L'emigrazione in Romania

di Nino Moro

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Da bambino ho sempre provato un po’ di riguardo nei confronti di Romano. Mi avevano detto che veniva dalla Romania come tutta la sua famiglia. A quei tempi mi sembrava un paese lontanissimo. Non avevo mai sentito parlare di quei luoghi inconsueti e la provenienza mi pareva avvolta nel mistero.

Fino ai primi anni settanta la sua casa era nella piazza di Siaio, una abitazione vecchia che il terremoto ha lesionato e la scarsa avvedutezza ha destinato alla distruzione, mutando il volto della borgata e cancellando un’ulteriore testimonianza architettonica del nostro paese. Ora abita nella bella casa di Gleries, accogliente, rifinita con cura nei particolari con una diuturna attività.

Romano in particolare, i ricordi maggiori si riferiscono a lui e un poco meno al fratello Benito, mi incuteva soggezione per la sua figura allampanata, per il suo vestire sempre curato, per il gestire educatissimo e per la sua riservatezza.

Una cosa che di Romano mi ha sempre colpito è la sua immancabile presenza alla messa e alle più importanti funzioni ed il suo discreto appartenere alla comunità paesana.

Poi crescendo ci siamo scambiati qualche parola, ma non avrei mai creduto fosse capace di tanta cordialità di modi e precisione nel racconto. La sua storia e quella della sua famiglia merita senz’altro di essere ricordata.

Plazzotta Osvaldo (de Cecche) e Totis Margherita (figlia di Tite di Cosc), i nonni, vivevano in paese praticando i lavori agricoli, avevano 5 figli: Giacomo (Tit) il padre della Rite de Balot, di Romeo, Iacum e Toni (morto in campo di concentramento); Silvia sposata con Arturo Craighero (Castoia) i genitori della Amelia, Ugo e Ido; Giuditta sposata con Pietro Englaro il padre della Rine, Leli, Dante, Fredo e Isabella ; Luigi (dal Cech o Nin) padre di Aldo, Mabile e Luigi (Gjuti).

Il terzogenito Gio Batta(Titin) era nato nel 1882 e a 14 anni intraprese con altri compaesani la via dell’emigrazione e si portò a Klagenfurt per apprendere il mestiere di decoratore. Da lì si mosse nel 1906 per approdare a Bucarest dove c’era una forte richiesta di manodopera specializzata per la costruzione del Parlamento di quella nuova nazione, costituitasi in regno nel 1881 con l’incoronazione di un principe tedesco del casato Hohenzollern-Sigmaringen, divenuto re col nome di Carlo I.

Già dal 1882 si era andata formando nella capitale rumena una consistente comunità di friulani. Molti erano della zona di Forgaria e Spilimbergo, alcuni delle nostre vallate come Virgilio Craighero di Paluzza e Luigi Gerussi di Piano d’Arta, uno, il primo, Osvaldo Copiz di Treppo. Questi, di professione pittore era il figlio del fotografo Pietro e si era recato in Romania nel 1891 distinguendosi per capacità ed intraprendenza.

Dopo aver lavorato due o tre anni nella capitale, il nostro Titin prese la decisione di trasferirsi nella cittadina di Sinaia, distante 150 km.

La cittadina, pochi decenni prima non era che un insignificante, ma ameno villaggio delle Alpi Transilvaniche. Il Re Carlo I la promosse per le sue attrattive naturali a residenza estiva e invernale della sua corte. La città si sviluppò attorno al Palazzo reale arricchendosi di residenze nobiliari, ville borghesi ed alberghi. Il lavoro non mancava per i muratori e i pittori. Per anni Titin lavorò a decorare la Residenza reale, in un primo tempo in società con OsvaldoCopiz ed il fratello Pietro. Quest'ultimo era piuttosto trasandato nella vita ed in breve tempo abbandonò l'attività produttiva, nonostante avesse buone capacità anche in campo artistico.

Dal 1906 al 1915 trovarono occupazione in Romania Andrea Plazzotta (Dreute de Laide), Arturo Urbano (Turo di Minec), Plazzotta Antonio (il Niu), Giacomo Plazzotta (Tit) con tutta la sua famiglia (la moglie Vigjute Baritussio, la Rite de Balot che aveva cinque anni e Toni di Bidotti) e lo zio Vigj Plazzotta, il padre di Aldo dal Siciâr. In tutti erano una trentina di persone del nostro paese. Numerosissimi erano i friulani, soprattutto provenienti dai paesi attorno aForgaria.

E se d’estate la maggior occupazione era l’edilizia, d’inverno si poteva lavorare nella fabbrica di salumi della ditta Mosca e Dozzi.

