Interventi dal n. 1 al n. 10 ELENCO DEGLI INTERVENTI
Latte "Carnia"? (int.1) Il
Consorzio delle Latterie Friulane ha fatto le sue fortune vendendo il “LATTE
CARNIA” senza che una sola goccia di questo latte fosse prodotto o lavorato in
CARNIA. Tutto questo con il quieto beneplacito della Comunità Montana della
Carnia, che dovrebbe, per statuto,
tutelare i diritti della Carnia,
pretendendo legittimamente quanto meno delle pesanti royalities (cioè i DIRITTI D’AUTORE) da chi sfrutta
commercialmente il nome “Carnia”. Appare
gravemente scorretto infatti che un’Azienda privata possa commercialmente
utilizzare il nome di un territorio che, non solo non partecipa agli utili
di questa produzione, ma addirittura ne viene penalizzato. Vediamo
un po' come: il Consorzio che produce il latte CARNIA
lavora il latte negli stabilimenti di Campoformido (via Zorutti, 98) e di
Trieste (strada di Fiume, 86) dopo averlo acquistato in Baviera e in altre
Regioni al di fuori del Friuli; solo
una piccola parte viene acquistata in
Friuli; nulla in Carnia. QUESTO
latte però viene tuttora denominato proprio “CARNIA”.
Perchè? Perchè non invece “CANAL DEL FERRO” o anche “VAL CANALE” oppure “VALLI DEL NATISONE”? Per
il semplice motivo che SOLO il nome CARNIA
evoca nell'immaginario collettivo (e quindi nei potenziali acquirenti) un
habitat sano e incontaminato, ricco di pascoli e di abetaie ed una natura a
misura d'uomo. Cosa che certamente non avviene, pensando magari alle altre
zone ad esempio citate. Possiamo a ragione sostenere quindi che ci hanno rubato
perfino il nome, per sfruttarlo a scopo commerciale, senza che nessuno,
tranne VTC di Treppo Carnico, muovesse un dito. Infatti
la colpa di tutto questo ricade soprattutto sui nostri rappresentanti politici,
i quali non solo non hanno mai fatto nulla per eliminare questo singolare e
subdolo sfruttamento, ma si sono quasi defilati su questo versante, preferendo
ignorare con misurata disinvoltura. La
zootecnia della Carnia è infatti andata sempre più rarefacendosi ed è pressochè
scomparsa, a causa anche
delle " quote latte" che hanno soffocato ulteriormente la piccola
produzione carnica, a tutto vantaggio di altre zone della pianura, più tutelate
politicamente, socialmente ed economicamente. Mai
si sono preoccupati, i nostri, di chiedere (o di esigere) che il Consorzio delle
Latterie Friulane realizzasse in Carnia
almeno una catena di produzione, recuperando così qualche posto di lavoro.
Nella politica agricola poi sono avvenuti fatti a dir poco sconcertanti che
hanno ulteriormente penalizzato la Carnia:
-
l'abbattimento dei capi di bestiame pagato dalla CEE, -
la chiusura delle latterie sociali; -
una legislazione iniqua che ha messo in ginocchio la zootecnia con vari
lacciuoli; -
imposta IVA per chi conferisce
il latte nelle latterie, -
regolamenti igienici assurdamente restrittivi per le malghe, distanze
improponibili per i letamai ecc. con il risultato aggiunto di un territorio
incolto e abbandonato in larghissima e progressiva estensione. Adesso,
per riparare al disastro, consigliano di
allevare capre, perchè queste non rientrano
nelle normative CEE. Non c'è che dire! Ma
perchè non si è voluto equilibrare le " quote latte" sull'intero
territorio della Regione, stabilendo delle quote che salvassero la montagna?
Perchè non si è voluto operare questa distinzione tra pianura e montagna, che
avrebbe avuto il pregio di salvare e pianura e montagna? Quali interessi si sono
celati o si celano dietro una simile politica contro la Montagna?
Altro
che Convegni sulla Montagna: i responsabili, diretti o indiretti, sfilano in
passerella in questi Convegni anziché cospargersi il capo di cenere e battersi
il petto in un angolo buio! Adesso
non ci resta che piangere, non sul latte versato (perchè non ce n'è piu) ma
sul nome di CARNIA abusivamente e impropriamente usato per vendere un
latte che non è nostro. Oltre al danno, le proverbiali beffe. Auguriamoci che la Comunità Montana della Carnia, in un ultimo sussulto di dignità prima di emettere l’ultimo respiro, metta fine quanto prima a questa beffa, considerando che il danno è ormai irreversibile e non più rimediabile. LATTE: CARNIA, FRIULI, ITALIA (int.
