo, dopo aver cenato» (il «dopo aver cenato», poi, è tradotto con un banalissimo «dopo la cena»); l’accipiens (=prendendo) è reso al discorsivo: prese; l’et (=anche) non è neppure considerato; non si bada e non si traduce literum (=di nuovo), arbitrariamente ritenuto (come l’et) una specificazione superflua; il «gratias agens» (=rendendo grazie) è tradotto al discorsivo: «rese grazie»; il «dicens» (=dicendo), con un discorsivo «disse».
Particolarmente significative e fuorvianti le manipolazioni operate nella traduzione delle parti centrali della Preghiera eucaristica.
All’«accipite et manducate», che è ovviamente un imperativo: «Prendete e mangiate[!]», sono state fatte due aggiunte: una letteraria, di poco conto (ma anche senza senso), e una di sostanza. Quella letteraria: il manducate è stato tradotto mangiate-ne, anziché, come corretto mangiate (senza il –ne. Diverso è il caso del vino/sangue, dove il bevete-ne è corretto, in quanto il –ne finale traduce l’ex eo, cioè: «[bevete] da esso, dal calice»).  
La modifica di vera sostanza è l’aggiunta di un tutti, che, se pur si può giustificare teologicamente, perché mai era da fare? L’enim (= infatti, un rafforzativo, che potrebbe essere tradotto anche con: in verità) non è neppure tradotto.
Ma gravi soprattutto le lacune riscontrabili nella terza parte delle parole pronunciate da Gesù, lì dove il «quod pro vobis tradetur» (=che viene [da me] offerto [in sacrificio] per voi) è tradotto: «offerto in sacrificio per voi». Ebbene, la frase potrebbe essere intesa come una traduzione sufficiente e tale appare a prima vista, ma ciò proprio non è, perché tradetur, che si doveva tradurre, non è la stessa cosa di traditum, come di fatto è stato tradotto! Il tradetur significa: «che [ora, in questo momento] viene offerto [da me]» (il verbo racchiude un’azione, un movimento; l’azione è viva, si sta compiendo); il traditum, invece, significa: «che è stato offerto» (il verbo suggerisce un’azione già conclusa, al passato). Se si traduce: «Questo è il mio Corpo, che è [che viene] offerto in sacrificio per voi», si comprende che il sacrificio di Cristo si compie, si sta compiendo in ogni messa, è un fatto del presente in ogni messa; se, al contrario, si traduce semplicemente: «…Corpo offerto in sacrificio per voi», potremmo benissimo essere in un’ottica protestante, di puro memoriale d’un fatto compiuto, in un tempo passato, e compiuto proprio nel senso di completato «allora, in quell’Ultima Cena», e non, come lo intende la Chiesa cattolica, «che si compie ogni volta che quelle parole vengono pronunciate», pur essendo un unico ed eterno Sacrificio, quello che si compie e si celebra, essendo (stata) unica la donazione di Gesù.
Delle parole sul calice, si rileva che è stato omesso (un’altra volta) l’enim.
Il «novi et æterni testamenti», poi, che è, all’evidenza, un duplice genitivo (= della nuova, cioè ultima, ed eterna alleanza), è stato tradotto come un finale: «per la nuova…», quasi che tale alleanza fosse qualcosa che si realizzerà in un indeterminato futuro e non che s’è compiuta e si compie, tramite ciò che quel calice rappresenta e indica, ogni qualvolta viene offerto al Padre.
Ed ecco altre due gravissime manipolazioni.
La prima: il «qui pro vobis et pro multis» (=il qual [calice è versato] per [nel senso di: a favore di] voi e per molti» (non ci sono dubbi che è molti e non tutti), viene invece tradotto: «…per tutti». Comprendo che la cosa è teologicamente possibile, ma che senso aveva farla come manipolazione di un testo ufficiale?
La seconda «scelta di campo» del traduttore (scelta che mi trova del tutto dissenziente) è la ripetizione di quella fatta per le parole sul pane/corpo. Come lì in traditur, qui l’effundetur è tradotto riduttivamente versato. Eppure, effundetur non è effusum! Il verbo, quale compare sulle labbra di Gesù e quale lo intende la Chiesa, è in forma attiva; Gesù parla del sangue che effettivamente sta per versare e che è nell’atto di versare, non di un sangue che (durante l’Ultima Cena!) avrebbe già versato. Anche in questo caso, si mette in gioco qui una grossa verità, quella del valore attuale del sacrificio redentore di Cristo e, quindi, per estensione, quella del senso della messa, del suo essere un sacrificio e non solo, come il testo della Preghiera eucaristica porta ahimè quasi far credere, di un memoriale!
Molto riduttiva anche la traduzione di commemorationem con il termine memoria; se proprio c’erano difficoltà, comprensibili, perché non attenersi ad un letterale commemorazione? In ogni caso, avrebbe detto di più. Commemorare, ben si sa, non è solo «avere, fare memoria», ma celebrare un fatto, inserirsi nel suo largo spazio di vita.

 

Mystérium fídei:
Et populus prosequitur, acclamans:
Mortem tuam annuntiámus, Dómine, et tuam Resurrectiónem confitémur,
donec vénias.

Mistero della fede.
Il popolo acclama dicendo:
Annunziamo la tua morte,
Signore, proclamiamo
la tua risurrezione,
nell'attesa della tua venuta.

 

Come appare evidente l’atto centrale della messa e il dono di Gesù, la sua immolazione, vengono presentate e qualificate quale mysterium, che costituisce l’oggetto per eccellenza d’un atto di fede. La cosa può essere, non voglio negarlo. Ma resto perplesso sia stata scelta proprio questa definizione, tra le varie ch’erano possibili (sempre che sia e fosse opportuno un simile intervento del popolo, a questo punto della Preghiera eucaristica, cosa che a me sembra francamente discutibile).
Mysterium è la realtà di Dio in quanto realtà inaccessibile, sconosciuta, previa alla rivelazione; ma in Cristo il Padre si è manifestato sino in fondo («Chi vede me, vede il Padre»). Nel sacrificio della croce dovrebbe essere evidenziato più ciò che appare di ciò che resta velato. Non è forse che si voglia suggerire, in tal modo, che la presenza reale di Cristo alla fin fine non si compie nell’Eucaristia, ma resta oggetto di un’attesa ulteriore? Non è forse, quella bella invocazione che segue la consacrazione, una specie di riconoscimento che, tra il momento della sua morte e risurrezione e quello della sua venuta finale, c’è una specie di assenza più che di presenza del Cristo, nella storia e nella Chiesa? Un suggerire che la Chiesa non può far altro che celebrarne la presenza invocandola e attendendola? Non penso sia così, ma una preghiera come questa (con tali parole) collocata proprio a questo punto della celebrazione, non aiuta a credere nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.
Si nota, poi, la solita, arbitraria inversione del tempo dei due verbi che indicano l’azione del popolo, sicché «Et populus prosequitur, acclamans» viene tradotto: «Il popolo acclama dicendo», anziché: «Il popolo dice, acclamando [cioè quale esclamazione di gioia]».
Il «resurrectionem confitemur» è stato tradotto con «proclamiamo la tua resurrezione». Il verbo scelto dal traduttore è assai simile, quasi sinonimo dell’«annunciamo» utilizzato in rapporto alla morte di Cristo. Sarebbe stato meglio ricorrere ad altro, ad esempio al confessiamo (che avrebbe ricordato i «confessori della fede»), o ad una frase del tipo: «professiamo la fede nella tua resurrezione».
Il «donec venias» (=fino a quando verrai) è stato tradotto: «nell’attesa della tua venuta», che è fuorviante. Fa sorgere i dubbi interpretativi, sulla presenza/assenza di Cristo, appena sopra accennati. Eppure, il popolo cristiano non intende dire, con quelle parole, che sente la mancanza del Signore nel suo presente, ma che, nel mentre lo sente presente come risorto, gli promette fedeltà nella testimonianza sino alla fine; ne annuncerà l’amore, giunto al sacrificio di sé, e la vittoria sulla morte, tutti i giorni della sua vita, «fino all’ultimo giorno».

 

 

Memores igitur mortis
et resurrectiónis eius, tibi, Dómine,
panem vitæ, et cálicem salútis
offérimus, grátias agéntes
quia nos dignos habuísti adstáre
coram te et tibi ministráre.
Et supplices deprecámur
Ut Córporis et Sánguinis Christi
partícipes a Spíritu Sancto
congregémur in unum.
Recordare, Domine, Ecclésiæ tuæ
toto orbe diffúsæ, ut eam in caritáte perfícias una cum Papa nostro N.
et Epíscopo nostro N. et univérso clero

Celebrando il memoriale della morte
e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita
e il calice della salvezza,
e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza
a compiere il servizio sacerdotale.
Ti preghiamo umilmente: per la
comunione al corpo e al sangue
di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca
in un solo corpo.
Ricordati, Padre, della tua Chiesa
diffusa su tutta la terra
[e qui convocata nel giorno in cui l’effusione del tuo Spirito l’ha costituita sacramento di unità per tutti i popoli]:
rendila perfetta nell'amore in unione con il nostro Papa N., il nostro Vescovo N., e tutto l'ordine sacerdotale.

