LA VALLE DEI ROS

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Raffaella Cargnelutti ha pubblicato nel dicembre 2020 questo "romanzo liberamente ispirato a racconti popolari e a figure leggendarie della Carnia" (pag.235) e su tutte a quella del mitico "Ors di Pani" sul quale esistono numerosi scritti di vario tenore e apparsi in epoche diverse. Molti spunti e riflessioni sorgono al termine della lettura di queste incalzanti pagine che non danno respiro e sembrano voler precipitare a scapicollo verso il tragico finale, quasi a dare sostanza al detto latino "motus in fine velocior"...

La prima considerazione che affiora è la memoria di un grande film di Bertolucci del 1976, "Novecento" in cui il regista ripercorre e ripropone la storia italiana del Novecento inseguendo le vicende di alcuni protagonisti che attraversano i primi decenni del secolo XX.
"La valle dei Ros" (si licet parva...) vuole rappresentare un grande affresco della Carnia della prima metà del Novecento, attraverso le vite di una lunga galleria di personaggi, ognuno dei quali si ritaglia un proprio ruolo all'interno di una comunità alpestre della Carnia (non identificata ma di pura fantasia) dentro la quale il protagonista principale (il Ros) gioca una funzione essenziale e determinante.
Personaggi che entrano in scena, recitano la propria parte con grande drammaticità per poi rientrare quasi dietro le quinte, dove si muovono ancora sullo sfondo, lasciando il proscenio ad altri ed altri attori, legati tra loro da sottili e a volte da robusti legami affettivi/disaffettivi.
Come se l'autrice volesse attraversare il torrente della storia locale, saltando di sasso in sasso emergente dall'acqua, dove i sassi sono appunto i vari protagonisti del racconto che consentono alla Cargnelutti di ispezionare ogni rivolo e ogni pozza della corrente della storia di Carnia...

Ovviamente l'attore protagonista è il Ros (padre, figlio...) che evoca immediatamente la figura di Antonio Zanella (l'Ors di Pani) ma che secondo me racchiude, a ben osservare, anche altre tipologie presenti nella leggenda e nella letteratura carnica: e infatti come non pensare a Silverio, il dannato del Moscardo (sulla cui figura il Carducci costruì la famosa poesia "In Carnia"), divenuto famoso per la sua avidità di terreni e per il suo tratto disonesto e spergiuro? Come non pensare al violento e brutale padre-padrone Barbe Zef, il protagonista negativo di "Maria Zef" romanzo di Paola Drigo, trasferito in sceneggiato televisivo in Rai 3 da Vittorio Cottafavi nel 1981? Non vorrei scomodare Verga, ma mi pare di aver colto qua e là anche alcune risonanze verghiane ("rosso di pelo e con gli occhi furbi del demonio...").

Poichè la trama deve essere interamente riservata al lettore, e volendo sintetizzare all'essenziale il senso di questo romanzo, direi che si tratta di un ben riuscito impasto di lacrime sudore alcol sperma sangue. Un impasto che mi ha immediatamente stupito e meravigliato perchè, conoscendo bene la precedente tavolozza letteraria dell'autrice (fatta di soavi sfumati toni pastello), mi sono invece subito imbattuto in colori forti, accecanti, senza diframma, a volte urenti o urticanti, mitigati solo nel finale da un inconsueto tono di "giallo" che imprime alle ultime pagine una diversa inattesa, ma non meno tragica, tonalità.
I personaggi sono sempre ben caratterizzati, l'approfondimento psicologico di alcuni è molto ben condotto, gli intrecci non sono mai forzati...
L'autrice ha costruito insomma una ottima e plausibile narrazione nelle sue microstorie, reinterpretando soggettivamente alcuni passi della storia ma mantenendo intatta la cornice storica generale: le due guerre con le loro ricadute locali, l'emigrazione, la fame, la miseria, la società rurale...

Per chi già conosce la storia di Carnia del Novecento, questo romanzo rappresenta un amabile e rilassante ripasso; per chi invece ignora la nostra storia, costituisce un mezzo veloce e innovativo per apprezzarla.

****

Ed ora una considerazione finale che intendo inserire qui solo perchè me ne viene data l'opportunità:
certamente anche da questo romanzo, a me pare che la immagine della Carnia non ne esca bene ma che appaia (ancora una volta) come una landa popolata da persone poco raccomandabili... Ma non ne faccio una colpa all'autrice che probabilmente ha interiorizzato dentro la sua vena letteraria un sentire comune a molti intellettuali anche contemporanei: che mai può venire di buono dalla Carnia? Forse sono troppo severo, ma
perchè la Carnia da tempo è divenuta un soggetto solo per storie cupe, violente, tristi, spesso a sfondo noir? Ricordo qui ancora una volta il film "Territori d'ombra" girato a Tolmezzo nel 2000, che non sollevò grandi polemiche neppure allora, quasi a conferma di una pacifica acquiescenza intellettuale locale...

 

 


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