2)
Negli
ultimi tempi il cruciale problema delle quote latte e delle rispettive
mega-multe europee è nuovamente tornato alla ribalta. Vediamo alcuni aspetti
del problema. In Europa le quote latte sono state così assegnate:
PAESE
ABITANTI QUOTE LATTE
Da
questo semplice specchietto si
capisce subito che all’Italia, con ben 58 milioni di abitanti, è stata
assegnata dalla CEE una quota di produzione ridicola, inferiore perfino a quella
dell’Olanda che conta solo 15 milioni di abitanti. Non solo, ma il fabbisogno
interno dell’Italia è di gran lunga superiore alle quote latte assegnate, cioè
all’Italia è consentito di produrre
molto di meno del suo fabbisogno, che si aggira sui 25 milioni di
tonnellate. Tutto questo era stato pattuito dal Governo Craxi nel lontano 1983
per ottenere in cambio dalla CEE i contributi per la siderurgia di Taranto e
Gioia Tauro. L’AIMA
(Azienda di Stato per i mercati agricoli) ha tagliato nel 1997 alle regioni del
Nord una percentuale elevatissima di produzione di latte, a favore di quote
latte al Sud, che di mucche ne ha ben poche. Ecco alcuni esempi di tagli delle quote-latte da parte dell’AIMA
Il
problema continua a sollevare dubbi e perplessità tra gli allevatori.
Il latte è una produzione tipicamente del Nord (dove ci sono le mucche) eppure
le 5
aziende che detengono il pacchetto più consistente di quote-latte sono al
Sud e precisamente:
Come
si può vedere chiaramente, per trovare la prima
azienda del Nord, occorre scendere al 6° posto, dove troviamo la Torvis
friulana con una quota-latte di 80mila quintali annui. Questi dati appaiono
quantomeno sorprendenti se si pensa che al Sud l’allevamento dei bovini è una
rarità. Nel
frattempo la commissione parlamentare d’inchiesta istituita ad hoc, presieduta
dal generale della GdF NATALINO LECCA, fece delle clamorose
scoperte. Scoprì ad esempio delle stalle
sociali fantasma a Roma, proprio dietro la centralissima piazza Navona
oppure ubicate presso villette con piscina o mega-attici del centro capitolino.
Scoprì quote latte cartacee (cioè
presenti solo SULLA CARTA) più a Sud, scoprì importazione illegale di latte in polvere dall’estero, contratti
di acquisto in nero e altre truffe tipicamente italiane, a tutto danno dei veri
allevatori del Nord, che si videro imputare una eccessiva produzione di latte.
Un meccanismo truffaldino dunque che fa ritenere in effetti che il Nord non
produca affatto latte in eccesso ma che produca assai di meno delle quote-latte
fantasma e cartacee del Centro-Sud. Intanto
la Coldiretti scaricò sul Ministero e sull’AIMA le responsabilità di tutta
la vicenda, quasi che localmente non vi fossero delle evidenti corresponsabilità.
I COBAS dei produttori invece accusarono le tre confederazioni CGIL-CISL-UIL per
non essere state attente e pronte a denunciare le truffe e per essersi accodate
al Governo nella difesa del sistema attuale. E
le inattese dimissioni del presidente della Coldiretti, l’ex senatore
democristiano friulano Paolo Micolini, gettarono una ulteriore inquietante luce
su tutta la vicenda.
L’on. Michele Pinto, allora ministro delle Risorse Agricole (MINISTERO SOPPRESSO DA UN REFERENDUM POPOLARE E MIRACOLOSAMENTE RISORTO SOTTO ALTRO NOME), aveva annunciato per settembre ’97 agli allevatori del Nord che sarebbero state restituite al 70% le multe da essi pagate a causa delle supposte eccedenze delle quote latte. Tale restituzione, seppure incompleta, si era imposta a seguito delle conclusioni delle indagini del gen. GdF Natalino Lecca, il quale aveva stabilito che una colossale truffa ai danni delle regioni del Nord, vere produttrici di latte, era stata perpetrata con il concorso di vari Enti governativi. Questa conclusione, giunta peraltro assai tempestivamente rispetto ai tempi delle normali procedure italiane, aveva così reso giustizia a coloro che allevano per davvero le mucche e che si erano visti beffati e gravemente danneggiati dalle multe europee. Anche in Friuli e in Carnia la notizia era stata accolta con vivo interesse. Ai primi di novembre ‘97 però il Governo Prodi, ritirò in Parlamento il Decreto sull’AIMA (per la restituzione delle multe) con il sostegno del POLO, in cambio del ripianamento delle sofferenze della SICILCASSA e così le multe ingiustamente pagate non vennero più restituite ai veri produttori di latte del Nord. Il resto è cronaca di questi giorni, con le immagini delle proteste che filtrano sulle televisioni private e commerciali, tra il generale disinteresse di chi dovrebbe rimediare a tali situazioni. Anche a Udine gli allevatori hanno in questi giorni…versato il latte sulle strade. QUANTO SPENDE LA REGIONE PER LA SANITA’ IN CARNIA (int.3)(int. 3)E’
stato resa nota la ripartizione delle quote PRO CAPITE che vengono assegnate
dall’Assessorato alla Sanità del FVG alle varie aziende socio-sanitarie
locali (ASS). Vediamo insieme lo specchietto: spesa pro
capite pesata e corretta (in milioni di lire)
Come
appare in tutta evidenza, l’Azienda Sanitaria di gran lunga più penalizzata
per quanto riguarda la spesa sanitaria in Regione è proprio la 3°, quella
della Carnia, che comprende Canal del Ferro e Gemonese. In tutte la varie voci
di spesa, la Carnia risulta quella che
riceve minori finanziamenti PRO CAPITE in assoluto, pur pagando le tasse
come triestini e udinesi. Se a questo dato incontrovertibile aggiungiamo la
quasi certezza della soppressione dell’ospedale di Gemona, il quadro risulta
completo. Nello stato confusionale in cui versa la politica regionale e
nazionale, qualcuno è in grado di dare una ragione a questi numeri sopra
evidenziati? Se esistesse la DIOCESI DI ZUGLIO, questa
anomala situazione si sarebbe davvero verificata? CARNIA:
... E L’ARMATA SE NE VA !