 

Memores è stato inteso dal traduttore soprattutto (se non esclusivamente) come sia un richiamo al commemorationem delle parole della consacrazione e, consapevole che si tratta di un celebrare più che di un ricordare mnemonico, ha creduto bene adottare la formula: «celebrando il memoriale».
Per Gesù, però, come abbiamo visto (se pur in breve) il termine commemoratio non è riferito alla sua morte e risurrezione, almeno come tali, ma alla partecipazione fedele al tradetur e all’effundetur che stava facendo di sé, nell’Ultima Cena, e fa di sé, in ogni messa. In altre parole, lo vedeva in rapporto al suo sacrificio: il dono che egli fa di sé – intende dire – deve essere accolto e fatto presente e questa, e questo ogni qual volta avviene, è la commemoratio.
Tra l’altro, memores ha un significato diverso da memorantes; quest’ultimo si presta ad essere tradotto come commemoranti, il primo più semplicemente come ricordanti e credo si potrebbe tradurlo ancor meglio con un consapevoli. Sarebbe da riferire cioè (come spiega l’igitur [=dunque]) all’annunciare e al proclamare di cui hanno appena fatto eco i fedeli. Si riaccenna, infatti, alla morte e resurrezione eius (=di lui) senza altro specificare, ché non serve (pur tuttavia, modificando anche in questo caso, se pur lievemente, la struttura letteraria originaria, il traduttore si permette di scrivere un suo: «del tuo Figlio», al posto di eius. L’accenno al «panem vitae et calicem salutis» non manca, ma viene dopo.
Domine è tradotto, in modo esatto ma arbitrario (è la seconda volta), Padre (qui al vocativo).
«Gratias agentes quia nos dignos habuisti adstare coram te et tibi ministrare», cioè: «Porgendoti grazie perché ci hai ritenuti degni di fermarci davanti alla tua presenza e essere al tuo servizio» non è proprio come è stato tradotto: «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale»; di questo sacerdotale, in particolare, non si parla proprio ed è tutto da dimostrare ch’è sottinteso.
«Et supplices deprecamur ut Corporis et Sanguinis Christi participes a Spiritu Sancto congregemur in unum» è stato tradotto: «Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo», che è traduzione molto di fantasia, per quanto nella sostanza esatta (si fa per dire), in quanto letteralmente il testo è un po’ diverso e dice: «E supplicanti [ti] imploriamo affinché, resi partecipi del Corpo e del Sangue di Cristo, dallo Spirito Santo siamo convocati in unità».
«Recordare, Domine, Ecclesiæ tuæ toto orbe diffusæ, ut eam in Caritate perficias una cum Papa nostro N. et Epíscopo nostro N. et universo clero» è stato tradotto: «Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra [si fa un’aggiunta: e qui convocata nel giorno in cui l’effusione del tuo Spirito l’ha costituita sacramento di unità per tutti i popoli]: rendila perfetta nell'amore in unione con il nostro Papa N., il nostro Vescovo N., e tutto l'ordine sacerdotale». La frase all’originale è bella: si invoca il Padre (ancora una volta chiamato Dominus) per la Chiesa, «la tua Chiesa» e gli si chiede di ricordarla. Anche in questo caso è, da parte del Padre, un ricordare attivo, creatore e apportatore di bene, perché solo se il Padre la ricorda, la Chiesa può essere perfetta nell’unità; forse si poteva perciò tradurre con termini più pregnanti, quali: assisti, proteggi, benedici.
 

Memento etiam fratrum nostrórum, qui in spe resurrectiónis dormiérunt,
omniúmque defunctórum, et eos
in lumen vultus tui admítte.
Omnium nostrorum, quǽsumus,
miserére, ut com beáta Dei Genitríce Vírgine María, beátis Apóstolis
et ómnibus Sanctis, qui tibi a sǽculo placuérunt, ætérna vitæ mereámur
esse consórtes, et te laudémus
et glorificémus per Fílium tuum
Iesum Christum.
Per ipsum, et cum ipso, et in ipso,
est tibi Deo Patri omnipoténti,
in unitáte Spíritus Sancti,
omnis honor, et glória,
per ómnia sǽcula sæculórum.
[Populus respondet:]
Amen

 

Ricòrdati dei nostri fratelli,
che si sono addormentati
nella speranza della risurrezione,
e di tutti i defunti che si affidano
alla tua clemenza: ammettili a godere
la luce del tuo volto.
Di noi tutti abbi misericordia:
donaci di aver parte alla vita eterna,
insieme con la beata Maria, Vergine
e Madre di Dio, con gli apostoli
e tutti i santi, che in ogni tempo
ti furono graditi: e in Gesù Cristo
tuo Figlio canteremo la tua gloria.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente nell'unità dello Spirito Santo
ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.
Il popolo acclama:
Amen

 

A riguardo di quest’ultima parte, le considerazioni linguistiche mi sembrano meno importanti.


Concludo, perciò, facendo notare che, per essere, quella analizzata, una Preghiera eucaristica (uno dei testi essenziali, se non il principale, della liturgia cattolica), si poteva legittimamente aspettarsi la presenza dei caratteri altrettanto essenziali e irrinunciabili:

1) Almeno un accenno all’intercessione dei Santi. E invece no! A parte la Beata Vergine Maria, i Santi sono pressoché dimenticati nella loro concretezza storica (con i loro nomi) e di tutti (compresa Maria) si tace sulla possibilità di considerarli e invocarli quali intercessori nel cammino della vita e della santità personale. Di loro si dice solo l’esistenza in una non meglio definita «vita æterna», della quale si potrà essere, se meritevoli, dei loro consorti. A un confronto con la Preghiera eucaristica I, si nota che, su questo punto il distacco dalla Tradizione è notevole, poco meno che dichiarato l’adattarsi o, almeno, il cercare di non scontrarsi con la sensibilità dei Protestanti.
2) Almeno un accenno al fatto, essenziale, che la Messa è il sacrificio di Cristo, Figlio di Dio. E invece no! Nel testo ufficiale della Preghiera eucaristica, quello in latino, la parola sacrificio non compare neppure, mai! Ed è solo la traduzione in italiano che (in questo caso migliorativa) sente la necessità d’introdurre e usare il termine sacrificio, per quanto poi lo faccia solo una volta. Anche su questo punto il distacco dalla Tradizione della Chiesa cattolica è marcato.
3) Almeno un accenno al sacerdozio e, invece, neppure questo termine, vitale per la Chiesa, compare mai! Nella traduzione italiana (peggiorando in questo caso, come quasi sempre) viene introdotta l’espressione «servizio sacerdotale», sospesa ambiguamente tra il riferirsi al sacerdote (al servizio ministeriale del sacerdote) o al «popolo cristiano» inteso come «popolo sacerdotale».
4) Almeno un accenno a Dio, almeno questo, e, invece, incredibilmente, in questa Preghiera eucaristica Dio come tale non viene mai invocato! Il termine Deus compare due volte (entrambe, tra l’altro, nella parte finale), ma in nessuna delle due come termine a sé stante, bensì in riferimento nel primo caso alla Madonna, nella definizione di Maria quale «Dei Genitrix», e nel secondo in riferimento al Padre, nel «Per ipsum» («…est tibi Deo Patri omnipotenti…»).

C’è di che restare sbalorditi. Sì, credo proprio che qualcuno, anche ad alto livello, negli anni del dopo Concilio (dopo il 1965) fosse entrato in crisi di fede e, pur senza giungere a scelte esplicite contro la fede, ha lasciato traccia delle sue crisi in documenti come questo (che rappresenta) la più infelice delle Preghiere eucaristiche, pur essendo ortodossa, la più povera, quella che ogni sacerdote, veramente amante dell’Eucaristia e consapevole del suo significato, dovrebbe sentire tristezza e fors’anche imbarazzo a utilizzare.

La Chiesa, comunque, va avanti; con l’aiuto di Dio si rinnova e cresce sempre!

don Floriano Pellegrini

(dal n. 485 – I Coi, lunedì 12 marzo 2012)

 

 

Forania di S. Pietro in Carnia
l'impegno dei sacerdoti per il 2012

All'interno del Bollettino Pasquale 2012 di tutte le varie parrocchie della Forania di S. Pietro di Carnia, è stato inserito un corposo fascicolo di ben 12 pagine nel quale i sacerdoti della Forania (i cui nomi specifici tuttavia non compaiono nè in premessa nè nella conclusione finale) presentano ed analizzano il problema della prossima ristrutturazione dei comuni montani, laddove al posto della attempata Comunità Montana verrebbe istituita dalla Regione FVG la cosidetta Unione dei Comuni Montani (puro nominalismo!).
In questo fascicolo si trovano nell'ordine:
- una premessa che vuole spiegare e giustificare questa presa di posizione dei preti
- il testo completo della Legge regionale con tutti i suoi 35 articoli spalmati su ben 8 pagine
- ritagli di stampa locale su questo problema (lettere di cittadini e di politici locali)
- osservazioni e parere dei sacerdoti su questo problema
- indicazioni finali per una revisione/discussione della legge

Prima e ultima pagina dell'allegato pasquale dei preti della Forania di S. Pietro in Carnia - Paluzza


A primo acchito, sono rimasto stupito alla visione di questo inserto (socio-)politico e mi sono subito affrettato (inutilmente) a trovare i nomi degli estensori e questa assenza ha accresciuto lo stupore iniziale. Successivamente ho letto per intero sia la ponderosa legge, sia gli articoli di giornale riportati sia infine le osservazioni e le indicazioni finali di questi preti carnici (innominati).
Al termine di questa lettura, considerando la grave situazione della chiesa cattolica in Italia ed in Carnia in particolare, non ho potuto fare a meno di osservare quanto segue:

- non mi è sembrato affatto giustificabile e motivato che i preti di questa zona della Carnia abbiano voluto mettere naso in faccende che sono tipicamente di pertinenza del legislatore regionale il quale viene eletto dal popolo sovrano ogni 5 anni, così come viene eletto il presidente della Giunta Regionale (attualmente presieduta -per fortuna o purtroppo- dal tolmezzino Renzo Tondo!)
- la situazione delle varie parrocchie della Carnia non mi pare così pacificamente lusinghiera da consentire digressioni e distrazioni di questo tipo o da giustificare questa "dotta" lectio magistralis su una problematica squisitamente politica, che interessa i sindaci (che non desiderano ovviamente perdere prestigio e seggiola) ma anche e soprattutto la gente comune che non è proprio contenta di dover pagare ulteriori pesanti tasse (vedi neonata IMU e consorelle) anche per mantenere una miriade di minuscoli comuni depopolati e altre istituzioni pubbliche obsolete, farragionse quando non inutili o burocraticamente dannose, mai finora soppresse...
- la sonora "lezione" sulla Provincia della Montagna (allora strenuamente sostenuta dal clero carnico/friulano e dalla Curia udinese e poi clamorosamente bocciata dal referendum popolare del 21.3.2004) avrebbe dovuto quantomeno suggerire una certa prudenza nel toccare taluni argomenti, specie se si considera poi che un' eventuale sconfitta "politica" si potrebbe (nuovamente) ripercuotere tout court sulla Chiesa in generale, con danno di immagine e soprattutto di credibilità non quantificabile.
- Appare poi davvero singolare come i preti di Carnia (sempre tiepidini o decisamente ostili alla restauranda Diocesi di Zuglio) si impanchino a disquisire di argomenti prettamente civil-istituzionali, quasi che fosse un dogma la conservazione dei 28 comuni carnici, quando nel contempo (sia pure per la scarsezza di preti e di anime) le varie parrocchie necessariamente "fanno capo" ad un solo economato spirituale, gestito da un unico prete (ecco la Unione delle Parrocchie Montane!). Pertanto non si capisce come quest'ultima "Unione" possa andare bene, mentre quella dei Comuni (seppure di 28) no. Certamente sarebbe auspicabile una VERA fusione dei comuni in macro-comuni di almeno 5000 abitanti, con un solo sindaco, un solo consiglio comunale ecc. oppure (come i preti indicano, sulla falsariga della 4 foranie carniche) prevedere per la Carnia quattro grandi aggregazioni comunali, di circa 10.000 abitanti l'una. Ma in questo caso i sindaci stessi (come sempre) alzerebbero barricate insormontabili, cementate dalla (in questo caso) utilitaristica e immodificabile Costituzione, senza dire che questo specioso argomento tiene inutilmente banco fin dall'ormai lontano 1985 (chiedere informazioni a VTC).

