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I DOBES
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Un pirotecnico, fantasmagorico e tribolato parto della rutilante e indiavolata (a volte anche bizzarra e stralunata) fantasia del tolmezzino Igino Piutti: non trovo altra e migliore immagine per definire questo recente (2012) lavoro del nostro prolifico autore carnico.
In questa opera autoprodotta (euro 14, da richiedere a www.ilmiolibro.it), si individuano precisi e chiarissimi elementi provenienti da varie e diversissime fonti: Iliade, Odissea, mitologia latina e greca, Bibbia e perfino (così a me sembra) da suggestioni nipponiche (derivanti dai cartoni animati del tipo Transformer?).
L’autore ci informa innanzitutto, con un molto usato artifizio letterario, che un suo carissimo amico di Cazzaso, poco prima di morire di tumore, gli lasciò un prezioso manoscritto in una busta sigillata, nel quale egli narra di aver trovato anni prima sul monte Arvenis, all’interno di una grotta, un’ antica pergamena scritta in latino, il cui testo egli riuscì a leggere completamente, a decifrare, a memorizzare esattamente e poi a trascrivere parola per parola, nonostante essa si fosse improvvisamente incenerita sul monte stesso al termine della lettura… Tale manoscritto altro non era che la scrupolosa trascrizione di una storia (quella dei Dobes) che il bibliotecario dell’imperatore Augusto, di nome Igino, redasse all’inizio dell’era cristiana, apprendendola direttamente da un sacerdote celtico, appositamente cercato e trovato sui monti della Carnia: questi preziosi particolari sarebbero stati svelati dallo stesso Igino romano all’amico (di Igino tolmezzino) di Cazzaso, nel corso di una sua misteriosa visione/sogno sulla stessa montagna…
Dopo alcune prime perplessità, Piutti Igino ritenne opportuno pubblicare l’intera storia che (egli dice) è stata successivamente interpolata da note e considerazioni aggiuntive sia da parte dell’amico morto sia personalmente da lui stesso.
Ma di che si tratta esattamente?
Non saprei da dove iniziare, ma ci provo. La fantastica (e inverosimile) storia prende avvio 6000 anni prima di Cristo quando in Carnia, sull’alitpiano centrale, molto prima dei Celti, giunsero (non si sa da dove) 300 “piccoli uomini”, i Dobes, delle dimensioni di una marmotta, macrocefali con un corpo umano atletico e proporzionato, ermafroditi, capaci di leggere il pensiero altrui, dotati di una particolare raggio di luce che usciva dalle mani ed in grado di sbriciolare la roccia, immortali (ma solo fino ad un certo punto), comandati da una regina (Kar Venis) dotata di altri ulteriori poteri personali (capacità di trasformarsi, capacità di telecinesi, capacità di parlare agli animali…).
Questi uomini-marmotta erano suddivisi in tre gruppi, ciascuno dei quali comandati da un capo: Zon Colan, Kur Jedi e Por Teal, mentre il pensatore-filosofo dell’intera comunità si chiamava Diver…
La storia di questi fantastici ominidi carnici (pre-preistorici) si svolge tra i monti circostanti e si sviluppa con continui colpi di scena e di inimmaginabili (a volte esilaranti) avventure, metafora (a dire dell’autore) di quelle successive umane…
In assenza di un sommario dei vari capitoli, ecco alcuni significativi semafori di questo lungo e imprevedibile racconto:
il dio Oid, i nove comandamenti, il ciondolo della regina, l’arca della testimonianza, gli alberi delle mele, Caino e Abele, le lingue di Babele, Tiresia, il diluvio universale, il terremoto, Segesta-Sezza, il celta Chia-zas, la maga Fusea, Bar-buines, Tol-mezzo il druido, Sernio, Sa Mardeng, Bernarda, il Matto, la profezia Maya, la Salve Regina, l’immortalità… insomma un intrico di storie bibliche e mitologiche diluite e mescolate a invenzioni personali e rielaborazioni favolistiche che si condensano con difficoltà in una narrazione spericolata ma ricca di personali interpretazioni toponomastiche locali.
Il sesso occupa vari capitoletti e molte altre pagine ed appare uno dei temi più articolati e prediletti da Piutti, al punto che egli si sofferma, quasi puntigliosamente, a descriverne le varie tappe della evoluzione, le varie manifestazioni, i modi di estrinsecazione fino a farne il mezzo di trasmissione dell’immortalità al ritorno dei Dobes sulla terra… (pag. 180).
Anche in questo lavoro di travolgente fantasia (come peraltro pure in “I Celti ritornano” e in “Io figlio di Dio”), l’autore, spesso in una totale decontestualizzazione, non perde occasione per criticare la chiesa cattolica per talune impostazioni ed atteggiamenti del passato e del presente (pag. 66 e altre), cosa che appare poco pertinente nell’economia del racconto e poco connessa con il tessuto narrativo, ben sapendo che la chiesa (senza scomodare la "Casta Meretrix" di ambrosiana memoria) resta comunque una istituzione umana, come anche Benedetto XVI ha ricordato il 29 giugno 2012 in occasione della festività di S. Pietro con queste parole: "... la chiesa non è una comunità di perfetti ma di peccatori...".
Al termine della lettura di quest’opera singolarissima e a tratti visionaria, il sentimento che prevale è quello di una insinuante perplessità mista a radente incredulità oltre che ad una certa dose di imbarazzo, come (auto)percepisce anche l’autore-trascrittore stesso nella post-fazione.
Sarà dunque il lettore a esprimere il migliore giudizio su questo genere letterario inatteso e peculiare di Igino tolmezzino, che dice di aver qui pubblicato la storia dei Dobes, redatta a suo tempo da Igino romano, il bibliotecario di Augusto, su una misteriosa pergamena, ritrovata poi, in tempi recenti, nella grotta sul monte Arvenis (e subito trascritta) dall’amico (morto) di Cazzaso e rimasta inedita fino ad oggi.