(int.4)
Fino all’altro ieri il
Friuli era la caserma d’Italia e la Carnia
rappresentava l’ estremo avamposto contro lo storico nemico austriaco prima e
contro il gigante multicefalo comunista dell’ Est poi. Più’ di 40mila
militari in tutta la Regione. Dopo il crollo dei regimi
comunisti dell’Est e dopo l’ingresso dell’Austria nel Mercato Comune, il
nemico a nord-est non esiste più (a meno che non lo diventi Haider, il diavolo
in persona creato dalla propaganda di sinistra). Il nuovo nemico è per ora un
altro e si trova ad altre latitudini, per cui l’esercito italiano è costretto
a rischierarsi altrove. Di conseguenza, delle 180 strutture militari, ben 80
sono state dismesse in Carnia e in
Friuli. L’armata italiana dunque se
n’è andata dalla Carnia e dal
Friuli, nonostante le ripetute (e patetiche) proteste di alcuni parlamentari e
politici locali della prima repubblica che si ostinavano a considerare la
presenza dei militari in Carnia come
una fonte di sviluppo economico e
sociale, quando si sa bene invece che una economia locale non può assolutamente
basarsi sulle caserme e sui soldati
di leva, proprio per la totale provvisorietà e mobilità che caratterizza
l’elemento militare che oggi è necessario qui, domani è indispensabile là,
come la storia degli ultimi anni ha chiaramente dimostrato e come sarà ancora
più evidente con l’imminente abolizione del servizio di leva, sostituito da
un esercito di volontari professionisti. Dunque l’esercito italiano
se n’è andato. Ma, oltre ai vincoli ai divieti ed alle servitù, restano le aree
che stanno per essere smilitarizzate e restano
le caserme
e le strutture militari che in Carnia sono dislocate dappertutto: Forni
Avoltri, Comeglians, Ampezzo, Socchieve, Villa Santina, Preone, Verzegnis,
Tolmezzo, Paularo, Amaro. Solo a Paluzza esistono numerose strutture ormai vuote
e da tempo abbandonate: la caserma Plozner-Mentil, la casermetta sul ponte di
Sutrio, la strutture del “Tiro a segno”, le casermette-alloggio di via
M.Tersadia, e un numero imprecisato di fortificazioni, casematte, posti di
sbarramento ecc.. Un enorme patrimonio
edilizio dunque che sta andando letteralmente a pezzi e che, tra pochissimi
anni, sarà completamente inutilizzabile per ogni tipo di riconversione. E
così, quelle servitù militari e quelle strutture che potrebbero positivamente
tornare utili alle comunità civili dopo aver rappresentato per decenni un
vincolo ed un ostacolo allo sviluppo, restano oggi incomprensibilmente
abbandonate a se stesse, cadenti, fatiscenti e pericolanti. Il Demanio militare (sotto la
cui giurisdizione si trovano le caserme) solleva questioni con il Demanio
Civile; il Demanio Statale poi a sua volta, non vuole fare entrare nelle caserme
in dismissione neppure i carabinieri nè la GdF, per i quali lo Stato
è costretto a costruire nuovi e costosi edifici ex novo, come è successo
proprio a Paluzza, dove la nuovissima caserma dei CC è costata ben oltre il
miliardo. Il Ministero della Difesa in effetti
non pretenderebbe una lira dalla dismissione, mentre quello delle Finanze
ritiene di poter raccogliere molti quattrini. Un vero rebus tra Istituzioni
dello Stato Centrale che sembrano antichi
feudi medioevali, con proprie truppe e proprie leggi, spesso in concorrenza
quando non in contrasto tra loro. Intanto il prezzo di mercato di questi
immobili sta scendendo pari pari con il degrado degli stessi. Nulla si sta muovendo a
livello politico locale, nonostante esista un progetto europeo ad hoc, che si
chiama CONVER, appositamente
predisposto per la conversione delle strutture militari dismesse e che stanzia
per il FVG ben 7 miliardi, sui 20 necessari. La Regione dovrebbe
intervenire, in accordo con la Provincia, per snellire le procedure e per
sollecitare gli organi centrali dello Stato (gelosamente riottosi) a fare un
passo indietro. A nulla è valso poi il critico appello rivolto dal sindaco di
Paluzza all’allora Capo dello Stato Scalfaro in visita a Timau il 1° ottobre
1997: Scalfaro rispose che si sarebbe interessato alla vexata
quaestio, ma tutto è caduto nell’oblio e le caserme di Paluzza attendono