A mio sommesso avviso, un impegno così solenne e determinato dei preti, meritava certamente migliori e più pertinenti argomenti, finora forse troppo trascurati, alcuni dei quali sono "a monte" delle problematiche odierne della Carnia:

* problema dell'aborto volontario (dal 1984 al 2011 a Tolmezzo sono stati eseguiti ben 2541 aborti: esiste forse un' urgenza più impellente di questa, le cui conseguenze, sociali e morali, sono sotto gli occhi di tutti? Si pensi solo al numero di scuole chiuse...
* problema dei divorzi e delle separazioni (le coppie stabili sono ormai una rarità anche in Carnia), con tutte le conseguenze derivanti (bambini disturbati, bambini contesi, liti economiche, sfilacciamento della comunità, perdita dei riferimenti...).
* problema della frequenza alla chiesa, che richiede una nuova evangelizzazione anche per la Carnia. Non a caso Benedetto XVI ha istituito un apposito Consiglio Pontificio, affidato al vescovo Rino Fisichella e non a caso proprio lo scorso Giovedì Santo, 5 aprile 2012, lo stesso Papa rivolgendosi proprio ai preti in "Coena Domini" ha parlato di "analfabetismo religioso, di assenza di zelo per le anime (animarum zelus)...". Si osserva infatti una Carnia che si è talmente uniformata allo spirito della società occidentale attuale, da perdere quasi ogni sua peculiare caratteristica etnologica (presente ormai solo come attrattiva turistica nelle varie sagre estive).
* problema della gioventù, oggi non più raccolta ed attratta dal prete, divenuto da tempo fisicamente "invisibile" anche nella sua comunità, perchè sempre più mimetizzato nei suoi abiti civili a volte stravaganti a volte poco decorosi o decisamente sciatti (esteriormente neppure un colletto bianco e la piccola croce, quando c'è, risulta anch'essa poco visibile se non defilata, spesso un orpello!): che si vergogni forse della tonaca o di essere prete? Egli appare sovente indaffarato in altro o lamentoso nel suo dorato autoisolamento e sempre più aiutato dalla pervasiva corte laica nel disbrigo degli affari correnti, ivi compreso l'insegnamento della dottrina cristiana! I giovani appaiono così abbandonati a se stessi maggiormente nelle età più critiche e indifese, con nefaste visibilissime conseguenze: alcolismo giovanile, tabagismo,
droghe e sballi, sessualismo, trasgressività pericolose (giochi d'azzardo)...
* per ultimo (ma affatto non ultimo) il problema della conservazione della liturgia (leggi articolo successivo) e del canto gregoriano (questo sì misconosciuto patrimonio dell'umanità, altro che le Dolomiti, cara UNESCO!), oggi ormai completamente scomparso dalla scena delle celebrazioni, divenute "creative, spontanee, personalizzate, ad libitum...". Ogni prete è bravissimo ad inventare una sua propria liturgia con innovazioni linguistiche, interpolazioni arbitrarie, canzoncine improbabili, aggiunte personali e spiegazioni superflue che spesso lasciano perplesso il fedele, il quale tra l'altro non comprende affatto (ad esempio) come il sacerdote, durante le (auto)celebrazioni, dia sempre le terga al tabernacolo, dove (a rigor di fede) dovrebbe esserci realmente Cristo-Dio e non (come tutto invece indurrebbe a ritenere) un semplice simbolo/segno della sua presenza... A nulla valgono i richiami e gli esempi del mite e ormai anziano Benedetto XVI, cui forse i luterani e gli anglicani portano più rispetto di taluni preti friulani e carnici.

Sarebbe auspicabile che i preti di Carnia, nel futuro prossimo, si impegnassero anche su questi specifici versanti "non politicamente corretti" e "non mediaticamente remunerativi", che coinvolgono però assai di più e più a fondo di una facile e populistica querelle politica.
Del resto la stessa cattedrale di S. Pietro in Carnia, dove per secoli e secoli si celebrò in latino (oggi ignominiosamente espluso dal tempio) e si predicò in friulano (oggi invece esasperatamente rivendicato e pervasivamente imposto dai friulanisti integralisti epigoni di pre Toni Bellina), esigerebbe almeno questo dai suoi preti, per tornare ad essere quel punto di riferimento religioso e civile di cui la Carnia ha oggi estremo bisogno.

 

La Liturgia fonte e culmine
della missione della Chiesa

All'origine del Movimento Liturgico ci fu la volontà del Papa San Pio X, soprattutto con il Motu proprio «Tra le sollecitudini» (1903), che aveva lo scopo di restaurare la liturgia rendendo più accessibili le sue ricchezze, tornando ad essere la fonte di una vita autenticamente cristiana, mettendo in guardia dal pericolo di una crescente secolarizzazione ed esortando i fedeli a consacrare il mondo a Dio.
Da qui nasce la definizione del Concilio Vaticano II sulla liturgia quale «fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa».
Contro ogni aspettativa, come hanno spesso dichiarato il Beato Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, la realizzazione della riforma liturgica ha talvolta condotto a una sorta di sistematica desacralizzazione, permettendo che la liturgia venisse sempre più pervasa dalla cultura secolarizzata del mondo circostante, perdendo così la sua propria natura e identità: «Questo Mistero di Cristo la Chiesa lo annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1068).
Senza negare i veri frutti della riforma liturgica, si può dire comunque che la liturgia è stata ferita da quelle che Giovanni Paolo II definì «pratiche non accettabili» (Ecclesia de Eucharistia, n. 10) e Benedetto XVI ha denunciato come «deformazioni al limite del sopportabile» (Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio «Summorum Pontificum»). Ne risultarono feriti anche l'identità della Chiesa e il sacerdote.

 

 

Negli anni post-conciliari, abbiamo assistito a una sorta di opposizione dialettica tra i difensori del culto liturgico e i promotori dell'apertura verso il mondo. E poiché questi ultimi [ad esempio: Zanotelli, Ciotti, Gallo, Della Scala, Di Piazza...] finivano per ridurre la vita cristiana a soli sforzi sociali, basandosi su un'interpretazione secolare della fede, i primi [ad esempio: Lefèvre e seguaci], per reazione, si rifugiavano nella pura liturgia fino al punto del «rubricismo» [= adesione maniacale ed astratta alla prescrizione], col rischio di spingere i fedeli a proteggersi eccessivamente dal mondo.
Nell'Esortazione Apostolica «Sacramentum Caritatis», Papa Benedetto XVI mette fine alla controversia e unifica tale contrapposizione. L'azione liturgica deve riconciliare fede e vita. Proprio come la celebrazione del Mistero pasquale di Cristo realmente si attualizza in mezzo al suo popolo, la liturgia dà forma eucaristica all'intera vita cristiana rendendola «un'offerta spirituale a Dio gradita». Pertanto, sia l'impegno dei cristiani nel mondo che il mondo stesso, sono chiamati a consacrarsi a Dio mediante la liturgia. L'impegno dei cristiani nella missione della Chiesa e nella società trova infatti sorgente e impulso nella liturgia, fino a venire attirati nel dinamismo dell'offerta dell'amore di Cristo che ivi si rende presente.
Il primato che Benedetto XVI intende dare alla liturgia nella Chiesa - «Il culto liturgico è l'espressione suprema dell'esistenza sacerdotale ed episcopale», egli disse ai vescovi di Francia riuniti a Lourdes in Assemblea Plenaria straordinaria il 14 settembre 2008 - è tale da ricollocare l'adorazione al centro della vita del sacerdote e dei fedeli. Al posto del «cristianesimo secolare», che ha spesso accompagnato la realizzazione della riforma liturgica, Papa Benedetto XVI intende promuovere un «cristianesimo teologico», l'unico capace di servire quella che egli ha definito essere la priorità in questa fase storica, cioè «rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l'accesso a Dio» (Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo 2009). Dove infatti meglio che nella liturgia, il sacerdote approfondisce la propria identità, eccellentemente definita dall'autore della Lettera agli Ebrei: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5, 1) ?
L'apertura verso il mondo richiesta dal Vaticano II è stata spesso interpretata, negli anni successivi al Concilio, come una sorta di «conversione alla secolarizzazione». Tale atteggiamento non mancava di generosità, ma portava ad oscurare l'importanza della liturgia e a minimizzare l'osservanza dei riti, considerati troppo distanti dalla vita del mondo che doveva essere amato e col quale occorreva entrare in piena sintonia, fino ad esserne affascinati. Ne è risultata una grave crisi d'identità del sacerdote, il quale non riusciva più a percepire l'importanza della salvezza delle anime e l'obbligo di annunciare al mondo la novità del Vangelo di Salvezza.
Indubbiamente, la liturgia è il luogo privilegiato per approfondire l'identità del sacerdote, che è chiamato a «combattere la secolarizzazione» poiché, come il Signore Gesù dice nella sua preghiera sacerdotale: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità» (Gv 17, 15-17).
Ciò sarà certamente possibile con un'osservanza più rigorosa delle norme liturgiche che preservano il sacerdote dal desiderio, anche inconscio, di attirare l'attenzione dei fedeli sulla sua persona: il rituale liturgico che il celebrante è chiamato a ricevere filialmente dalla Chiesa, permette infatti ai fedeli di accostarsi più facilmente alla presenza di Cristo Signore, di cui la celebrazione liturgica è segno efficace e che sempre deve essere al primo posto.
La liturgia è ferita quando i fedeli sono lasciati all'arbitrarietà del celebrante, alle sue stranezze, alle sue idee personali od opinioni, alle sue stesse ferite. Ne deriva l'importanza di non banalizzare i riti poiché, strappandoci dal mondo secolare e dunque dalla tentazione d'immanentismo, essi hanno il dono di farci immergere subito nel Mistero e di farci aprire al Trascendente.
Al riguardo, non si sottolinea mai abbastanza l'importanza del silenzio che accompagna la celebrazione liturgica, come in un santuario interiore, nel quale siamo liberati dalle preoccupazioni – anche legittime – del mondo secolare, ed entrare nello spazio e nel tempo sacro dove Dio rivela il suo Mistero; non si sottolinea mai abbastanza l'importanza del silenzio nella liturgia per divenire più disponibili all'azione di Dio; e ancora non si sottolinea mai abbastanza la necessità di un tempo congruo per il ringraziamento, integrato o meno con la celebrazione, per cogliere intimamente la portata della missione che ci attende, una volta tornati nel mondo. L'obbedienza del sacerdote alle rubriche è anche in sé un segno eloquente e silenzioso del suo amore per la Chiesa, della quale egli non è che ministro, anzi servitore.
Da qui deriva pure l'importanza della formazione nella liturgia dei futuri sacerdoti, e specialmente nella partecipazione interiore, senza la quale la partecipazione esteriore invocata dalla riforma, sarebbe senz'anima e favorirebbe una comprensione parziale della liturgia, che si esprimerebbe in termini di eccessiva teatralità dei ruoli, in un cerebralismo riduttivo dei riti e in un'autocelebrazione abusiva dell'assemblea. Se la partecipazione attiva – principio operativo della riforma liturgica – non è l'esercizio del «senso soprannaturale della fede», la liturgia non è più l'opera di Cristo, ma degli uomini. Insistendo sull'importanza della formazione liturgica dei sacerdoti, il Concilio Vaticano II ha fatto della liturgia una delle principali materie degli studi ecclesiastici, evitando di ridurla a una formazione puramente intellettuale. In effetti, prima di essere oggetto di studio, la liturgia è viva, o meglio, «trascende la vita di ciascuno per fonderla con la vita di Cristo». E' l'immersione massima di ogni vita cristiana: immersione nel senso della fede e nel senso della Chiesa, nella lode e nell'adorazione, e nella missione.
Siamo chiamati perciò a un vero «Sursum corda». L'invito del prefazio, «in alto i nostri cuori», introduce i fedeli al cuore dei cuori della liturgia: la Pasqua di Cristo, il suo passaggio cioè da questo mondo al Padre. L'incontro di Gesù risorto con Maria Maddalena la mattina della risurrezione, è molto significativo in questo senso: dicendo «Noli me tangere», Gesù invita Maria Maddalena a «guardare alle cose di lassù», facendole intuire nel suo cuore che egli non è ancora asceso al Padre, e chiedendole di andare a dire ai suoi discepoli che egli deve tornare al suo e nostro Dio, Padre suo e nostro. La liturgia è esattamente il luogo di questa elevazione, del tendere verso Dio che dà alla vita un nuovo orizzonte, il suo decisivo orientamento. Purché noi non la trattiamo come materiale a disposizione delle nostre manipolazioni fin troppo umane, ma osservando, con filiale obbedienza, le prescrizioni della Santa Chiesa.
Come dichiarò Papa Benedetto XVI alla conclusione della sua omelia nella solennità dei Santi Pietro e Paolo nel 2008: «Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo».

