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Gli sradicati
Roman Firmani
recensione di Marino Plazzotta
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Gli
"SRADICATI" di Roman Firmani , non si può leggere e dimenticare come
un libro qualsiasi per almeno due motivi: racconta una vicenda che se non comune
è nota a molti ed è scritto con sentimento. Si potrebbe anche aggiungere che
non è frutto di fantasia, ma di vita vissuta, di esperienza fatta sulla propria
carne, con sgomento, ma in silenzio. E' una storia cominciata nelle Valli del
Natisone, Firmani è nato a Clavora oggi comune di Pulfero, ma diventa "la
nostra storia", la storia di tutti coloro che in proprio o indirettamente
hanno sperimentato l'emigrazione.
L'Autore che ha assaporato la polvere del carbone, quella che
provoca la silicosi, ha raccontato le vicissitudini di una famiglia della Slavia
friulana, ma nel contempo, ha descritto la piccola o grande storia di tutti
quelli che da queste parti, o da ogni parte, hanno sperimentato l'emigrazione o
l'hanno sofferta pur restando a casa, magari ad aspettare quel benedetto
"vaglia" intriso di sudore e di affetto.
Storie che i nostri figli non conoscono, né v'è qualcuno, o
molto pochi, che abbiano interesse a tenerle in "memoria", così come
a troppo pochi interessa che nel mondo ci siano quasi due milioni di Friulani.
Del resto l'emigrazione non ha suscitato particolari preoccupazioni per i nostri
governi che non si sono mai presi cura di far riparare quel
"rubinetto", che per decenni, ha continuato a perdere tanti Italiani.
Che tanti uomini, tanta linfa vitale, andassero a far prosperare altre contrade
ha addirittura fatto pure comodo a questo nostro Stato! Una certa Italia ha
sfruttato, più o meno coscientemente, l'emigrante, ignorando i suoi drammi, la
sua solitudine e la sua angoscia. Che anche noi Friulani siamo "il
risultato di una sottrazione", di quello che è rimasto, cioè, di tanto
lavoro, persone, energie, intelligenze ed ingegni che se ne sono andati, non
interessa a nessuno, forse nemmeno a noi! Così perdendo l'interesse si perde
anche la memoria e con questa spariscono perfino i connotati, le peculiarità
che ci contraddistinguevano ed identificavano. A cosa si riduce la identità dei
Friulani nell'ultimo secolo se si arriverà a dimenticare l'emigrazione? Non è
comunque quello di Firmani un libro che contesta, anzi , vi si può trovare al
massimo un dignitoso lamento, una interiore ribellione che non emerge mai, uno
sconforto, più che giustificato, nei confronti di uno stato che appena può si
libera dei propri cittadini (il protagonista ferito sul Piave, viene licenziato
dal corpo della guardia di finanza, perché ritenuto "non idoneo" a
servire lo stato, dopo tre anni di guerra!).
In un mondo che vive sull'avere a che cosa può giovare un
libro che parla di separazioni, sradicamenti anche se per chi li vive sono
tragedie? A chi possono interessare le piccole storie di vite in bilico continuo
tra miseria e povertà? Eppure tra quelle righe, scritte con uno stile
essenziale e senza fronzoli, non elaborate, ognuno potrà ritrovare come in una
fotografia precisa, ben esposta, nitida, di poco tempo fa, frammenti di sé. Una
di quelle fotografie che riempiono la mente di ricordi, nostalgie, pensieri.
Narra la vita di tanti che hanno dovuto espatriare, alcuni aiutati dagli
approfittatori che allora si chiamavano "passeurs" in quanto facevano
" passare" clandestinamente in Francia attraverso le montagne, gli
uomini con la valigia di cartone ed oggi si chiamano "scafisti",
sempre approfittatori, che traghettano in Italia, disperati Albanesi o Kossovari.
Il racconto, preciso e meticoloso come un diario, è attraversato dal dolore,
dalla sofferenza, dal duro della vita, ma sempre con discrezione, con una
espansività controllata e di tanto in tanto, è ravvivato da commoventi episodi
di solidarietà e da rari, ma intensi, momenti di gioia vissuta in compagnia o
di insperata calda vita.