Il lavoro non mancava, ma era il quadro politico europeo ad essersi modificato in negativo. La guerra era alle porte. Quando scoppiò era ormai troppo tardi per rientrare: o bisognava fuggire o ci si doveva arruolare nell’esercito nemico dell’Italia. I nostri emigranti, presi alla sprovvista, decisero di abbandonare il Paese Alcuni passarono il confine russo e dopo tre mesi di peripezie, salendo fino a San Pietroburgo, attraversando il Baltico, il mare del Nord e l’Atlantico in nave, varcato lo stretto di Gibilterra, sbarcarono in Italia nel porto di Napoli, finendo poi arruolati. Altri che avevano tentato il rimpatrio attraverso la Turchia, non riuscirono nell’impresa ed alcuni di loro finirono a lavorare in luoghi lontanissimi, persino in Persia come lo zio materno Pietro.

Terminato il conflitto, nel 1919 Titin rifece la valigia e prese nuovamente la strada della Romania. Oltre il bisogno di trovare lavoro, cosa c’era di attraente in quelle lontane contrade? La Romania di allora era un paese ricco di risorse, anche del sottosuolo, ma soprattutto era poco popolato e desideroso di sfruttare al massimo le sue potenzialità economiche. Si stima che gli italiani presenti in Romania in questo periodo fossero 60.000 in prevalenza toscani ed emiliani con diversi piemontesi e trevisani. Nella sola Sinaia erano presenti 100 friulani provenienti da Osoppo, Gemona, S.Daniele, Maiano e Peonis, Forgaria e Spilimbergo. Il mestiere più diffuso era quello di muratore (praticato dall’80% delle maestranze), venivano poi i boscaioli, i taglia pietra, i pittori ecc.

Il periodo dal 1920 al 1930 fu di notevole prosperità per il giovane stato costituitosi come Grande Romania ( a seguito di Trattati internazionali raddoppiò lasuperficie e quasi triplicò la popolazione) grazie alla realizzazione di un a riforma agraria e all’inizio dell’industrializzazione del paese. Non a caso fu il momento fortunato della famiglia Plazzotta.

Dopo due anni di intenso lavoro, messa in piedi un’impresa, Titin si costruì una bella villetta in quel di Sinaia e nel 1922 si sposò con Tramontini Lucia, figlia di Lorenzo di Clauzetto e di Frantini Francesca di Belluno.

La moglie era figlia di emigranti, due suoi fratelli facevano di mestiere i taglia pietra ed operarono per la costruzione del grande ponte sul Danubio nei pressi di Costanza.

Dal matrimonio nacquero subito tre figli: Maria nel ‘23, che vive ancora a Sinaia ed è rimasta vedova nel 1989, il nostro Romano nel ‘25 ed infine Benito nel ‘27 che ora vive a Roma e si è sposato con Fantini Giovanna di Peonis.

Furono anni febbrili: il paese si espandeva economicamente ed in particolare la cittadina di Sinaia si avviava a diventare una celebre stazione di villeggiatura estiva e invernale, a quei tempi ricca e famosa come lo sarà la nostra Cortina negli anni ‘60.

A Sinaia convenivano nei loro palazzi e nei grandi alberghi i principi della varie case regnanti per gli sport invernali e la ricca borghesia della capitale viaveva le sue ville ed i suoi luoghi di ritrovo e divertimento. Il lavoro non mancava. Vicino alla città cominciarono a fiorire impianti industriali di tutti i tipi costruiti con capitali tedeschi e cechi. La più grande cartiera era sorta a Busteni, nelle vicinanze, dotandosi di un villaggio operaio ben organizzato secondo lo stile germanico. V’erano inoltre fabbriche di cemento, tessuti, vetro e birra, considerato che la zona molto ricca di acque permetteva lo sviluppo di quel tipo di opifici. Grandiose erano le segherie che lavoravano tronchi che superavano i due metri di diametro.

La zona inoltre aveva una naturale vocazione turistica. In breve tempo nacquero grandi alberghi e il Casinò costruiti dai francesi e sorsero colonie per bambini e per operai a Timisc, celebre stazione termale e a Predial, stazione balneare.

L’impresa del nostro compaesano Titin contava una decina di operai: pochi erano italiani (Bepi, il figlio di Pietro Copiz, era l’unico paesano) gli altri erano in maggioranza ungheresi. Se le cose andavano bene per la famiglia Plazzotta che viveva nell'agiatezza, ancora meglio andavano per Copiz Osvaldo. Gli altri italiani per lo più emiliani e toscani, erano numerosissimi e vivevano dignitosamente senza alcun problema occupazionale econ un tenore di vita non paragonabile a quello che nello stesso periodo poteva essere mantenuto in Patria. Romano ricorda vivamente i week-end trascorsi nei rifugi delle Alpi Transilvaniche con le caratteristiche grotte degli antichi monasteri e poi le vacanze estive trascorse sul Mar Nero...