Marc Aillet, vescovo di Bayonne (France)
(testo dell'intervento pronunciato presso la Pontificia Università Lateranense, a Roma, l’11 marzo 2010)

[grassetti, sottolineature e contenuto blu in parentesi quadre sono del curatore]

 

Volendo semplificare...

L'azienda FS (la Chiesa) affida al macchinista (prete) il treno (apparato liturgico-sacramentale) affinchè svolga in sicurezza (ortodossia) il suo compito per la collettività (fedeli).
Il treno
(liturgia-sacramenti) dunque non è di proprietà del macchinista (prete) ma di FS (Chiesa) che glielo affida.
Il macchinista (prete) deve avere cura assoluta del treno (liturgia-sacramenti) affidatogli, ne risponde personalmente ed è obbligato a rispettarne i regolamenti, i divieti, i limiti di velocità ecc. (rubriche, paramenti, omelia...) che l'azienda (Chiesa) ha posto in essere per la sicurezza (benessere spirituale) dei passeggeri (fedeli), pena incidenti ferroviari gravissimi (disorientamento dei fedeli, sospensione a divinis, apostasie, scismi...), proprio perchè la inosservanza di leggi e regolamenti, ritenuti a volte dallo stesso macchinista (prete) obsoleti o avulsi dal reale, porta a inescusabili, seppur prevedibili, tragedie...
Inoltre il macchinista (prete) non può decidere chi far salire o meno sul treno (liturgia-sacramenti) ma ciò è consentito a tutti coloro (fedeli) che rispettano le regole d'ingresso e ne comprendono la validità (accettano le indicazioni della Chiesa).
Il macchinista (prete) dunque non può disporre personalmente di nulla, ma tutto deve egli fare in conformità a quanto deciso da FS (Chiesa) per la sicurezza dei passeggeri (fedeli).
Questo non significa affatto (e nessuno si sognerebbe mai di pensarlo) che egli (prete) sia schiavo o sottomesso a FS (Chiesa), ma semplicemente che, dotato di buon senso ed intelligenza (fede), egli (prete) ritiene logiche, utili, necessarie e plausibili le regole scritte dall'azienda FS (Chiesa), affinchè i passeggeri (fedeli) giungano incolumi (ancora credenti) a destinazione (eterna).
Il macchinista saggio ed intelligente non va allo scontro con FS per abolire o modificare un regolamento che a lui può sembrare inutile e superfluo, ma che ha comunque consentito una positiva gestione aziendale; egli sa bene infatti che la scrupolosa osservanza delle regole, oltre a salvaguardare i passeggeri, mette al riparo lui stesso da eventuali responsabilità in sempre possibili incidenti.
Se è convinto della necessità di qualche modifica o abrogazione regolamentare, scrive al diretto superiore, attende risposte, riflette ancora, ma non giunge mai a modificare unilateralmente e autonomamente una regola o una legge aziendale!
Se non giunge risposta alle sue richieste (perchè i dirigenti non ne vedono la necessità) e la conduzione del treno gli risulta ogni giorno più onerosa e stressante, oltre che pericolosa per gli stessi passeggeri, il macchinista onesto sollecita per sè, se possibile, un'altra mansione all'interno dell'azienda che lo soddisfi maggiormente e che sia compatibile con le sue qualità; diversamente lascia (seppure a malincuore) quel treno e quell'azienda e si rivolge ad altra azienda che gli metta a disposizione altro treno, il cui regolamento attuativo sia più vicino al suo modo di vedere e di pensare (oltre che di agire). In questo modo il macchinista onesto riprende una vita personalmente migliore, non mette in pericolo i passeggeri a lui affidati e ne ricava anche sollievo psicologico offrendo per giunta una produttività più elevata.

 

L'Eucarestia nella Diocesi di Zuglio
heri et hodie

In Carnia, osservando la stragrande maggioranza delle celebrazioni eucaristiche che si svolgono nei vari paesi, si ha la netta percezione che la fede e la venerazione nella Eucarestia si sia molto affievolita, quando non del tutto scomparsa. I segnali sono evidentissimi e numerosi: cercheremo qui di esporli in maniera ordinata. Per facilitarne la comprensione, adotteremo uno schema assai semplice: esporremo gli atti ed i gesti che erano presenti prima del Concilio e gli atti e i gesti rimasti o sopravvenuti dopo l'interpretazione unilaterale del Concilio. In breve dunque:

1. Il tabernacolo
PRIMA: era il centro fisico e spirituale della chiesa, verso il quale erano orientate l'attenzione e la venerazione dei fedeli; il fedele si genufletteva ogniqualvolta vi passava innanzi; il celebrante era sempre rispettosamente rivolto ad esso con continue genuflessioni ed inchini durante la messa; il lume rosso, accanto ad esso, era sempre acceso a significare una presenza viva; il colore del velo coprente la porticina era sempre congruo al tempo liturgico; vi era grande rispetto perfino per la chiave della porticina; durante qualsiasi celebrazione erano sempre accese le candele ai suoi lati.
DOPO: il celebrante non "si nasconde più in Cristo" ma a tratti nasconde Cristo ed è divenuto egli stesso centro della celebrazione (più che alter Christus pare divenuto a volte un Christus Christus); egli dà costantemente le terga al tabernacolo (quando c'è ancora) come pure i chierichetti/e (o ministranti, come si chiamano oggi); tutti questi protagonisti si siedono davanti ad esso dandogli sempre le spalle; i cori che accompagnano incessantemente la celebrazione (o quelli che si esibiscono nelle ricorrenti varie rassegne corali) si posizionano sempre davanti al tabernacolo non solo dandogli le terga, ma addirittura coprendolo totalmente alla vista dei fedeli; a volte il lume rosso non esiste più o viene posto a distanza "di sicurezza" per cui perde il significato originario; il velo che orna la porticina spesso non viene adeguatamente sostituito secondo le cadenze temporali liturgiche (in una chiesa di Carnia questo velo è rimasto bianco per tutta la Quaresima, perdendo quindi il suo significato ed il suo richiamo); spesso durante le celebrazioni nessuna candela viene mai accesa lateralmente al tabernacolo. Addirittura nella "cappella invernale" di una chiesa di Carnia, il tabernacolo, posto lateralmente all'altare-tavolino post-conciliare, è stato ricavato da un mobile-armadio di legno impiallacciato dismesso (tipo pensile di cucina!), dove sono assenti del tutto il decoro dignitoso ed il rispetto, mentre abbondano il pressapochismo e la sciatteria.

2. L'ostensorio
PRIMA: era il veicolo per eccellenza dell'Eucarestia e veniva usato nelle benedizioni solenni, quando era intronizzato sopra il tabernacolo; durante la benedizione il celebrante, per grande rispetto, non lo toccava ma usava il velo omerale per sorreggerlo; al termine riponeva l'ostia in un reliquiario all'interno del tabernacolo mentre l'ostensorio vuoto veniva coperto della sua custodia; esisteva anche la benedizione semplice con la sola pisside, coperta dal velo omerale.
DOPO: ogni tanto compare ancora l'ostensorio, ma a volte si vede che viene quasi usato controvoglia; la benedizione con la pisside non esiste più (solo nella processione di reposizione del Venerdi Santo riemerge questa coppa contenente le ostie); nella famosa "cappella invernale" di cui sopra, l'ostensorio (dopo la benedizone) viene riposto nel mobile-armadietto di legno, con l'ostia dentro e coperto dalla sua custodia, come fosse una suppellettile.