solo la prossima scossa di terremoto per venire giù definitivamente. Nel totale disinteresse per
questo vasto problema da parte dei politici e delle Istituzioni, emergono nel
frattempo varie proposte che restano
purtroppo solo sulla carta. Ecco alcuni significativi
esempi: -trasformare
la polveriera di Pissebus di Tolmezzo, in un ORTO BOTANICO di livello
internazionale; -recuperare
le varie fortificazioni di Enfretors e di Algers e aprirle ai turisti
dopo averle rese confortevoli, così come, si licet parva componere
magnis, è avvenuto con la linea Maginot francese, che attira ogni anno frotte
di turisti; -cedere
la casermetta del Ponte di Sutrio a privati affinchè ne traggano un punto
turistico; -convertire
la caserma Plozner-Mentil in una struttura turistica polifunzionale utile per
l’intera Valle; -utilizzare
l’area del “tiro a segno” di Casteons per attività ricreative all’
aperto affidate ad una gestione
mista (pubblico-privato); -adibire
e riconvertire le casermette-alloggi di via Tersadia di Paluzza in strutture per
il volontariato e la comunità. Queste riconversioni edilizie
verrebbero così ad integrarsi nel già ricco tessuto storico-turistico della
Valle e ne aumenterebbero
l’interesse, diversificandone gli obiettivi. Auguriamoci dunque che la Carnia,
dopo essere stata occupata e vincolata per decenni dall’armata italiana, non
venga ora impunemente abbandonata. Non si chiedono certamente compensazioni (che
sarebbero pur legittime) ma si esige semplicemente che ciò
che all’esercito non serve più, venga messo gratuitamente a disposizione
delle comunità che, in questi decenni, hanno maggiormente sopportato (a
beneficio dell’intera Italia) quei
vincoli e quelle servitù che possono aver frenato (e sicuramente hanno frenato)
un possibile sviluppo economico e sociale. Diversamente, oltre al danno
patito, dovremmo subire anche la beffa di vederci rifiutato ciò che
ragionevolmente ci spetterebbe: il giocattolo rotto e inservibile o desueto. CARNIA
- Emigrazione agevolata (int.5)
In quest’ultimo decennio la Carnia
ha visto nascere crescere e morire, nel breve volgere di pochi anni, una infinità
di progetti economico-politici che, sorti con l’obiettivo di fare decollare
l’economia carnica, nulla di concretamente benefico hanno poi portato a chi
vive in montagna. Ricordiamoli dunque questi
progetti, o perlomeno i principali: PROGETTO MONTAGNA, AREE DI CONFINE, legge
sulla MONTAGNA, CONVER, INTERREG, OBIETTIVO 5B, e, buon ultimo, il neonato
PROGETTO LEADER. Si tratta, come tutti sanno,
di grandiosi e ambiziosi progetti che, nati in diversi anni e con obiettivi
diversi, hanno poi tutti condiviso una fine ingloriosa, sia per l’esiguità
dei finanziamenti disponibili sia soprattutto per la miopia politica di chi tali
progetti aveva impostato. Ricordiamo per brevi cenni il
famosissimo PROGETTO MONTAGNA, nato
nel 1987 con una disponibilità di 200 miliardi, vissuto al di sopra delle
proprie possibilità per pochi anni e miseramente fallito all’inizio di questo
decennio. Si trattò di una teorica e
surreale applicazione di criteri politico-clientelari alle leggi di mercato
le quali, dopo aver inizialmente male sopportato l’ingerenza politica nella
sfera economica, espulsero in pochi anni, come un corpo estraneo, quelle realtà
produttive che, nate col rassicurante marchio politico, si dimostrarono in
effetti assai deboli e fragili dal punto vista strutturale e competitivo. A
nulla valsero i pietosi tentativi per arginare e fare fronte alle ferree leggi
di mercato mediante sostegni assurdi e millantati crediti. Tutte quelle aziende
si trovarono ben presto fallite e a chiudere i battenti, licenziando tutti i
dipendenti. Quale fine fecero poi tutti quei miliardi pubblici elargiti così
disinvoltamente a destra e a manca, senza sufficienti garanzie bancarie od
occupazionali, nessuno oggi lo sa dire. L’OBIETTIVO
5B
è stato l’altro grande progetto degli anni ‘90, di marchio europeo, che
dopo aver grandemente illuso gli operatori economici della Montagna, si è
risolto in una delusione cocente per coloro che avevano speso tempo e denaro per
il disbrigo delle innumerevoli pratiche burocratiche. Che resta del 5 B?
