Siro Angeli

Una «Vita nuova» dei nostri giorni

di Francesco Lamendola

 

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Il rossit.
Tu l'ās smot
tu a saltā fūr
da cīsa sul prāt

in tal blanc
da zuligna, e fer
tu lu ās lassāt
svualā diret,
fra tant larc
intņr, su l'archet
che tu tu vevas fat,
e magari nol foss
stāt massa pront
cun il so scat

Dopo tanc' ans
cumņ tu vorčss,
tu ūs ancimņ
ch'al torni indāur,
ch'al si plati sot
tiera come un farc;
ancimņ tu dis
a las tōs mans
e tu ridģs di no
strenzi il cučl,
sintint fra il ross
color di sānc
das plumas lizźras,
ad un trat di plomp
diventādas, il vuéss
sutīl ch'al si romp.

Al entrava dut
il māl dal mont
in tai vōi di chel
rossīt, strangolāt
insiema cun il frut
che tu eras,
in una zornada
d'atņm za invičr
ch'a č durada
plui da tō etāt
.

 

Deroghiamo, per una volta, dalla regola finora seguita, di trattare in questa rubrica solo pagine di prosa italiana moderna e contemporanea, per occuparci di un poeta carnico pochissimo conosciuto a livello nazionale, ma che meriterebbe maggiore attenzione da parte della critica e del pubblico: Siro Angeli.
Riportiamo alcune poesie dalla sua raccolta «L'ultima libertà»(Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1962, pp. 46-59), che hanno la dolcezza lieve e quasi impalpabile degli stilnovisti e, a tempo stesso, la vera e profonda intensità d'ispirazione che è propria della grande poesia d'ogni tempo; o, per dir meglio, che è fuori e al di là del tempo.

«XIV

Per le strade di Assisi
si diradavano i passi
e le voci dei vivi,
le voci delle chiese;
ritornavano gli echi
e le ali nei nidi;
nel sangue dei gerani
fuori dalle finestre
spente si raggrumavano
i nidi sui davanzali;
e valicando le Orse
e Betelgeuse, di là
da Sirio, di là da Vega,
per turbinanti spirali
di nebulose, forse
la preghiera dei ciechi
oltre Alfa e Omega
era giunta al Signore.

XV

Era silenzio, e tu
stavi chiusa in te sola,
di me ignara, a occhi bassi.
Nella notte di Assisi
l'erba spuntava dai sassi
e dalle crepe dei muri.
Suggeriva pretesti
Innocenza, se amore
con lei preso ad un laccio
aiutava (non più
ora valevano vesti
a celare l'impaccio)
i tuoi gesti indecisi.
Ti restava il mio nome
fra lo sguardo e la gola
a tenerci divisi.
Come senza confine
notte e cielo gremivano
ogni respiro del vento
che urgeva contro gli scuri
e attraverso gli ulivi
fuggiva per le colline,
così intera nel giro
d'ogni istante la mia,
la tua vita affluiva,
e da un vuoto sgomento
veniva portata via.

XVI

Nella stanza di Assisi
Non restava più niente
A tenerci divisi:
felicità solamente,
che esitava, lasciando
al suo fuoco la breve
distanza dal tuo fianco
al mio fianco tra offerta
e difesa coi sogni
consumarsi, per poco
ancora intatti serbando
i giorni di settembre
nella sua luce di neve,
come ogni altro colore
vive e muore nel bianco;
ed eri così smarrita
nelle iridi, e certa,
così sottile di vita
eri, mentre, talvolta
dal mio tremore (nel battito
delle vene alle tempie
anche le ore tremavano
e le foglie agli ulivi),
fuori di dove e quando
innocente pativi
amore la prima volta,
in aprile, ad Assisi.

* * *

Nel sonno a cui riversa
Ti arrendi, che da questa
Realtà ti cancella,
niente di me ti resta;

o sei di me cosciente
come la gola è della
vena che lievemente
pulsando l'attraversa.

* * *
Immobile parvenza
che il silenzio consuma
sei, quando amore ha tregua;
e non sai quale incanto
nasce che in levità
di piuma scioglie quanto
in noi la terra aggruma.
Sempre così vorresti,
libera anche dal peso
che hanno parole e gesti,
durasse intimità:
non più sul filo teso
del desiderio, ignara
e abbandonata come

al tuo corpo si adegua
la veste, e lo ripara:
l'intimità che senza
transito col tuo nome
annoda la tua essenza.

* * *
Intorno a lei sicura
dentro il suo sonno quale
vivente sepoltura
compici le coperte
e le lenzuola fanno!