3. La distribuzione dell'ostia
PRIMA: il celebrante, una volta che aveva consacrato l'ostia durante la Messa, per sommo rispetto e venerazione, non disgiungeva più il pollice e l'indice delle due mani (con i quali aveva sostenuto l'ostia) e ciò avveniva fino al successivo lavaggio delle mani, che egli eseguiva dopo aver distribuito la comunione ai fedeli. Ma vediamo con attenzione questo particolare:

nec amplius pollices et indices disiungit, nisi quando hostia tractanda est, usque ad ablutionem digitorum (nè disgiungerà più i pollici e gli indici, se non per toccare l'ostia, fino al lavaggio delle dita): così era scritto sul messale! E non li disgiungeva più nè per girare le pagine del messale (che erano dotate di appigli di pelle laterali per facilitare la presa dei fogli con le restanti dita) nè per afferrare il calice (il cui stelo era retto tra indice e medio, mentre pollici e indici rimanevano sempre congiunti), nè per benedire, nè per qualsiasi altro motivo. Non solo, ma al termine della distribuzione della comunione ai fedeli

Abluit et extergit digitos, ac sumit ablutionem: extergit os... (Lava e asciuga le dita - sopra il calice- e poi beve l'acqua: si asciuga la bocca...). Insomma il celebrante, sempre per il sacro rispetto dovuto all'Eucarestia, si lavava le dita (con cui aveva toccato l' ostia sua e quelle distribuite ai fedeli) e beveva poi l'acqua con cui si era lavato le 4 dita!
DOPO:
il celebrante non cura più questi particolari (ritenuti eccessivi, obsoleti o medioevali) ma con le stesse dita con cui tratta l'ostia consacrata, tocca tutto ciò che gli capita a tiro, si soffia anche il naso o si gratta la testa (sollevando tra l'altro anche una piccola questione igienica). Se poi la distribuzione della comunione viene compiuta anche da qualche "addetto" laico (o laica), la situazione si fa anche imbarazzante. Ho assistito di recente in una chiesa di Carnia a questo fatto: l'aiutante laico del celebrante (vestito di camice bianco) durante la messa solenne compì in successione i seguenti atti: all'offertorio passò di banco in banco a raccogliere le offerte (sia a mano che nella borsa); alla comunione "aiutò" il parroco a distribuire le ostie ai fedeli; ripose poi la pisside al tabernacolo; al termine della Messa, sempre in camice bianco, si piazzò all'uscita della chiesa per distribuire il comunicato-stampa parrocchiale. Tutti questi atti furono compiuti uno di seguito all'altro, con estrema naturalezza, senza alcun lavaggio di mani (nè prima nè dopo) e senza alcun gesto di rispetto nei confronti dell'Eucarestia (e credo anche dell'igiene, sia fisica che spirituale), sollevando nei fedeli un dubbio amletico: è stata sacralizzata la questua o desacralizzata l'Eucarestia? Ai contemporanei l'ardua sentenza...

4. La ricezione dell'ostia
PRIMA:
vi era il digiuno dai cibi solidi dalla mezzanotte e di tre ore dall'assunzione di liquidi; tutti i fedeli si appressavano alla balaustra ed in ginocchio ricevevano l'ostia in bocca dalle mani (sempre pulite) del sacerdote che accompagnava il gesto con la frase "Corpus DNJC custodiat animam tuam in vitam aeternam. Amen". Nessuno di coloro che ricevevano la comunione osava cantare o aprire bocca ma ciascuno era concentrato su questo atto di fede unico ed enorme.
DOPO: il residuo suggerito digiuno di un'ora dal cibo pare del tutto superato e ciascuno riceve la comunione anche a stomaco pieno. La processione che si svolge è assimilabile a tutto fuorchè all'andata a ricevere il Corpo di Cristo: tutti cantano (perfino il celebrante a volte), chi saluta l'amico, chi fa il cavaliere con la donna che deve entrare nella fila, chi chiacchera, chi infine si guarda in giro. Vi è poi chi la riceve ancora direttamente in bocca, chi apre il palmo della mano, chi apre le due mani... e tutti in piedi come ad un... buffet (absit injuria verbis), dove ci si sforza di cantare a volte anche con l'ostia in bocca o addirittura con essa ancora in mano!

5. I canti di accompagnamento
PRIMA:
i testi dei canti in latino erano delle vere e mirabili sintesi teologiche che, una volta spiegate ai fedeli, avevano il pregio di richiamare i fondamenti della fede nei momenti salienti della liturgia; si ricordino a tal proposito: "Adoro te devote", "Ave verum", "O via vita veritas", "Panis angelicus", "Ubi caritas", "O salutaris hostia"... Quelli in italiano, seppure a volte candidamente semplici, esprimevano pure dei concetti basilari: "In quell'ostia", "T'adoriam". Vi erano poi dei canti conclusivi particolari che rilanciavano i doveri ed anche l'orgoglio del cristiano, come: "Noi vogliam Dio", "Qual falange" e "Io sono cristiano" che, se oggi fanno sorridere più di qualche cattolico adulto, avevano la caratteristica di rinsaldare in un idem sentire le folle (autentiche folle) che partecipavano alle funzioni.
DOPO: le melodie odierne (a volte stancamente strascicate alla comunione) ricalcano spesso (anche nei testi) espressioni protestantiche che sottolineano solamente l'aspetto della cena e della mensa del Signore, trascurando del tutto il mistero eucaristico fondamentale. Talune canzoncine (o canzonette?) appaiono perfino incomprensibili nel loro testo rigorosamente italiano; altre sono davvero svenevoli e nulladicenti, che ben si adattano al tipo di cattolicesimo odierno propugnato da taluni preti: rinunciatario, pauroso delle proprie proposte e recalcitrante, quasi catacombale e mimetico, desideroso di adattarsi alle mode e confondersi nella società odierna.

C o n c l u s i o n i
Non si pretende certamente di tornare indietro di 50 anni per ripristinare nei minimi dettagli antiche liturgie, ma sussiste ovviamente qualcosa che stona e stride, considerando che questi gesti esteriori pubblici, introdotti o sostenuti o avvallati dagli stessi sacerdoti, non aiutano certamente ad avere o conservare ancora la fede nell'Eucarestia, fondamento basilare della religione cattolica, poichè insinuano il fondato dubbio che neppure i preti ci credano più. E non si tratta, come si è visto, solo di forma o formalismi: in questo caso la forma diventa sostanza. A che vale infatti una giornata dell'anno dedicata al Corpus Domini (con tutta la transeunte sfarzosità della ricorrenza) quando per i restanti 364 giorni se ne misconosce, nella pratica quotidiana, la realtà? Non è forse ipocrisia cattolico-teologica questa?

A ben osservare, parrebbe che, almeno in tanta parte della Diocesi di Zuglio (e della Arcidiocesi di Udine), si sia silenziosamente affermato un luteranesimo pratico diffuso, mascherato da finto cattolicesimo. Basta infatti andare su YouTube e osservare lo svolgimento di alcuni riti anglicani o protestanti (spesso più show o parodie che celebrazioni liturgiche, dentro gremiti palasport o chiese disadorne prive di tabernacolo), dove le miniprediche, le battute, le risate, gli applausi, spesso la sciatteria fanno parte integrante di quella liturgia, simile tantissimo ormai ad alcune estemporanee celebrazioni carniche (ma anche friulane, eccome). Più di qualche prete nostrano appare nei fatti fortemente suggestionato o attratto dal luteranesimo, considerando che, mentre la liturgia anglo-protestante non è mai mutata, quella cattolica sì, eccome, avvicinandosi chiarissimamente soprattutto a quella anglicana: ma in questo caso però, ad una brutta e indistinta copia nostrana, sarebbe di gran lunga preferibile l'originale tout court per poter "dialogare" apertis verbis da ben definite, legittime e non confuse posizioni...

E che potrà mai fare di più il mite e umile ma grande (e troppo incompreso) teologo Benedetto XVI con le sue direttive pastorali ed il suo esemplare comportamento personale, per convincere i "suoi" preti (e i "suoi" vescovi) ad imitarlo almeno in questo, correggendo evidenti comportamenti anomali o abusivi, da cui poi derivano conseguenze ben più decisive a livello di fede personale?

Per tutti questi motivi ritengo che la cattedrale di S. Pietro in Carnia possa avere un importantissimo ruolo nel recupero e nella salvaguardia di una Fede che, anche nella nostra terra, sta cedendo giorno dopo giorno, passo dopo passo, alle facili ed allettanti performance di un Occidente sempre più protestantizzato (il successo economico-finanziario è segno della benevolenza divina!), annoiato, distratto e sazio di superfluo benessere (quousque tandem?) ma sempre più (inconsapevolmente) assetato del Dio nascosto (Deus absconditus), come indirettamente provano (anche in Carnia) i sempre più numerosi approcci a new age, orientalità varie ed esoterismo.