Qualcuno lo sa? Vedi altro intervento più avanti. Ma anche le famose AREE DI CONFINE che avrebbero dovuto sopperire ai maggiori costi di
chi vive in montagna, sono state una pia illusione che non si è concretizzata
neppure teoricamente in qualche straccio di progetto o programma. Il CONVER,
che avrebbe dovuto agevolare la riconversione delle caserme e delle strutture
militari (divenute ormai obsolete dopo il crollo del comunismo dell’est), non
è mai concretamente partito e le numerose caserme dismesse ormai fatiscenti
stanno lì a dimostrare l’inettitudine di una burocrazia che non sa fare altro
che attendere l’inattendibile, nel deserto dei tartari. Ora dunque, mentre si celebra
il mesto funerale dell’OBIETTIVO 5b, ecco che è nato l’ennesimo progetto,
denominato LEADER. Un progetto che,
alla stregua dei suoi illustri predecessori, è stato ampiamente pubblicizzato
come un efficace strumento che contribuirà a far decollare la Carnia. Non ci pare possibile oggi prevedere come finirà questo
PROGETTO LEADER, di marca europea. Di certo sappiamo fin d’ora che disponeva
di 10 miliardi da investire fino al 2000 a sostegno di varie attività. Se poi a tutti questi progetti
politico-economici, che vagamente ricordano i piani quinquennali del passato,
andiamo ad aggiungere: Agemont, APT, BIM,
Friulia, ed altre sigle ancora, il panorama si fa davvero più desolante e
sconsolato. Non solo per il fatto che tutti questi enti
non incidono minimamente sul tessuto economico e sociale della montagna, ma
soprattutto perchè tutti questi enti costano assai alle tasche del
contribuente. Se pensiamo infatti che ognuna di queste sigle ha un presidente,
un vicepresidente ed un consiglio direttivo (che percepiscono precisi stipendi
mensili) oltre che uno staff di burocrati e impiegati, allora si può ben
comprendere l’insofferenza del cittadino che viene giornalmente spremuto con
balzelli di ogni tipo. Tutta questa frantumazione
della azione politico-economica attraverso questi enti e questi progetti non
porta altro che confusione, illusione, conflittualità, inadempienze, assenza di
collaborazione, sovrapposizione di competenze, esasperazione. Mentre nel privato
l’efficienza e la managerialità vengono ampiamente riconosciute e premiate,
nel settore pubblico si persiste in una spirale di timbri e certificati che
servono solamente a dare legittimazione ad una burocrazia, divenuta esercito,
che si autoriproduce e si automantiene per inerzia. Ma
questa frantumazione della gestione pubblica è funzionale anche ad una classe
politica che vuole assicurarsi quanti
più centri di potere per
controllare e gestire direttamente questi progetti. E quando questa
burocrazia pubblica si abbatte su un fragile tessuto socio-economico come
quello di Carnia, i danni si
moltiplicano vistosamente. Ed uno degli effetti di tale politica socio-economica
è il vistoso e squilibrato risparmio bancario, unico bene
rifugio cui si vedono costretti a ricorrere i carnici, delusi dal recente
passato e soprattutto sfiduciati e preoccupati per un futuro prossimo che non
promette nulla di buono. Ciò che davvero servirebbe
immediatamente alla Carnia, cioè un nuovo
regime fiscale ed una sicura viabilità, i soli in grado di incidere
strutturalmente sulla realtà carnica e di invertire questa tendenza
all’annientamento delle valli, non viene insipientemente concesso. Nel
contempo invece si moltiplicano interventi limitati ed estemporanei
per favorire ora questa ora quella categoria produttiva. E così, anzichè trattenere i
carnici nei propri paesi e nelle proprie valli, viene di fatto agevolata l’emigrazione che, quando va bene, ha come obiettivo i
casermoni di Tolmezzo o di Udine. E quando va male è diretta, come un tempo, verso altre nazioni o continenti. CARNIA
-
“PROGETTO MONTAGNA” -
Il
certificato del fallimento
(int. 6) Sabato 31 gennaio 1987 Preceduto e accompagnato da gran
clamore pubblicitario sui quotidiani locali e teletrasmesso completamente,
con oltre 6 ore di spettacolo televisivo diretto, dall’allora TeleAltoFriuli
di Ottavio Ermini, ebbe luogo presso l’Auditorium di Tolmezzo, la
presentazione del PROGETTO MONTAGNA, approntato dalla Regione FVG. I lavori
furono aperti dall’allora presidente della Giunta regionale, Andriano Biasutti,
il quale poi trasse anche le conclusioni. Questo PROGETTO MONTAGNA, negli
intenti dei promotori, era destinato a risollevare le sorti economiche e sociali
di Carnia e della montagna friulana e ad arrestarne il degrado. Intenzioni
lodevoli, mezzi ridicoli: e la via all’infero è lastricata di buone
intenzioni! Allora ci interessammo a fondo
a questo PROGETTO MONTAGNA, lo studiammo e lo criticammo pubblicamente,
evidenziandone i gravi limiti, tra lo sberleffo infastidito dei politici di
allora e dei mass-media allineati, che ci tacciarono di disfattisti e di sterili
polemisti, capaci solo di criticare e di nulla proporre.