Il racconto anche per chi fosse estraneo all'esperienza dello
"sradicamento", non stanca, avvince, trattiene anche quando si
sentisse salire un groppo di lacrime ed un desiderio irrazionale di piangere. Vi
si trova, infatti, una avventura semplice che prende, non per la trama , ma per
la realtà della storia che descrive una eroica sfida alla miseria . Si legge
quasi con voracità. La vicenda del protagonista Celso, di sua moglie Daniela,
emigranti su cui la sorte sembra si sia accanita senza misura, ha
dell'incredibile, ma ognuno la sente vera, non inventata, non fasulla. E' una
storia di sventure, ma è anche una storia che invita alla fiducia, ad una
rassegnazione incapace di ribellione. Forse proprio questa pacatezza, o
serenità, o accettazione, stupiscono ed affascinano. . Di fronte a certe
angherie, a certe palesi ingiustizie, probabilmente noi, uomini d'oggi, non
sapremmo adattarci e non riusciremmo a sopprimere un qualche moto di ira o di
protesta. Dovendo comunque partire vorremmo partire per vincere non per
sopravvivere! Non ci rassegneremmo a morire in silenzio come i tanti Beuzer,
Cernoia, Chiabai, Trinko, Bergnac, presi dentro da quella intossicazione, la
silicosi, che accompagna lentamente alla fine.
Roman Firmani ha scritto un pezzo di storia che va letta per
non adattarci a scomparire, a dimenticare tutto sia chi siamo che da dove
veniamo.
I paesi si vanno spopolando, i pensionati rientrati
dall'estero per godere , alcuni solo per pochi mesi, la terra delle loro radici,
son sempre di meno e quindi svaniscono anche i ricordi di quello che è stata la
storia del piccolo paese o meglio di un popolo. Si dimenticheranno le avversità
che tutti hanno dovuto affrontare per trovare lavoro, un alloggio, un ambiente
di convivenza che non li trattasse ad ogni occasione da "Cinkali, Sàuoci,
Zigeuner e poi Bär o Birne, parole che è meglio non tradurre, ma che comunque
erano dirette agli emigranti per offendere e non per aiutare.
Non ricordare queste esperienze, vuol dire anche non dare ai
giovani giustificazioni per curiosare nel loro passato e cercare qualche
"valore di fondo" che certo deve aver supportato queste masse di
piccoli uomini nella loro quotidianità. Vuol dire pure non scrivere alcuna
storia lasciando dissolvere nel nulla quelle vicende.
Noi siamo un popolo stanco. Stanco di emigrazioni, di sudori
improduttivi, di politici ignavi, di amministratori insipienti, di preti
silenziosi. L'emigrante Celso non conosce stanchezza o smarrimento, non conosce
sfiducia, non sciopera, non protesta, sfida anche la morte tenacemente per
sopravvivere. Possiamo lasciare sparire quanti hanno spremuto dalle proprie vene
la vita loro è la vita di molti Friulani? Possiamo accettare che noi tutti ci
dileguiamo nella storia che verrà senza lasciare, né impronte, né segnali?
Nel libro troviamo un filo che finalmente lega le sofferenze della Slavia
friulana, Canal del ferro, Carnia, del Friuli tutto. Queste micro-culture spesso
separate dalle montagne, sono un po' più unite, oggi, dalla comune esperienza
di sacrifici, patimenti, avventure e sventure.
E' Firmani uno scrittore senza pretese, senza arroganze e
superbie intellettuali, che scrive con il cuore e parla al cuore. Uno scrittore
non per premi, che certamente meriterebbe, ma uno scrittore per quelli che, pur
convinti di come gli emigranti siano stati costantemente ignorati da questa
Nazione, che si crede grande , continuano a sperare che il futuro sia migliore.
E' scritto anche per coloro che non si chiedono più come sarebbe stata la loro
vita se "avessero avuto lavoro nella valle". Oppure, detto altrimenti,
per quanti non gli interessa di sapere:"Come sarebbe il Friuli oggi se
fosse stato possibile investirvi tutta la forza che la sfida alla miseria ha
scatenato altrove"?
Non c'è presenza di odio nel suo racconto e non ci sono
personaggi maligni e cattivi. Non ci sono risentimenti o rivendicazioni etniche,
tanto meno razziali. Non si trovano nemmeno padroni aguzzini: Firmani rispetta
il potere economico e lo accetta proprio come noi, con la differenza che lui
aveva qualche cosa dentro e noi? Si incontra qualche persona buona e tanta tanta
dignitosa miseria. Ci sono molti odori: quelli della fatica, del duro lavoro e
quelli dei mille fiori delle valli, dell'aria pulita e quelli velenosi del grisu.
Ci sono i rumori del Natisone e del martello pneumatico. Ci sono le voci della
lingua nota, materna, e quelle della estranea, ostile. C'è, infine, come un
sommesso invito a ritrovare quei legami che un tempo tenevano unite le famiglie,
i borghi , i paesi sia pur dovendo sopportare imprevedibili sofferenze o
affrontando incredibili sacrifici.
Leggendo il libro che racconta di Celso e delle sue peripezie,
potremmo forse scoprire, sopportando e superando uno stringimento di cuore e
respingendo un ricordo improvviso, che anche Celso, come nostro
"padre", ci può insegnare a vivere, cioè a ricominciare ogni giorno
a vivere.
N.d.R. Edizioni del Noce Lit. 28.000.