 

SCENSE 2012
una ripetizione solenne che si rinnova

Domenica 20 maggio, sul colle di S. Pietro di Zuglio si è svolta la grande celebrazione della Scense con la partecipazione di moltissime persone (oltre 1500), favorita da una giornata di sole, seppure discretamente fredda e a tratti ventosa. Sul Plan da Vincule si sono ritrovate alle ore 11 le 70 croci astili, ornate di nastri multicolori e di fiori di prato, provenienti oltre che dalle comunità cristiane del canale di S. Pietro, anche da quelle di quasi tutta la Carnia e alcune perfino dalla collina e dalla pianura; puntuale come sempre anche la croce di S. Elisabetta di Mauthen (Carinzia).
Quest'anno la cerimonia ha presentato alcune significative novità:
- il nuovo Prevosto di Zuglio, mons. Giordano Cracina, ha ravvivato con gesti nuovi ed eloquenti i momenti salienti precedenti il "bacio delle croci", indirizzando parole di saluto e di gratitudine ai convenuti. In particolare si è voluto dare rilievo speciale alle croci astili delle antiche Pievi di Carnia presenti sul Plan da Vincule (erano però ancora inspiegabilmente assenti quelle di Cesclans, di Illegio, di Verzegnis... i cui parroci forse non avvertono ancora la peculiarità di tale evento).
- La cerimonia, attentamente seguita da una fitta corona di fedeli disposti sui prati attorno, ha poi seguito la traccia consueta con la chiama delle croci ed il "bacio" a quella della chiesa madre di S. Pietro, sorretta dal nuovo cruciferario, sotto la regia del nuovo cerimoniere in cappa rossa, Celestino Vezzi. Oltre a quest'ultimo, hanno preso parte alla liturgia altre persone (del tutto nuove in questo ruolo) che vi hanno aggiunto una nota sicuramente apprezzabile per l'impegno, la serietà, la dedizione e la totale assenza di rispetto umano.
- La Messa Grande, celebrata all'interno della pieve-cattedrale, è stata presieduta dall'arcivescovo di Udine, mons. Andrea Mazzocato, che pur essendo veneto, si è sforzato di pronunciare qualche frase in lingua friulana ed ha indirizzato ai fedeli un'omelia in verità assai generica, buona per ogni circostanza, che non ha saputo cogliere il profondo significato di questa festività per la Carnia, limitandosi a tal proposito ad auspicare che la fede cristiana possa resistere a lungo nei nostri paesi (un lieve malore ad uno degli astanti attorno all'altare ha richiesto l'intervento del soccorso medico e ciò ha creato un minimo trambusto). Il Vangelo è stato cantato in friulano da mons. Dereani, i canti principali sono stati eseguiti in friulano (e, in parte, in tedesco) sotto la magistrale direzione di Anna Quaglia. Sarebbe stato forse più rispettoso nei riguardi degli ospiti austriaci e italiani (non friulanofoni) celebrare l' intera Messa in latino (ne è stato cantato solo il Pater Noster) con l'omelia in friulano (con traduzione simultanea in italiano e tedesco): ma forse si pretende troppo, per ora, dal neo-Prevosto! Tuttavia i vari commenti ascoltati puntavano proprio in questa direzione.
- Al pomeriggio (assoluta e positiva novità), a chiusura della solenne festività, sono stati cantati i Vesperi in latino, riprendendo una antica consuetudine che dopo il Concilio Vaticano II, era andata completamente in oblio o soppressa, a favore di messe vespertine dedicate ai girovaghi della domenica o a favore di ripetitivi rosari serali (vedi intervento successivo). Sarebbe davvero opportuno che i Vesperi (in latino) recuperassero il ruolo che essi hanno da sempre ricoperto, essendo i Vesperi l'unica "preghiera" che ci lega direttamente alla più antica tradizione ebraica (i salmi) che anche i nostri fratelli maggiori ebrei recitano o cantano. I Vesperi sono davvero una preghiera ecumenica che va assolutamente riscoperta e rivalutata perchè, diversamente da altre forme di preghiera cattolica, sono in grado di mettere in diretta comunicazione spirituale ebrei, ortodossi, protestanti, anglicani e cattolici, che riconoscono nei Salmi una solidissima base comune, saldamente ancorata nella Bibbia.
- La presenza ufficiale (per la prima volta) del Sindaco di Zuglio con fascia tricolore e labaro comunale (ha tenuto una breve prolusione sul Plan da Vincule) e quella ufficiosa del Presidente della Provincia di Udine (Pietro Fontanini) hanno impresso una nota di particolare rilievo civile ad una manifestazione prettamente religiosa che esprime però anche elementi storico-culturali che affondano le loro radici nei due millenni passati.

 

Duole comunque rimarcare come, oltre ai quei quattro... preti della valle del But (i reverendissimi Cracina, Puntel, Dereani, Della Pietra), nessun altro prete di Carnia partecipi mai alla Scense, pur essendo questa l'unica celebrazione liturgica in grado di unire davvero la Carnia e l'Alto Friuli, non solo dal punto di vista civile ma soprattutto religioso: basti ricordare che in Friuli, in epoca paleocristiana, l'unica sede episcopale (suffraganea di Aquileia) era solo Iulium Carnicum con il suo vasto territorio che ricalcava esattamente il municipium romano!
Queste assenze non si giustificano affermando che il rito del "bacio delle croci" risale ad un'epoca successiva (quella plebanale) quando erano già sorte anche le altre Pievi di Carnia che nulla avrebbero avuto in comune con S. Pietro di Zuglio: è un alibi davvero inconsistente e vacuo per chi non vuole mai parteciparvi nè dare una testimonianza di unità nella fede cristiana.
Se neppure tra i cattolici carnici dunque si realizza l' evangelico "ut unum sint", come si può obiettivamente ritenere che possa realizzarsi ad altri più elevati e complessi livelli ecumenici?
E se neppure i sacerdoti (che magari reclamano a parole un ritorno alle origini della Chiesa) non partecipano a questa "unitaria" paleo-liturgia (seppure venata e successivamente irrobustita da tradizioni varie e folklore) presieduta dal loro arcivescovo, come si può poi pretendere che vi prendano parte i fedeli? Dove sono dunque in questo giorno, solenne per tutta la Carnia, i sacerdoti di Tolmezzo, di Paularo, di Cavazzo, della Val Degano e della Val Tagliamento e della Val Pesarina?

Nel contempo il becero campanilismo (letteralmente inteso) trova terreno fertilissimo in Carnia:
- quelli di Illegio e circondario ignorano del tutto la Scense a S. Pietro, attribuendo autoreferenzialmente alla Pieve di S. Floriano una rilevanza ed una centralità mai avute e trincerandosi ed esaltandosi nella "loro" pur importantissima annuale Mostra di Arte Sacra di carattere internazionale (ottima vetrina per gli organizzatori, quest'anno visitata perfino dal Presidente Napolitano il 29 maggio ed omaggiata sempre da vescovi e cardinali).
- Ma i preti di Gorto (tenaci sostenitori e animatori della Scense di S. Pietro nei mitici anni di pre Toni Bellina) li superano di gran lunga: questi hanno addirittura "inventato" un loro "bacio delle croci" che si svolge nella Pieve di S. Maria di Gorto (credo il giorno di S. Marco), dove giungono i rappresentanti di tutte le parrocchie filiali di questa antica Pieve per un analogo rito su quel colle e dove, in Rogazione, si invoca la protezione divina non solo dai terremoti e dalle carestie ecc. ma perfino... dai cinghiali (e perchè no dalle vipere?), in una totale anarchia liturgica friulanofona che sfiora la parodia!

Se poi qualche sacerdote carnico (invero mai presente alla Scense) preferisce (negli stessi giorni) ospitare, andare al seguito e farsi ritrarre su tutti i mass media locali con Sua Santità Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama (piuttosto che con Sua Santità Benedetto XVI), che mai ne potrà venire di buono e di edificante per il Popolo di Dio? Forse che la compassione e la misericordia buddiste sono migliori di quelle predicate da Gesù di Nazareth e trasmesse dalla sua Chiesa? Davvero bisogna andare "oltre le religioni", magari elidendo la propria (cui forse, legittimamente, non si crede più) per un atto di umana carità nei confronti degli altri, che eventualmente non rinunciano alla loro?

Ma non basta. I preti di "Glesie Furlane" (fedeli epigoni di pre Toni Bellina, maggiormente concentrati in Carnia e nella pedemontana e sempre assenti alla Scense), osteggiarono in ogni modo la prima e unica venuta in Friuli di papa Wojtyla nel 1992 (sollevando un polverone sulla ghiotta stampa locale: vai a leggere ora i resoconti di allora su internet!); non parteciparono assolutamente alla celebrazioni in Aquileia nel maggio 2011 con papa Ratzinger (grandissimo e mite papa dalla rassicurante forza tranquilla che, non a caso, ha indicato il prossimo 2013 come Anno della Fede e della Ri-evangelizzazione). Per l'arrivo invece del Dalai Lama XIV in Friuli hanno pubblicato una lettera aperta di benvenuto a "Sua Santità" su "La Patrie dal Friûl" del maggio 2012, pagina 16, in cui non solo si esalta e si ringrazia questa figura politico-religiosa tibetana, ma si giunge perfino a paragonare la situazione e la storia del Tibet a quella del Friuli azzardando un fantomatico quanto assurdo e spericolato parallelismo tra la figura dei Dalai Lama e quella dei Patriarchi di Aquileia (biât Friûl e plui biât Tibet)...

Come si vede, taluni preti locali (spesso autoproclamati e reclamizzati operatori culturali o sociali più che silenziosi mediatori del sacro) paiono fortemente suggestionati dalle orientalità mistiche e dal derivante ostentato pauperismo e bramano in cuor loro forse una ideale tunica arancione, che oggi, nella annoiata e opulenta (per quanto ancora?) società occidentale, fa certamente più tendenza e dà maggiore visibilità della scomparsa e lisa (ma gloriosa) tonaca nera, del tutto ignota ai preti carnici e friulani odierni, che preferiscono spesso una banale ordinarietà e a volte una mimetizzante sciatteria esteriore...

[ Mi piace qui ricordare a tal proposito un brano di Vangelo di Giovanni (19,23): "... i soldati, dopo aver crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato; poi presero anche la tunica ma, essendo senza cuciture e tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo (inconsutilis desuper contexta per totum), dissero: Non la stracciamo ma tiriamola a sorte a chi debba toccare...". Da questo contesto, si ricavano tre considerazioni:
1. Cristo non vestiva nè in maniera trasandata e sciatta (finto-proletaria o casual, diremmo oggi) nè in modo ricercato o raffinato (griffato, diremmo oggi); la tunica tessuta tutta d'un pezzo costituiva un capo di abbigliamento assai dignitoso e pregevole, al punto che i soldati, dopo aver diviso le altre sue sobrie vesti, ritennero utile salvaguardare la tunica attribuendola intera ad un solo soldato.
2. E se la tunica di Cristo fosse davvero la metafora dell'abbigliamento del prete ("alter Christus"), sobrio, dignitoso, visibile?
3. Se Cristo fosse andato vestito come taluni preti odierni, che avrebbero fatto i soldati romani del suo abbigliamento?
]

Se dunque gli stessi sacerdoti di Carnia sono tra loro isolati e contrapposti perfino nelle celebrazioni liturgiche (che invece dovrebbero essere animate da spirito di unione e di carità), o addirittura sono galvanizzati dalle ammirate religiosità orientali, che potrà mai avvenire nei tempi prossimi?

Ecco spiegato perchè la Provvidenza, per salvaguardare e mantenere ancora quel po' di fede cristiana rimasta in Carnia ed in Friuli, non suscita più preti nella (arci)Diocesi di Udine (e nella sua virtuale "suffraganea Diocesi di Zuglio")!