Lunedì 30 marzo 1998 Presso l’Aula Magna della
CMC la Regione Autonoma FVG, a distanza di 11 anni, ha organizzato un convengo
sui risultati di questo PROGETTO MONTAGNA. In questa adunanza si è assistito,
più che a una celebrazione, alla mesta
commemorazione di questo anniversario di morte. Dopo una lunga presentazione
infarcita di tabelle e cifre, percentuali e andamenti, la conclusione cui sono
pervenuti unanimemente tutti è stata questa: il PROGETTO MONTAGNA è fallito
appena nato ed è morto definitivamente in tenera età. Le vittime sono sparse
un po’ in tutta la Carnia, la più illustre delle quali è stata la
LAMPLAZ di Paluzza. In fondo alla sala campeggiava
polemicamente uno striscione blu, sorretto da alcuni operai, in segno di
solidarietà alla SOLARI di Pesariis, in predicato di smantellamento. Abbiamo letto attentamente la
pubblicazione ufficiale che la Regione ha distribuito per l’occasione. Non è
possibile dare conto di tutti i dati e le statistiche, che sono tuttavia assai
istruttive ed illuminanti. Basti solo ricordare che sui 200 miliardi stanziati, sono stati erogati solo 116
(poco più della metà); I progetti falliti sono già saliti a 6; in Alta
Montagna sono stati attuati solo 9 interventi per un totale di soli 4,1 miliardi
utilizzati sui 116 spesi. Vi sottoponiamo le CONCLUSIONI cui sono pervenuti i tecnici regionali circa i risultati
del PROGETTO MONTAGNA, così come sono chiaramente esposte a pagine 155 del II
volume pubblicato. Ecco
dunque cosa scrivono i tecnici della Regione FVG: 1.
“Le
risorse erogate dal PROGETTO MONTAGNA (116 miliardi) sono risultate
certamente poco significative rispetto alle previsioni. Uno stanziamento
finanziario in sede di bilancio si dimezza al momento di essere effettivamente
impegnato dall’Amm.ne Regionale e si dimezza nuovamente al momento della
erogazione…” 2.
“I
tempi della erogazione
dei soldi sono risultati mediamente piuttosto lunghi. La procedura di infrazione
aperta dalla UNIONE EUROPEA nei confronti del sistema industriale della pianura
(che ha beneficiato di un regime di aiuti particolarmente favorevole) è stata
pagata paradossalmente 3.
“I
soggetti beneficiari
del PROGETTO MONTAGNA sono una pletora, sia come beneficiari intermedi che
finali. Tra i beneficiari intermedi
troviamo: le direzioni regionali dei vari assessorati, l’ESA, Promotur,
Friulia Lis, Agemont, Congafi, Comuni, Comunità Montane, Consorzi, ecc. Tra i beneficiari
finali troviamo: imprese agricole, industriali, artigianali, turistiche,
imprenditori. Un progetto quindi con tanti attuatori e tanti beneficiari, per
cui alla fine nessuno si assume i meriti o i demeriti per quanto è stato o non
è stato fatto.” 4.
“La
natura settoriale
del PROGETO MONTAGNA non lascia
dubbi: la parte del leone l’ha fatta il settore industriale che ha
assorbito oltre il 53% delle risorse. Se poi pensiamo che l’industria è
concentrata nella pedemontana e poco nella media montagna, si capisce che la
vera Montagna è stata chiaramente
emarginata. L’alta Montagna dunque presenta un impatto significativo di
risorse
ma ancora
del tutto insufficiente per invertire il processo di degrado.” Questo dunque
si legge a pag. 156 della pubblicazione regionale Volendo infine
gettare definitivamente una palata di terra sul defunto PROGETTO MONTAGNA,
occorre necessariamente ricordare che altri progetti e programmi si sono poi
susseguiti nel tempo.
I primi di
questi progetti, tutti calati dall’alto, sono già miseramente falliti. I più
recenti, utilizzando le medesime direttrici attuative, si avviano alla stessa
ingloriosa fine. Nessuno
vuole
capire che le uniche leve per risollevare la Carnia sono solo due: FISCO E VIABILITA’. TUTTO
IL RESTO E’ SOLO “FLATUS VOCIS” (CHIACCHERA) che serve solo a chi la
diffonde. CARNIA… COLONIZZATA
(int. 7) Numerosi sono stati i
tentativi di colonizzare la Carnia nei secoli passati. In questo secolo ve ne
sono stati tre, il primo dei quali rappresenta indubbiamente il tentativo più
riuscito e più tragicamente concluso. Ma analizziamoli insieme:
1944,
KOSAKENLAND IN NORD ITALIEN
Nel settembre 1944
Hitler, in tacito accordo col camerata Mussolini,
trasferisce in Carnia con una
lunghissima tradotta ferroviaria che si arresta a Stazione di Carnia, oltre 22.000 tra cosacchi e caucasici, sbrigativamente denominati mongui.