In esatta misura
tra luce ed ombra nella
vicenda del respiro
la forma si modella
perché ti appaia vera.

Nel docile raggiro
dei panni si cancella
di quanto le abbisogna
perché sia passeggera
parvenza che si sogna.

E al dubbio che ti assale
(forse non è che inganno
del desiderio agli occhi)
le mani a farsi certe
già trepidando vanno.

Più lievi della vista
le sfiorano i ginocchi;
e il cuore ti trasale,
sorpreso che resista
l'immagine che tocchi.

* * *
A dirmi che non è soltanto immagine,
il volume del letto lieve avalla
intorno a lei, per poco ancora illesa
dalla ama lucente che ha già infranto
i vetri e balenando nella tenebra
della stanza si spunta alle pareti..
Incontro alla sua anima che dorme
come il bianco nel folto della neve
in tenera compagine di forme
insieme col mio nome, lenta avanza
la mano sulla trama del lenzuolo,
ostacolo soave se il tremore
dell'attesa prolunga, se dà volo
celeste alla speranza, se del bene
immeritato che mi attende fa
più cocente il rimorso. Così breve
distanza mi separa dal suo fianco;
ma se giungessi a lei da più lontano
del raggio che in quest'attimo le sfiora
la veste suggerendo sulla spalla
la curva della carne, e in volto alfine
le si posa esitante sillabandole
sulle palpebre il giorno, non più grato
mi sarebbe approdare alla struggente
sua certezza di rose senza spine.

I

Se tu al mio dormiveglia sogno duri
dentro il sonno profondo della stanza
- e a durare ti aiuta il batticuore -
dallo specchio che vera ti suggella
amore non m tenti, lasci in ore
dilatarsi gli istanti, muti in quella
fra la terra ed il cielo la distanza
che la mano a varcare si avventuri.

II

Ripetono che presto aggiornerà
antelucane rondini. Dai prati
riporteranno l'alba alla città
con fili d'erba ai nidi cominciati.
Di quanta vita ingorgherà il momento
che con la luce giungerà a dividerci
qualcosa giorno ed anno vincerà?
Forse mi chiederò in trasalimento
se a me accadde o se un altro fu che vide
dormirgli a lato la felicità.

III

Già i primi raggi sfiorano randagi
le cimase, attraverso stridi e voli
si sorprendono volti da presagi
a un varco di persiane. Affinità
di colore nel buio li dirama
a una neve di tende e di lenzuoli
vivi del tuo respiro. Ma più in là
intimità d'essenza li conduce,
in tenebra più folta, oltre la trama
delle tue lunghe ciglia. Se ti desti
da più remoti abissi a me altra luce
balenerà, con raggi più celesti.»

Nato a Cavazzo Carnico il 27 settembre del 1913 e morto a Tolmezzo il 22 agosto del 1991, Siro Angeli - poeta, drammaturgo, attore cinematografico - è considerato il più illustre uomo di cultura della Carnia del XX secolo. E che sia stato un grande, non c'è dubbio; anche se il resto dell'Italia non se n'è accorto. Ma succede a quegli intellettuali, schivi e riservati, che decidono di restare fedeli alle loro piccole patrie, alla terra che li ha visti nascere e li ha nutriti.
Compiuti gli studi classici presso il liceo «Jacopo Stellini» di Udine (quello che, durante la prima guerra mondiale, aveva ospitato lo Stato Maggiore di Cadorna), allievo di Attilio Momigliano e Luigi Russo alla Normale di Pisa, si laurea nella città toscana nel 1939 con una tesi su Agnolo Firenzuola.
Amico di poeti come Giorgio Caproni e Alfonso Gatto, esordisce nella poesia nel 1937 con il volume «Il fiume va» (Udine, Edizioni La Panarie), recensito favorevolmente da Diego Valeri; e, nello stesso anno, porta sulle scene il suo primo dramma per il teatro, «La casa», prima parte del trittico carnico completato, poi, con «Mio fratello il ciliegio» (1937) e «Dentro di noi» (1939).
Altre raccolte di poesia in lingua italiana sono: «Erba tra i sassi» (Venezia, Le Tre Venezie, 1941); «Il grillo della Suburra» (Bologna, Segnacolo, 1960; seguiranno una seconda edizione per la Casa editrice Barulli di Roma nel 1975 e una terza per l'editore Scheiwiller di Milano, nel 1990); il già citato «L'ultima libertà» (Milano, Mondadori, 1962); «Màtia Mou» (Padova, Rebellato, 1976); «Da brace a cenere» (Roma-Bari, Lacaita, 1986).
Ad esse vanno aggiunte, in lingua friulana, «L'Âga dal Tajament» (Tolmezzo, Stab. Tip. Carnia, 1976) e «Barba Zef e jò» (1981); un volume di narrativa, «Figlio dell'uomo» (Milano, Edizioni Paoline, 1989); e diverse opere per il teatro. Oltre alla già citata trilogia, queste ultime comprendono: «Battaglione allievi» (1940), «Assurdo» (1942), «Male di vivere» (1951), «Odore di terra» (1957), «Grado zero» (1977).
Silvio D'Amico lo vuole poi come collaboratore della sua «Enciclopedia dello spettacolo». Trasferitosi a Roma alla fine della seconda guerra mondiale, dal 1955 al 1977 lavorava come funzionario dei servizi radiofonici del terzo programma.
Come poeta si caratterizza per un impasto originale di tradizione classica e di ermetismo novecentesco; e, nel 1976, vince il Premio nazionale letterario Pisa per la sezione Poesia.
Nel 1981 lo si vede interpretare, con dolente umanità, il tormentato personaggio di Barbe Zef nella trasposizione cinematografica del romanzo di Paola Drigo «Maria Zef» (vedi il nostro precedente articolo «Un film al giorno: "Maria Zef" di Vittorio Cottafavi, 1981», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Stabilitosi in Svizzera negli ultimi anni della sua vita, è stroncato da un ictus all'ospedale di Tolmezzo, mentre sta trascorrendo un periodo di riposo nel borgo di Cesclans, ove tuttora riposano le sue spoglie mortali.

