Ritorno al paese del cuore

di Antonio De Cillia

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Sono tornato al paese dei miei genitori. Treppo di Carnia, dove da ragazzo passavo ogni anno una parte dell'estate, nella grande casa del nonno.

Allora mi sentivo scioccamente molto cittadino, anche se amavo moltissimo monti e boschi. Quassù non avevo veri amici, forse anche perchè allora i ragazzi del luogo non avevano molto tempo libero, dovendo darsi da fare, chiusa la scuola, per aiutare in famiglia. Anch'io, del resto, avevo le mie incombenze: badare ai fratelli più piccoli. Nè loro nè io godevamo eccessivamente di tale situazione, che dava spesso motivo a litigi e ripicche.

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Mi piaceva invece stare dietro il banco del negozio di mio nonno, benchè le mie mansioni si riducessero alla vendita delle sigarette, tabacco da pipa, conserva di pomodoro e citrato. A onor del vero non ho mai avuto spiccate tendenze commerciali. Così il lato più interessante della situazione risiedeva nei discorsi degli uomini, che ad una certa ora si davano convegno in bottega e, appoggiati col bicchiere in mano alle scansie del locale, si scambiavano notizie e opinioni, generalmente non molto tenere nei riguardi delle autorità, da quelle comunali in sù, per la loro incapacità di far fronte in qualche modo alla crisi che in quegli anni attanagliava il mondo e che si faceva sentire duramente in ogni casa. Senza trascurare i motti salaci che accompagnavano l'ingresso in negozio di una ragazza, e forse per questo mia madre non vedeva di buon occhio la mia volenterosa partecipazione a questo garzonato.

La situazione cambiava radicalmente quando mio padre, liberatosi dai doveri d'ufficio che regolarmente rimandavano le sue ferie, ci raggiungeva a Siaio. Mio padre era un innamorato della montagna e io ero felice di andare con lui, specie quando si saliva sulle cime. I paesi disseminati nelle valli sottostanti assumevano un aspetto da presepio, mentre dietro le sagome montuose più familiari emergevano sempre più imponenti, mano a mano che si saliva, le cime più alte. Le conosceva tutte per nome, mio padre, e raggiunta la vetta, me le additava ad una ad una, entusiasmandosi quando qualche gigante lontano dal nome esotico faceva capolino, pallido e incerto, in ultima fila all'estremo orizzonte. Salivamo sul Tersadia, sul Dimon, sulla Crete di Timau, sul Pizzo Collina. Il massimo fu la salita al Coglians, dopo aver dormito al Marinelli. Sono passati circa sessant'anni, ma ricordo ancora che la valle del Gail era in pieno sole, mentre di qua dallo spartiacque si estendeva compatta una coltre bianca di nuvole, da cui emergevano soltanto le cime più alte, come icebergs dalla banchisa.

Il Sernio invece rimase una chimera, sempre programmata e sempre delusa, per una ragione o per l'altra. Ancora oggi me ne rammarico.

Mia madre, invece, non amava camminare in montagna e, al pomeriggio, mi dovevo accontentare di seguirla nei boschi o nei prati più vicini, ma avevo trovato rimedio nella lettura emozionante dei fascicoli dei "Tre Boy Scout", una favolosa raccolta quasi completa che avevo rintracciato sul "salâr".

Quell'enorme stanzone sotto il tetto esercitava su di me un grande fascino e vi passavo interi pomeriggi, quando pioveva, vecchi mobili coi cassetti colmi di corrispondenza proveniente da tutta la Vecchia Europa (coi relativi preziosi francobolli!), cianfrusaglie varie, riviste, vecchi giornaletti di partito, con scritti polemici che riguardavano anche mio nonno . . . . Un mondo fantastico e remoto che mi affascinava.

Il 1939 fu l'ultimo anno di vacanza in Carnia. Me lo godetti appieno, scorazzando in lungo e in largo per le montagne da solo, riempiendo di schizzi un intero album, quasi presagissi la fine di un'epoca spensierata.

Il paese intanto era cambiato: all'improvviso mi accorsi che le persone della generazione dei nonni, personaggi quasi tutti degni di un bozzetto, erano ormai scomparse. Anche molti giovani mancavano: ma quelli erano stati chiamati sotto le armi; presto sarebbe toccato anche a me.

Intanto Hitler aveva attaccato la Polonia. Ricorderò sempre quel mattino di settembre, quando vidi partire dalla piazzetta di Paluzza due corriere di richiamati, classe 1901. Loro cantavano per darsi coraggio, ma a terra le donne piangevano. Li avrebbero congedati poco dopo, ma che senso aveva avuto quella chiamata di quarantenni?