Alcuni italiani erano diventati ricchissimi e facevano sfoggio della loro prosperità viaggiando con sontuose macchine che sarebbero state inimmaginabili nel nostro paese. La memoria di Romano ricorda i Castagnoli di Porretta Terme, i Morsiani e i Mosca piemontesi , i Venturini di Forgaria, i Dozzi di Arba e i Cimenti di Fielis.

Se servisse una prova dell’agiatezza basterebbe guardare all’istruzione. Il modello scolastico ricalcava un po’ quello francese. Era privilegiata la cultura generale , rispetto alla formazione professionale. Tutta la classe dirigente, terminate le scuole superiori, andava a specializzarsi nelle università straniere: la maggior parte a Parigi alla Sorbona oppure a Heidenberg o a Vienna. I figli dei nostri emigranti potevano frequentare la scuola rumena e se le condizioni economiche erano buone venivano mandati a studiare in Patria.

Romano ebbe la possibilità di frequentare il ginnasio (corrispondente alle nostre scuole medie) mentre gli altri due fratelli proseguirono gli studi liceali. Nacque allora in lui la passione per la lettura che tuttora conserva. Gli autori preferiti erano Dumas, padre e figlio, Balzac, Papini, D’Annunzio ecc. Lo stesso Romano ricorda che nella sua scuola, con una frequenza saltuaria dovuta al rango e alle necessità del ruolo politico paterno, era presente uno dei principi.

A Sinaia in quegli anni ci si ritrovava all’interno di una numerosa comunità italiana e si riusciva a mantenere in vita le tradizioni culturali (feste di carnevale, balli ed altre manifestazioni popolari). Tutto questo durò fino ai primi anni trenta. Il raggiungimento della richezza economica provocò l'abbandono delle vecchie usanze. Anche la fede religiosa era rispettata, i nostri emigranti avevano costruito fin dall’inizio una cappella, trasformata poi in una bella chiesa servita da un prete cattolico. Nella città rumena si potevano persino conservare le abitudini alimentari nostrane: i prodotti tipici italiani si trovavano facilmente sul mercato!

La cosa più importante era che dalla frequentazione fra le famiglie italiane molto spesso nascevano i matrimoni. Abbiamo già visto quello dei genitori di Romano, ma approfittiamo per comunicare qualche notizia aggiuntiva.

La mamma di Romano era nata nel 1897 in una cava di pietra dove il nonno, morto poi a Roma alla bell’età di 99 anni e quattro mesi, lavorava. La famiglia era numerosa ed oltre a Lucia c’erano altri sette figli. Due figlie Margherita e Maria sono ancora viventi in quel di Acilia presso Roma dove viveva anche un figlio, Vittorio, morto nell’86; un figlio, Pietro, dopo una lunga emigrazione in Persia a Teheran ed aver sposato una russa, è morto alcuni anni fa a Treviso, Giovanni e Domenico, i più vecchi, sono rimasti là; Giuseppe vive a Follonica.

Anche Benito, il fratello di Romano sposerà la figlia di un emigrante, Fantini Giovanna di Peonis, il cui padre lavorava nei pozzi di petrolio del nord della Romania. I due si conobbero a Roma dopo il rimpatrio forzato. Hanno due figli: Lucia laureata in Economia che vive coi genitori a Roma e Gianni tenente elicotterista di sede a Campoformido.

I matrimoni avvenivano anche al di fuori della comunità italiana. In questi casi spesso nascevano incomprensioni all'interno delle coppie. Le maggiori difficoltà si incontravano quando i nostri uomini sposavano donne ungheresi o russe, che erano delle avventuriere.

Ritornando alla storia, il periodo successivo degli anni ‘30 - ‘40 vide continuare dal lato economico lo sviluppo, mentre la situazione divenne instabile dal punto di vista politico. Nel 1939 il gen. Antonescu con un colpo di stato destituì il re Carlo II ponendo sul trono il giovane figlio Michele. Le tensioni politiche nell’intera Europa si facevano sempre più acute ed anche in Romania si faceva sentire il clima che precedette il secondo conflitto mondiale.. Nel 1940 la Romania si schierava apertamente con la Germania, interessata al facile passaggio nel cuore dell’URSS e ai pozzi petroliferi del Paese.