Come si vede, si tratta di una vita intensa e di una attività poetica e drammaturgica prodigiosamente ricca e di elevato livello.
Eppure, se prendiamo in mano alcuni dei maggiori strumenti di consultazione letteraria, dalla «Enciclopedia Garzanti di letteratura» alla «Enciclopedia biografica universale» della Treccani, invano vi cercheremmo il suo nome. A parte un paio di convegni letterari, silenzio completo (le notizie biografiche qui sopra riportate sono in parte desunte dalle sue stesse opere, in parte dalla «voce» a lui dedicati su Wikipedia).
Uno stato di cose a dir poco sconcertante, se si pensa con quanta facilità, negli ultimi ani, sono stati acclamati ed esaltati diversi presunti «fenomeni» letterari che, fra qualche tempo, cadranno nel dimenticatoio, per la loro assoluta inconsistenza.
Ma Siro Angeli era fatto così, come tutti i carnici e come tutti i friulani: serio, modesto, alieno da qualsiasi intrallazzo. Non sgomitava per farsi notare dai signori critici. Inoltre, era un fervente cattolico (lo si evince dalle sue liriche: ma sempre con molto pudore); e non ci sentiremmo di escludere che, nel particolare clima ideologico vissuto dalla cultura italiana «alta» negli anni Sessanta e Settanta, ciò abbia favorito la distrazione (chiamiamola pure così, per non dire peggio) di molte eminenze della critica blasonata, affette sovente da una singolarissima forma di strabismo politico, per cui solo ciò che veniva dall'area marxista era bello e meritevole di attenzione.

Le liriche contenute bel volume mondadoriano «L'ultima libertà» e pubblicate nella collana «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, nascono da una drammatica esperienza umana, quella del dolore per una perdita irreparabile.
La rievocazione della donna amata assume toni di una delicatezza squisita, estatica, celestiale, senza tuttavia perdere nulla del suo carattere umano, terreno, quotidiano. Piccoli gesti, strisce di luce, perfino gli avvallamenti delle coperte, delineano una presenza impalpabile eppure tangibile, di una soavità e di una grazia incomparabili. Osiamo affermare che poche volte, dopo la «Vita Nuova» di Dante Alighieri, la lirica italiana ha saputo cantare il mistero della donna con tanta rapita ammirazione, con una così struggente carica di rimpianto e, nello stesso, di speranza in un definitivo ricongiungimento.
Questa, crediamo, è l'ultima libertà di cui parla il titolo: la fede nella possibilità di ritrovare le persone amate, di là dalle vicende della carne che si corrompe e muore, in un abbraccio radioso di rasserenamento totale e di gioia inestinguibile.
Chiudendo il libro, ci si sente afferrati da un senso di trepidante magia. È come se Siro Angeli, cantando il ricordo della donna amata, avesse sconfitto la morte, un poco, anche per tutti noi.

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