Questi cosacchi e caucasici sono alleati dei tedeschi
e avversari dei comunisti di Stalin, il quale ha nel frattempo
riconquistato le loro terre sul Don. Questi nuovi venuti dall’Est, si
installano in tutti i nostri paesi, con le loro famiglie, i loro armenti e le
loro masserizie. I cosacchi occupano la parte meridionale della Carnia, i
caucasici si stabiliscono nella fascia settentrionale: per loro si tratta della
“terra promessa” loro dai tedeschi: la Kosakenland
in Norditalien. Paluzza diventa
sede del Comando caucasico e del tribunale popolare. A Treppo
si istituisce un ospedale con 35 posti-letto, con un reparto di chirurgia, uno
di medicina e uno di malattie infettive; a
Cercivento viene istituito un
ricovero per invalidi di guerra; Sutrio
diventa sede di una scuola caucasica in Casa Del Moro, così come Paluzza. Ligosullo addirittura ospita un teatro, mentre a Sutrio viene
istituita un’orchestra ed una scuola di ballo. A Paluzza infine si stampa un
giornale in caratteri cirillici che esce due volte alla settimana.
Pare insomma che la vita possa riprendere con naturalezza anche in Carnia
per questi Caucasici, portatori di altra cultura e di altra religione, che
obbligano nel contempo i carnici ad una forzosa convivenza, costellata da atti
di violenza e uccisioni. Essi vivono nelle medesime case, spesso usano la
medesima cucina e la stessa stalla dei carnici. La guerra però volge al peggio
per il Terzo Reich ed i caucasici e i cosacchi , in un
nevoso maggio del 1945, risaliranno mestamente il passo di M.Croce, si fermeranno a
Linz. Qui, nel timore di essere riconsegnati dagli inglesi alla Armata Rossa, si
getteranno, con famiglie e cavalli, nelle gelide acque della Drava, preferendo
la morte ad un ritorno nella patria ormai divenuta bolscevica. Di loro a Paluzza
resterà solo il macchinario per la stampa che verrà sequestrato dal CLN e
successivamente acquistato da Cirillo Cortolezzis che avvierà così la sua
tipografia, ancora oggi operante in Paluzza. 1991, ALBANESI IN CARNIA
Il 13 marzo 1991 circa 450 albanesi,
sbarcati sulle coste pugliesi, vengono trasportati con pullman militari a Paluzza
e vengono sistemati nella dismessa caserma M.P.Mentil, riadattata per
l’occasione. Il Presidente della Caritas diocesana, don Angelo Zanello, che
nel 1998 diverrà poi parroco di Tolmezzo, lancia la proposta di ripopolare la
Carnia con gli albanesi, che stanno giungendo a migliaia dall’Albania, dove il
comunismo reale è miseramente crollato, lasciando intravedere tutte le sue
miserie. Don Zanello vorrebbe sistemarli nelle case rimaste vuote e inventare
per loro un qualsiasi lavoro, che non si riesce ad inventare neppure per i
locali. La proposta della Caritas lascia
perplessi e molti mugugnano. I preti tacciono. Per i primi 4 mesi questi
albanesi vivono oziosi e sfaccendanti, girovagando con la sigaretta in bocca per
i paesi, dove spesso trovano ospitalità, comprensione e lavoro. Di questi 450,
solo una cinquantina paiono delle persone perbene, che si danno subito da fare
per cercare un occupazione onesta. Tutti gli altri (delinquenti comuni,
prostitute e nullafacenti) attendono l’ora di poter andare nelle grandi città
per dare inizio alla loro criminosa attività, così come oggi appare in tutta
la sua drammatica evidenza. A Paluzza, nell’autunno 1991, restano solo poche
decine di albanesi, che vengono sistemati in alcune case disabitate. Alcuni
trovano un lavoro, altri continuano a bighellonare per i paesi, molti se ne
vanno. Di quest’ultimi, alcuni ritornano alla guida di potenti Mercedes e con
una sinistra fama, altri non ritornano, lasciando le case che li avevano
ospitati in condizioni miserevoli. Accadono zuffe in paese,
ferimenti; subentrano successivamente
problemi di tipo sentimentale con alcune donne del luogo, che daranno
origine a spiacevoli fatti e a
crisi familiari. Devono passare ancora alcuni mesi perché anche l’ultimo
albanese disoccupato lasci Paluzza. Con la loro partenza, il paese
torna finalmente alla sua primitiva tranquillità ed ai suoi problemi di
sempre. Oggi a Paluzza e dintorni “albanese” è diventato sinonimo di
sfaccendato e ingrato; ma anche di peggio. 1999, KOSSOVARI IN CARNIAGli ultimi mesi del 1998 ed i primi
del 1999 sono caratterizzati dalla riesplosione del conflitto etnico tra i serbi
e gli albanesi del Kossovo, una delle regioni della disciolta Jugoslavia
comunista. Nello stesso Kossovo convivono due etnie, per religione per lingua e
per cultura diverse . I serbi sono cristiano-ortodossi di lingua slava,
mentre gli albanesi sono di religione islamica e di lingua albanese.