Molti emigranti della prima generazione e che avevano fatto una cospicua fortuna, decisero di far rientro in Italia, spinti in questo dalla nostalgia del paese natale.

Il lavoro in ogni modo non mancò. La manutenzione dei palazzi e delle ville era una fonte di guadagno continua, poi c’erano tutti i lavori nei centri vicini, nelle fabbriche e nelle case dei villaggi operai che rappresentavano un’attività ciclicamente garantita.

La famiglia di Romano abitava in una zona abbastanza centrale. Sinaia contava 12.000 abitanti e raggiungeva le 50.000 presenze nei momenti d’alta stagione. Durante tutto l’anno la vita era abbastanza vivace e dopo il lavoro ci si poteva facilmente divertire o nelle caffetterie o pasticcerie (non esistevano colà le osterie) o negli ambienti del Casinò che offrivano diverse opportunità culturali quali opera, cinema e teatro.

Romano dopo le scuole medie anziché continuare lo studio, che era già di buon livello per quei tempi (in Italia si arrivava ancora in quarto o quinta elementare) passò alle dipendenze della ditta del padre in qualità di amministratore.

L’arrivo della guerra non portò turbamenti di rilievo all’interno della Romania, la cui posizione defilata sullo scacchiere europeola vide coinvolta soltanto negli ultimi mesi quando fu invasa dalle truppe sovietiche. Queste solo in piccola parte si stabilirono sul territorio rumeno. La maggior parte dell’esercito si limitò ad attraversare il nord del paese per inseguire e stringere in una morsa i tedeschi.

La fine della guerra doveva comunque segnare duramente il destino di questa giovane e fragile nazione che non aveva trovato un equilibrio politico in appena 50 anni di esistenza come stato. La politica internazionale doveva naturalmente collocare la Romania fra gli stati dominati dai russi, dato che essi e non altri, erano i vincitori nell’est Europa. Le aspirazioni d’indipendenza politica e di autonomia economica non ebbero durata. La potenza sovietica cercò immediatamente di orientare la vita politica in modo autoritario secondo gli obiettivi del socialismo di stato.

Prima della Guerra gli immigrati italiani godevano di una notevole libertà economica e dal punto di vista politico erano ben integrati essendo considerati come cittadini di una potenza alleata. Alla fine del conflitto le cose mutarono completamente e con una rapidità inimmaginabile. Da amici o addirittura fratelli, gli italiani divennero in pochi mesi forze imperialiste di cui liberarsi al più presto.

Ecco alcuni accenni per rendere l’idea della rapidità del mutamento: i russi entrarono nel Paese il 23 agosto del ‘44, nella primavera del ‘45 finì la guerra e il 6 marzo ‘46 il Partito Unico dei Lavoratori s’impadronì del potere, dopo che il primo gennaio aveva detronizzato e spedito in esilio re Michele.

Le autorità comuniste appena salite al potere si preoccuparono di formare la futura classe dirigente con un’azione capillare di indottrinamento ideologico. Nel ‘47 si procedette dalla sera alla mattina al cambio monetario che rovinò in particolare gli emigranti che avevano alle spalle una vita di risparmi. Romano ha un ricordo terribile. Un vicino si tolse la vita con un pugnale sulla pubblica strada, quando si rese conto che il giorno prima aveva venduto la sua casa. La notizia della svalutazione che aveva appena letto sul giornale lo aveva gettato nell’assuluta disperazione. Era rovinato completamente sia lui che la sua famiglia. Il miliardo e mezzo ricavato dalla vendita era solo carta straccia!

Dopo il cambio monetario venne portata avanti dapprima la nazionalizzazione dei grandi impianti industriali e poi quella delle grandi tenute agricole, ma successivamente e in breve toccò alla media e piccola proprietà industriale, commerciale ed agricola. In due anni si mise fine alla proprietà privata. Neanche le case vennero rispettate. Nessuno era più al sicuro sotto il suo tetto. Le abitazioni venivano divise secondo la grandezza, non in appartamenti, ma sommariamente. Alle singole famiglie vennero assegnate una o due camere, mentre la cucina e per i fortunati il gabinetto erano in comune con le altre che si trovarono così a convivere promi-scuamente. Non c'era rispetto per l'intimità famigliare. Si potevano trovare dei coinquilini che facevano i bisogni nell'atrio quando si rientrava a casa, magari in compagnia di qualche ospite! Tutte le attività vennero socializzate. Le piccole impreseartigiane individuali o famigliari dovettero cessare e si costituirono delle imprese di stato (le più grandi) e delle società cooperative. Anche le aziende agricole da private si trasformarono in cooperative di stato (kolcoz) o grandi fattorie socializzate (sovcoz).