Era il primo segnale folle di una guerra folle.

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Solo le montagne, al di sopra del dominio arboreo, sono rimaste tali e quali le ho conosciute da ragazzo. Devo confessare che tale ovvia constatazione mi ha comunicato un senso di sollievo, poichè il resto è quasi tutto cambiato. Dove prima si estendeva il verde chiaro dei prati, accuratamente falciati, domina incontrastata la selva. I vecchi stavoli, fatti di sassi e di legno, o stanno disintegrandosi sotto il peso degli anni e dell'abbandono, o si sono trasformati in civettuoli "chalets". I tornanti delle nuove strade per l'esbosco, costruite dalla Comunità Montana, hanno tagliato senza pietà i vecchi percorsi lastricati che si inerpicavano ripidi e incassati verso i prati alti, che la denominazione "Suart o Parz" riconduce ad antiche suddivisioni dei "Comunali". Lungo tali sentieri, sparati senza pietà secondo il minimo percorso e perciò secondo la massima pendenza, salivano all'alba, "louge" in spalla, le donne della Carnia di ieri, per ridiscenderli la sera, trattenendo da una volata rovinosa la medesima "louge" carica di fieno o di legna. Prestazioni faticose e pericolose, ma considerate allora del tutto normali, che presupponevano una forza e una resistenza che oggi solo la "Magica Manu" sembra aver ereditato ma allora non c'erano medaglie in premio.

Ricordo le terribili pagine che su queste donne scrissero, a fine ottocento, il commissario distrettuale Antonio Dall'Oglio e il medico Antonio Magrini. Acqua passata, per fortuna.

Ormai questi sentieri si rianimano, per così dire, solo quando le violente piogge li trasformano in minacciosi ma effimeri torrentelli. Già il "pedrât", costruito chissà quando dagli uomini delle frazioni e mantenuto in sesto da chissà quante generazioni, sta disgregandosi. Le acque, nella loro corsa sfrenata, si accaniscono senza pietà contro l'antica massicciata, demolendola sasso dopo sasso o, più pietosamente, le seppelliscono sotto una coltre di fango e di detriti.

Sul versante opposto, esposto a nord, il bosco si è infittito, cancellando i vari "plans" già coperti di muschio vellutato ed è faticoso penetrarvi per lo spesso strato di ramaglie secche, che nessuno più si sogna di raccogliere.

Scartato l'erto "pecol di Tersadie", ho preferito seguire la più comoda ex mulattiera dal "Duron". La casera si annuncia da lontano sul suo cocuzzolo glabro ma, giunti nelle vicinanze, si scopre che non si tratta più del vecchio prato, ma di una compatta distesa di ortiche alte un buon metro. In quanto alla casera, tante volte visitata, essa è ridotta ad un informe cumulo di macerie. Unico manufatto intatto, un abbeveratoio di cemento, datato 1939 e contrassegnato dalle iniziali del proprietario, quel Brunetti che fu trucidato coi suoi pastori a Pramosio. Più in là l'enorme mammellone del Cimon già pascolo d'elezione risuonante di campanacci, si è adeguato alla situazione, mimettizzandosi anche lui sotto una fitta coltre boschiva.

In fondovalle, qualche volenteroso non si rassegna a lasciare "pustot" il prato e continua a sfalciare, ma il fieno nessuno lo vuole, perchè non ci sono più mucche. Occorrerà bruciarlo, riempiendo il paese di fumo giallastro dall'odore sgradevole.

La popolazione si è dimezzata, trasferendosi in Friuli o in Lussemburgo, ma in cambio le case sono raddoppiate di numero. Più che case, veramente, si tratta di villette civettuole, con gran sfoggio di legno, pietra, marmo, piante ornamentali e cancellate multicolori. Grazie al terremoto, che qui ha fatto ben pochi danni, anche le vecchie case di sasso sono state rimesse in sesto. Sono ritornate all'antico splendore anche le dimore signorili del Seicento e del Settecento costruite dai "cramârs" baciati dalla fortuna.

Peccato che la maggior parte delle case (quando non portano il cartello VENDESI) si aprono soltanto per poche settimane nella calura di agosto, prima che la monotonia delle piogge autunnali ricacci tutti, oriundi e forestieri, ai loro impegni cittadini. 

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Mi piaceva girovagare per le stradine del paese e prendere atto delle novità. Un tempo i vari borghi erano nettamente distinti: Treppo, Siaio, Gleris.