 

IL ROSARIO
la consuetudine delle preghiere ripetitive


I primi Padri del Deserto del IV e V sec. d.C., già usavano cordicelle o stringhe annodate per la memorizzazione della preghiera ripetitiva, di chiara e sicura derivazione orientale-indiana.
Da una radice indiana shivaita, anche il mondo islamico ha tratto l’abitudine di recitare in sequenza ripetitiva i novantanove nomi di Allah, servendosi di apposite catenelle di novantanove semi ("rosario islamico").
Un' analoga tradizione esiste da sempre nel mondo buddhista-tibetano, e pare sempre derivato da una radice hinduista (con possibili successive influenze musulmane). Simbolo di un ciclo infinito, l'Akshamala trova la sua prima testimonianza nelle raffigurazioni delle grotte di Ajanta, risalenti al II° secolo a.C. Per quest'ultimo motivo l' Akshamala è noto anche come “rosario Buddhista”: la sua funzione principale è appunto quella di mantenere il calcolo delle preghiere senza distrazioni. Il rito prevede infatti che ad ogni preghiera la mano destra sposti uno dei grani in senso orario, mantenendo un profondo rapporto con i rituali buddhisti, che si svolgono sempre in senso orario. I grani che compongono l' Akshamala sono 50, e corrispondono alle 50 sillabe mistiche principali, ma ve ne sono anche di 108, numero molto simbolico all'interno delle tradizioni Buddhista ed Hinduista. Il numero 108 è infatti considerato “numero sacro”, in molte regioni indiane, legato alle pratiche dello yoga e del Dharma.
La storia del Rosario cristiano (in realtà solo cattolico) appare più complessa e incerta. I monaci medievali nei Monasteri, nelle varie ore del giorno, recitavano il Salterio (i 150 salmi dell'Antico Testamento) e la Liturgia delle Ore (più comunemente conosciuta come il "Breviario"). Nell’ VIII-IX secolo, per aiutare i monaci illetterati e quelli che non conoscevano il latino nè sapevano leggere e scrivere, si concesse a questi sprovveduti di sostituire la recita e il canto dei salmi con quella di 150 "Pater Noster", di più facile memorizzazione.
Poi, all’inizio del XII secolo, si diffuse in Occidente la recita della prima parte dell’Ave Maria la cui origine è di alcuni secoli prima ma la novità è la ripetizione della preghiera come una devozionale litania. Più tardi, alla fine del XV secolo, si diffonderà l’uso della seconda parte dell’Ave Maria (Santa Maria Madre di Dio...) con l’aggiunta del Nome Gesù al centro delle due parti.
Le "Ave Maria" sostituirono ad un certo punto i "Pater Noster" ed ecco quindi la trasformazione del Salterio biblico (che rimandava ai 150 salmi veterotestamentari) in un "Salterio mariano", facilmente recitabile da chiunque perchè ripetitivo.
L'uso di una cordicella con nodi, chiamata «paternoster» era comune fra i domenicani già nel '200. Il capitolo della provincia romana del 1261 vietava ai fratelli di avere i «paternoster » in ambra o in corallo, invitando ad usare materiali più sobri. Fin da allora dunque i domenicani portavano la corona o conta-preghiere. Anche sant'Agnese di Montepulciano aveva il suo conta-preghiere; era formato da «chicchi tenuti insieme da un filo». Santa Caterina da Siena pure si serviva di un conta-preghiere: una cordicella con nodi.
Nel XIV secolo il certosino Enrico di Kalkar operò un’ulteriore suddivisione del "salterio mariano" dividendolo in 15 decine e inserendo, tra una decina e l’altra, il Padre Nostro.
Il salterio mariano si diffuse dal Medioevo in poi grazie all’Ordine Domenicano che lo usava per la predicazione e per le missioni popolari. Nel XV secolo, nell’ambiente certosino, nacque la proposta di recitare una forma di salterio mariano ridotta, con solo 50 "Ave Maria", ma a ciascuna di esse era aggiunta un richiamo inerente alla vita di Gesù. Si cominciò così a meditare sui misteri evangelici, tentando di coniugare preghiera vocale e meditazione mentale.
Tra il popolo semplice il Rosario ebbe subito grande favore e la facile formula si semplificò ulteriormente nel XVI secolo quando il domenicano Alberto da Castello scelse personalmente 15 misteri tra i tanti narrati della vita di Gesù e Maria proponendoli alla meditazione e portando il Rosario alla forma attuale di oggi.
Nella seconda metà del Cinquecento sorgono numerose le confraternite del Rosario, sviluppatesi forse come reazione alle reiterate e feroci critiche protestanti al culto mariano, dovute essenzialmente (ma non solo) alle deviazioni cattoliche che si erano effettivamente verificate in Germania, come la pratica, ammessa da alcune confraternite, secondo cui i più ricchi potevano pagare altre persone per recitare il Rosario al loro posto e lucrare comunque i relativi benefici spirituali e indulgenze. Questo delle confraternite rappresenta un fenomeno sociale peculiare: in pochi anni a queste confraternite (via via sempre più potenti e prestigiose) aderiscono centinaia di migliaia di membri di tutte le classi sociali, e il loro carattere internazionale e autonomo suscita le lamentele di chi le considera un elemento capace di fare concorrenza al sistema delle parrocchie e delle diocesi già ormai abbastanza consolidato.
Nel XVI secolo i turchi sono i dominatori assoluti del Mediterraneo e avanzano all’interno della Cristianità occidentale quasi senza sconfitte avendo come obiettivo di innalzare la mezzaluna rossa su Roma. Il papa Pio V, preoccupato per la gravissima situazione, riesce a riunire sotto le insegne della croce una flotta composta da galee pontificie, spagnole e della Repubblica Veneta mentre i francesi erano presenti solo con alcuni cavalieri volontari (!) ed i tedeschi brillavano per la loro assenza (!). A capo della flotta cristiana viene chiamato Giovanni d’Austria. Nelle acque di Lepanto, il 7 ottobre 1571 i cristiani sconfiggono la flotta ottomana. A tale scopo Pio V aveva invitato tutti alla preghiera del Rosario (che lui stesso aveva fissato nella forma sostanzialmente in uso al giorno d’oggi con la bolla "Consueverunt romani Pontifices" del 1569), a fare processioni pubbliche e penitenze: all’annuncio della vittoria il papa fece suonare tutte le campane di Roma (uso invalso ancora oggi con il suono delle campane a mezzogiorno, ora della sconfitta turca) e decretando che la flotta cristiana aveva vinto grazie all’intercessione della Madonna del Rosario. Il Papa inserì nelle litanie l’invocazione di Maria come Auxilium Christianorum e decretò che il 7 ottobre fosse commemorata S. Maria della Vittoria, trasformata poi da papa Gregorio XIII nella festa della Madonna del Rosario. Un’altra decisiva tappa per la diffusione della preghiera mariana fu il 12 settembre 1683, quando il re polacco Giovanni Sobieski (con l'essenziale e determinante sostegno spirituale e psicologico del cappuccino friulano Marco d'Aviano) sconfisse a Vienna i Turchi e impedì definitivamente all’Islam la conquista dell’occidente Cristiano. In questa occasione il pontefice Innocenzo XI istituì proprio il 12 settembre la festa del Nome di Maria. Nell’epoca contemporanea le svariate apparizioni mariane hanno confermato la realtà di questo tipo di preghiera ripetitiva assai diffusa presso il popolo.
Conclusioni: si può dunque affermare che il Rosario cattolico (presente come forma ripetitiva di preghiera anche in altre religioni) ha avuto una lenta e complessa formazione a partire dal Medio Evo, sostituendo nel tempo la recita (e il canto) dei salmi dell'Antico Testamento; ha conosciuto alterne vicende; ha fissato precise date storiche. In epoca moderna poi il Rosario ha avuto ulteriore risalto e popolarità a motivo delle "apparizioni" mariane che recentemente si sono vieppiù moltiplicate in vari Paesi e che hanno contribuito alla ulteriore diffusione di questo tipo di preghiera ripetitiva di facile recitazione.
Ma è (stato) davvero spiritualmente ed ecumenicamente conveniente abbandonare immotivatamente i Salmi della Bibbia nelle loro varie espressioni recitative?

 

Il morto è tutto contento di essere morto
Riflessioni sulla Messa funebre riformata

Non si sa più come morire; la Messa da morto come è adesso fa piangere più di prima; ma non fa piangere per il morto: fa piangere per la Messa. Dico Messa da morto; dovrei dire Messa esequiale: ma io non sono un intellettuale come quelli che hanno fatto la Messa nuova da morto; e allora dire Messa da morto mi fa vedere la cosa; e dire Messa esequiale non me la fa vedere, ci devo pensare su un momento.
Non mi piace parlare di cose della morte; ma la Messa da morto riguarda più i vivi che i morti; quello che riguarda i morti, non lo possiamo sapere.
La morte è una cosa tremendamente seria, la più seria di tutte le cose che possono capitare all'uomo; perché l'uomo che ha fatto quel passaggio, potrà diventare angelo o diavolo o niente; ma ha finito di essere uomo, e questa è una perdita, su cui non si piangerà mai abbastanza.
La vecchia Messa da morto faceva sentire quel dramma tremendo; la Messa da morto che c'è adesso, è come andare a cogliere margheritine nel prato e il parasole in mano.
Le hanno cambiato anche il colore; prima era nera, adesso è viola; il nero poteva disturbare l'uomo di adesso, fargli venire i complessi, come si usa adesso; come per le sculacciate ai bambini, una volta si davano come confetti; adesso dicono che l'onda della sculacciata può arrivare al cervello, e uno che stava per diventare un altro Leonardo da Vinci, diventa un cretino da ospizio. Il viola è come il vino allungato con l'acqua, non è né vino né acqua; non è né caldo né freddo, né vivo né morto; è un piccolo trucco per fare passare la morte come un aperitivo.
Quell'invocazione che si ripeteva lungo tutta la vecchia Messa, requiem aeternam dona eis, Domine, era grandiosa; era un’invocazione a Dio nella grandiosa maestà dalla lingua sacra, non quella volgare di adesso, la stessa che serve per comprare i ravanelli in piazza del mercato; era l'invocazione a Dio di placare la tempesta, e riempiva e scrollava la volta della chiesa e dava un brivido a quelli che provvisoriamente ancora restavano sulla sponda di qua. Adesso quell' «eterno riposo» della Messa nuova è adatto a uno che va in pensione, e si spera che gliela paghino. La Messa di adesso è fatta quasi tutta di salmi; e la poesia dei salmi è una grande poesia, grandi blocchi monumentali di poesia; ma trasferita nella lingua per comprare i ravanelli, e tradotta da gente brava a fare le liste della biancheria da mandare in lavanderia, la poesia dei salmi e delle altre letture sacre è diventata la poesia delle liste della biancheria.
«Il giusto, anche nel caso di morte prematura - troverà riposo. -  Vecchiaia veneranda non è la longevità - né si calcola dal numero degli anni. - La canizie per gli uomini sta nella sapienza». Era un pezzo del Libro della Sapienza: era poesia, e poesia augusta; è diventato un pezzo d’una polizza di assicurazione sulla vita. E anche in chiesa, anche alla presenza di un morto, non si sa se ridere o piangere.