Nè fu facile per gli stranieri trovare lavoro. Romano fu fortunato in quanto un amico rumeno, lo raccomandò nella sua cooperativa. Qui iniziò a svolgere le funzioni di capo reparto considerata l’esperienza che aveva accumulato negli anni a servizio del padre.

Si trattava di organizzare il lavoro che era rigidamente pianificato: il capo doveva valutare i costi, programmare i tempi, individuare i mezzi e i materiali occorrenti e far rispettare gli orari di esecuzione. Tutto era controllato e regolato nel dettaglio da un manuale che Romano ancora conserva. In definitiva nulla era lasciato alla libera iniziativa, al contratto individuale.

Nel 1951 si arrivò al giro di vite con gli stranieri, di cui si iniziò il rimpatrio forzato. Prima di tutti, immancabilmente, toccò agli ebrei, poi venne il turno degli altri e fra questi 40.000 italiani furono rimpatriati con convogli di 100 persone ogni 15 giorni. Ognuno poteva portare al massimo una valigia contenente effetti personali per un peso complessivo di 35 chilogrammi. Se si portava oro veniva sequestrato. Quello che era rimasto dopo il lavoro di una vita e la svalutazione: tutto era perduto! Qualcosa si arrivò a salvare grazie all’aiuto della diplomazia italiana che consentiva di far rientrare dei valori tramite la valigia diplomatica, ma furono poche cose.

Titin, che dal ‘22 era rientrato in patria soltanto nel ‘25 per la morte della mamma, e che quindi era a tutti gli effetti cittadino rumeno dopo vent’ anni di residenza ininterrotta, fu spedito in Patria come indesiderabile.

La stessa sorte toccò naturalmente a tutta la sua famiglia esclusa la figlia Maria che aveva sposato un rumeno. Era il 12 maggio 1951. Arrivarono in treno e furono ammassati a Udine nei locali della ex-Gil. Tra le autorità civili addette allo smistamento dei profughi, c’erano i tre nipoti di quell’Osvaldo Copiz che era stato il primo treppolano ad emigrare in Romania.

La famiglia Copiz aveva come abbiamo già detto fatto notevole fortuna. I figli avevano potuto studiare ed andare ad occupare posti di rilievo. Dopo la guerra emigrarono negli Stati uniti. Fedeli della Chiesa dell’Ultimo giorno, uno di essi divenne predicatore avventista e con la moglie si trasferì in Svizzera a Losanna.

I genitori di Romano, avendo a Treppo conservato la proprietà della casa, poterono far ritornoal proprio paese. Romano e Benito invece furono destinati al Campo profughi di Napoli. Furono sei mesi di spensieratezza per Romano . A Napoli venne scritturato come comparsa per l’Opera al San Carlo e al Teatro all’Aperto di Pompei. Viveva sul set anche per quindici giorni di seguito. Per quelle prestazioni oltre al vitto riceveva una modesta ricompensa. Dopo tante pene aveva finalmente il piacere di vivere in mezzo al bel modo e di conoscere i grandi cantanti lirici: Del Monaco, De Stefano, la Tebaldi ed altri. Immaginate quale fu il ruolo ricoperto sulle scene dal nostro? Faceva il soldato... romano! Con tanto di gonnellino e di elmo sulla testa.

Terminata questa parentesi, piacevolissima, Romano potè abbandonare il campo e rientrare in paese. Cercò e trovò quindi subito lavoro, nella Ditta Faleschini che allora operava a Cave del Predil, dove rimase per 2 stagioni.

Nel 1953 andò con alcuni paesani tra i quali Mini de Minente, Galian di Fino e Berto, il fratello di Vittorio, a lavorare a Cortina d’Ampezzo con la ditta Di Gallo di Villa Santina.

Nel ‘1957 prese la strada della Svizzera dove rimase a Basilea fino all’86 quando raggiunta l’età pensionabile ritornò definiti-vamente al suo paese dove prese dimora nella casa nuova che si era costruito dal ‘73..

Pur essendo nato a Sinaia , Treppo era diventato ormai il suo paese. Il paese dei suoi cari, il paese della sua Patria. In verità crediamo sia forte in lui la nostalgia per la Romania che era stata per anni una terra ospitale, che gli aveva consentito di fare delle esperienze bellissime, ma che a un certo punto, senza un motivo plausibile, l’aveva respinto.

Eppure i suoi occhi continuano a brillare quando parla di quella terra lontana e che ha potuto rivedere qualche volta negli ultimi anni.

La terra dell’infanzia e della giovinezza dei sogni più belli. Infranti.

 

 tratto dal Bollettino Parrocchiale "La nôste valade"

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