In mezzo c'erano i prati coi loro alberi da frutto e i campi ove si alternavano in lunghe strisce le patate e i fagioli, avviluppati sui "raclis" e fioriti di bianco e di rosso. Ora resiste solo lo spazio aperto di Palût, salvato da un provvidenziale Piano Regolatore degli anni Cinquanta. Speriamo che la resistenza continui, salvando questo estremo balcone panoramico aperto verso il bel campanile settecentesco, dalla cipolla slanciata, con l'Arvenis e la forcella Valcalda a fare da sfondo. Incontro poca gente e ne conosco meno ancora. Saluto tutti, anche perchè sono un pessimo fisionomista (malattia ereditaria: mio nonno soleva dire che per tale difetto non avrebbe mai potuto fare il questurino). Ogni tanto trovo qualcuno che mi riconosce e si fanno quattro chiacchere, più gustose se, invece che ai misfatti atmosferici, si riferiscono a persone o ad episodi del passato, cioè dell'anteguerra.

È inevitabile. Ma devo dire che non c'è tristezza, ma solo un velo di nostalgia, in questo rievocare il passato, in questo ricercare i segni di persone e cose che ci sono state familiari e che non esistono più. È come ricordare la giovinezza ormai lontana, gli amori intravisti e mai sbocciati, le passioni divampate e spente, i compagni di strada dispersi, i sogni orgogliosi svaniti, i miti radiosi oscurati. Ferite cicatrizzate, ma che non si possono e forse no si vogliono cancellare.

Non mi dà tristezza neppure il girovagare tra le aiuole del cimitero, che si distende in declivio di fronte alla "Crete di Miesdì", tra Treppo e Zenodis, esposto in pieno sole dalla mattina alla sera.

Cerco sulle lapidi i volti sconosciuti: i cognomi non mi dicono niente e i soprannomi non si usa scriverli. È indubbio che qui ho molti più conoscenti che nel paese dei vivi. Indugio davanti alle lapidi e rivedo le persone, mi pare di sentirle parlare e ridere . . .

Ecco lassù in alto mio nonno, con la sua faccia aperta di uomo intelligente e generoso, sepolto assieme ad un figlio caduto sul Carso. E mia nonna, tormentata dall'artrite, che passava il tempo libero sul suo libro di preghiere dalle lettere alte quasi un centimetro. E poi sparsi qua e là per le corsie, ecco le zie e gli zii (anche l'ultimo, il più giovane e il più congeniale se n'è andato) e poi gli sfortunati coetanei: cugini e cugine, compagni di giochi e caduti in guerra e poi tante altre facce note, maggiorenti e macchiette, e altre ancora che credevo di aver dimenticato ed ora tornano d'un tratto alla memoria.

Sarebbe bello potessi ritrovare quassù anche i miei genitori e i miei fratelli, che invece dormono lontano da questi monti familiari.

"La patria or è dove si vive" cantava il poeta, ma non è vero.

Viene il momento in cui il richiamo delle radici si fa sentire e allora si capisce quanto l'antico legame sia forte e indistruttibile. 

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 Il mio nipotino Francesco è anche più felice di me quando viene aTreppo. Finalmente qui conosce quella libertà che è negata ai bambini di città. Appena arrivato quassù, l'anno scorso, una bambina lo aveva apostrofato con un: "triestino di m." e lui era corso a casa offeso e umiliato. Ma questo odioso atto di razzismo d'accanto è stato del tutto isolato. Ora sono tutti amici, scoprono perfino lontane parentele e le giornate volano inventando ogni giorno giochi nuovi, con improvvisi litigi e altrettanto rapide riconciliazioni.

"Sai che sono quasi del posto?", mi confidava l'altro giorno. E infatti ha già acquisito un po' di cantilena locale, per la quale sarà certamente sbefeggiato quando rientrerà all'ombra del "melon".

Così passano le generazioni.

Cambiano i costumi e perfino l'aspetto delle persone. Le ragazze, ormai liberate dal giogo bestiale "de cosse e de louge", si sono fatte sottili ed eleganti. L'omologazione televisiva è ormai completa anche qui.

Ma l'emorragia di cervelli e di braccia continua, nonostante le varie leggi per la montagna. Le speranze sognate durante la Resistenza non hanno trovato sbocco nella realtà.

Sapranno le nuove generazioni fare meglio, sviluppando in loco le loro capacità, respingendo le imposizioni dei centri decisionali esterni e rivendicando nei fatti la volontà di governare il proprio destino?

 

Da "Sot la Nape" n. 4

dicembre 1994, pagg. 103, 106)

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