Per mille anni e più la Chiesa cattolica ha insegnato a pensare a una parte importante del genere umano; ha avuto con sé la grande arte, la grande poesia, la grande musica; ossia mille anni di civiltà occidentale sono stati mille anni cattolici; e ora si è ridotta a fare i rifornimenti nei magazzini del linguaggio dei politici e dei sindacalisti, gente notoriamente piena di sapienza e belle lettere.
E non dice più «la santa Messa»; dice la «Messa comunitaria»; e la Messa non sa più di anima, cosa strettamente individuale; sa di mensa aziendale. Non dice più «i fedeli» o «i credenti», come dice così bene l'islam; dice la «comunità di base»; e sa di comizio e tessera in tasca; ma se Dio ha fatto lui i cieli e la terra con sopra questa bella razza degli uomini, non deve dare molta importanza alle tessere in tasca. E allora la Chiesa cattolica ha potuto togliere tranquillamente dalla Messa le preghiere alla Madonna, piene di dolce poesia; togliere il così detto ultimo Vangelo, cioè il principio del Vangelo di Giovanni, quell’ «In principio era il Verbo. E il Verbo era presso Dio e il Verbo ora Dio»; e niente di più spirituale è mai stato detto da bocca d'uomo. E nello spazio rimasto libero hanno collocato cose spirituali e poetiche come «questo pane, frutto della terra e del nostro lavoro... questo vino, frutto della vite e del nostro lavoro»; ed è roba che sa di cooperativa agricola.
Quando la Chiesa cattolica ha ripudiato il latino, una voce altissima della Chiesa Cattolica, ha detto che finalmente quelli che pregavano avrebbero capito quello che pregavano. Quella voce era la voce delle grandi parole; così poteva sembrare che tutti i secoli di preghiere fatte dagli uomini erano andate in fumo, perché essi non sapevano quello che dicevano. Ma il giorno che un uomo pregante capirà quello che sta dicendo, potrà smettere di pregare; la preghiera è un discorso con le cose invisibili e inconoscibili, cioè col mistero; e se il pregante riesce a sapere che cosa c'è dentro il guscio del mistero, può smettere di pregare e mandargli una cartolina postale; basta che non la mandi con le poste della nota repubblica fondata sul lavoro.
La religione è di là da tutte le spiegazioni; è fuori di tutte le prove sperimentali; i ragionamenti sulle cose che non si possono osservare, sperimentare, misurare, sono spiegazioni che non spiegano niente. Fin che restano idee, le idee non sono né vere né false, né buone né cattive: sono idee, cioè discorsi ben fatti o mal fatti, e si chiamano le dialettiche. E le dialettiche sono le equazioni differenziali degli imbecilli di oro fino.
Se invece di dire Agnus Dei qui tollis peccata mundi, uno dice «Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo», ne sa quanto prima; cioè in qualunque linguaggio lo dica, dice una cosa che è tenuta in piedi non dalle prove, come il così detto principio di Newton, ma dal crederci o non crederci.
Montagne di parole sono state dette e scritte per spiegare che cosa vuol dire o per dire che non vuol dire niente; ma l'uomo che lo dice o lo sente dire, può sentire dentro di sé una grande luce che si apre e splende come un sole; oppure non accendersi niente; dipende da lui, non dalle parole dette o sentite.
Hanno tolto cose poetiche della Messa; e solo la poesia, non le spiegazioni, può fare vedere le cose che non si vedono; e lo spazio tolto alla poesia lo hanno dato alla predica (anzi alle prediche). Facevano la Messa nuova; e si sono lasciati scappare l'occasione gaudiosa di chiudere la bocca ai predicatori. La Chiesa cattolica non saprà mai quanta gente ha perduto per via dei predicatori. Il gesuita portoghese padre Vieira era un grande predicatore: 300 anni fa ha fatto la predica ai predicatori; gli ha detto che piuttosto che parlare a quel modo, era meglio tacere che parlare. San Francesco parlava agli uccelli, e gli uccelli lo ascoltavano perché gli pareva uno che parlava come loro, uno di loro; adesso quando il predicatore predica, mi viene la voglia di essere un grande peccatore, per fare dispetto a quel predicatore.
Quelli che hanno fatto la Messa nuova, hanno capito che non bastava sfrattare il latino, per dare più spiritualità alla Messa; e hanno inventato le strette di mano. È la cosa più comica che sia mai stata fatta in una chiesa cattolica. Ci sono vecchie pettegole che si voltano indietro alla ricerca di altre mani da stringere; non gli bastano quelle laterali. Ma io guardo in su; non vedo mani da stringere; il teatro in chiesa non mi è mai piaciuto.
Hanno sfrattato il canto gregoriano, e non c'è canto più religioso, religiosamente più puro di quello; hanno sfrattato la grande musica.
Forse hanno ascoltato quelli che dicevano che la Chiesa cattolica è un prodotto dell'Occidente; ma anche la scienza e la tecnica sono un prodotto dell'Occidente; eppure gialli e neri adoperano con disinvolto fervore le cose meccaniche, le medicine, i modi di vestire e comportarsi dell'Occidente. Qualcuno che non era uno stupido, ha detto che hanno fatto più miracoli i santi scolpiti e dipinti, che non i santi vivi; ed è vero. però si è dimenticato della musica, della grande musica. La grande musica ha portato a Dio più gente, che non tanti secoli di teologia; quel vento misterioso che entra nell'uomo, e lo invade, e lo muove come il vento muove il mare; e l'uomo piange o ride beato, si sente felice o triste, e non sa perché; e quella è la musica, la grande musica; e l'uomo poteva vedere la faccia di Dio, che nessuna descrizione della faccia di Dio è mai riuscita a fargli vedere. E la Chiesa cattolica, una volta considerata intelligente anche troppo, ha buttato la sua grande musica fuori bordo; ai pesci. Leonardo diceva che quando suonano le campane, nel suono delle campane l'uomo può mettere tutto quello che vuole; le sue gioie, i suoi dolori, le sue speranze. Ora nella nuova Messa cantata, quella per i vivi e quella per i morti, i canti nuovi offrono gioielli come questo: «Mi risplenda la luce del ver - e mi guidi sul retto sentier»; o come quest'altro: «Quando busserò alla tua porta... avrò fatto tanta strada... avrò ceste di dolore... avrò grappoli d'amore... avrò piedi stanchi e nudi... avrò mani bianche e pure...», e altre stupidaggini come queste, innumerevoli. E poi la musica, la musica nuova che accompagna quelle stupidaggini, e fa venire le rughe alla pancia.
Il muezzin che dal minareto musulmano chiama alla preghiera dell'aurora, grida ai quattro venti, «è meglio pregare che dormire! ... è meglio pregare che dormire!»; e fa commozione anche a chi non è musulmano; e ora coi suoi nuovi canti e suoni la Chiesa cattolica sembra dire ai suoi fedeli, che è meglio dormire che pregare. Ma nelle pietre delle chiese cattoliche c'è ancora la eco viva dei vecchi canti, delle vecchie musiche; e il giorno che quella eco gloriosa si sarà spenta, la Chiesa cattolica si potrà mettere a vendere caramelle e pianeti della fortuna. La vecchia liturgia cattolica ha fatto arrabbiare tanta gente; ma non ha mai fatto ridere nessuno.
Dalla Messa da morto hanno tolto il Dies irae. Devono aver pensato che potevano conturbare le anime gracili di questi tempi svirilizzati; e hanno demolito la Messa da morto. Quando nella Chiesa scoppiava quel canto, « Dies irae, dies illa. Solvet saeclum in favilla...Il rimbombare della tromba per i campi seminati di sepolcri... Prostrato a terra, invoco pietà»; quel canto faceva un rimbombo immenso dentro l'uomo che ascoltava, credente o non credente, perché la morte riguarda tutti, credenti e non credenti. La religione si regge sull'esistenza del dolore e su quella della morte; nessuno può abolire definitivamente dentro l'uomo una religione, se non abolisce il dolore e la morte.
Quel canto tremendo (e non si parla qui del grandioso e terribile Requiem di Mozart, ma semplicemente di quello comune gregoriano che si cantava sempre nelle nostre chiesuole) lo metteva con la faccia dentro la faccia della morte; e allora lui cercava disperatamente la faccia di Dio; la faccia di quello che non muore. E il Libera; il Libera che anch'esso doveva essere cantato in latino; perché solo così, con una lingua che non è quella per comprare i ravanelli, l'uomo può dire a Dio la sua disperazione; dirgli che lo liberi dalla morte eterna, «Libera me, Domine, de morte aeterna...  quando verrai a giudicare il mondo col fuoco...».
La Messa da morto era qui, in questi canti terribili e virili; quando si celebrava in una chiesa di villaggio, quella chiesa diventava immensa, una grande cattedrale. Poi l'uomo vivo usciva a testa bassa dalla chiesa dietro il morto, perché quei canti continuavano a rimbombargli dentro (adesso si esce chiacchierando, spesso ridacchiando). Ora nella Messa nuova il prete parla lui della morte; lui spiega ai vivi che cosa è la morte. Così la Messa da morto è diventata una Messa coi fiori di plastica, e il burro e la marmellata.
Il morto cinguetta sul ramo, come un passerotto; e tutto contento che è morto, e ora si metterà a tavola con gli angeli, i santi, i martiri, i patriarchi, il pane e burro e marmellata. Ma io ho già detto al mio parroco, uomo pio, che se mi celebra quella Messa del pane e burro e marmellata, io mi rifiuterò di morire...

 

Liberamente tratto, allestito e modificato da
Vittorio Rossi (1971)
comunicato 747 del 5.9.2012
del Libero Maso de I Coi

 

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