Atrocità si registrano in entrambi i campi. Nessuna delle due etnie vuole cedere e la guerra di prospetta
lunga e durissima. Molti kossovari fuggono e attraversano l’Adriatico
sbarcando sulle coste italiane. A centinaia continuano a passare attraverso il
confine a Nord-Est di Gorizia, senza che si appronti un benchè minimo efficace
controllo. La mafia locale agevola questi sbarchi ed anzi li organizza a prezzi
elevati, con fornitura di biglietti ferroviari. Dove sistemare tutti questi
kossovari per lo più di religione mussulmana, che arrivano in Italia ?
Ecco la risposta che giunge il 18
marzo 1999: NEMO GONANO propone che vengano inviati in Carnia per ripopolare
questo territorio e per essere adibiti in quelle mansioni che i carnici non
vorrebbero più seguire. Ma chi è NEMO GONANO? Nemo Gonano non è un signor
“nessuno” anche se invero il suo “nome proprio” in latino significa
esattamente questo. NEMO GONANO è un carnico di Prato Carnico, che ha fatto il
Direttore Didattico. Non solo, ma NEMO GONANO, quando era socialdemocratico del
PSDI, è stato Presidente del Consiglio Regionale dal 1998 al 1993, ai tempi di
Biasutti e Turello, ed ha quindi rivestito ruoli di responsabilità politica di
primo livello. Attualmente NEMO GONANO, è, tra l’altro, presidente di ERMI
(Ente regionale Migranti) ed in questa veste ha lanciato la sua singolare
proposta. La Carnia oggi chiede solo di essere salvaguardata nella sua sopravvivenza come popolo, mediante leggi regionali e statali adeguate, in grado di garantire una minima permanenza della gente nelle valli, tenendo ben presente che Tolmezzo non è “le valli”. Se ciò non è possibile o non è nei programmi di chi ci governa, si abbia almeno la decenza di lasciare che la Carnia muoia lentamente, da sola, senza alcun tipo di eutanasia esterna. Di questi fraterni aiuti la Carnia vera, quella delle valli, vorrebbe sinceramente farne a meno. AziendaPromozioneTuristica
CARNIA
(int.
8)
COMPONENTE
RUOLO PAESE
D’ORIGINE
La
montagna non è
Tolmezzo Sono ormai parecchi anni che
sosteniamo inutilmente che la Carnia
non è Tolmezzo, anche se a Tolmezzo è attualmente ammassato 1\5 dei carnici,
molti dei quali hanno definitivamente scelto il capoluogo a scapito dei propri
paesi d’origine. Con questa affermazione apodittica intendevamo specificare
che la montagna non può essere considerata globalmente uguale. Infatti
tra Ligosullo e Tolmezzo vi sono delle significative differenze (o NO?),
come esistono certamente tra Timau e Cavazzo o tra Forni Avoltri e Amaro. Voler
considerare tutta la Carnia meritevole delle medesime attenzioni e cure, ci
pareva oltremodo ingiusto e dannoso proprio per quei comuni più emarginati e
disagiati. La vicenda poi della BENZINA AGEVOLATA aveva finito col dare il
classico sberleffo proprio a quei comuni più svantaggiati ed economicamente
fragili, dove la benzina costa paradossalmente più che a fondovalle (ma questo
è un altro problema, certamente ininfluente ai fini del nostro discorso).
Abbiamo fatto questa lunga premessa per dirvi che siamo stati eccezionalmente
sorpresi leggendo il II volume recentemente edito dalla Regione FVG nel 1998 e pubblicato
in occasione del 10° anniversario del
famoso e fallito PROGETTO MONTAGNA. Bene, a pag. 26 di questa
pubblicazione apprendiamo con estremo favore che la nostra Regione ha finalmente
recepito (non si sa come) le legittime istanze circa una ridefinizione
delle fasce montane ai fini di una futura defiscalizzazione o di futuri
benefici. Vediamo succintamente come sono stati redistribuiti i comuni di
Carnia, secondo un criterio socio-economico e geografico. ·
La PRIMA
ZONA, denominata PEDEMONTANA, comprende i comuni che molti osservatori
ritengono ormai di dover escludere dai territori montani, proprio perché già
raggiunti dai processi di sviluppo e dalle grandi vie di comunicazione. Tra
questi comuni della PEDEMONTANA vi è per ora incluso solo Tolmezzo, ma i
tecnici regionali sono favorevoli ad includervi anche Amaro, Villa Santina e
Cavazzo (attualmente collocati nella seconda zona), i quali dunque, pur facendo
sempre parte della Carnia, non verrebbero più considerati fiscalmente ed
economicamente montani. ·
La
SECONDA ZONA denominata MEDIA MONTAGNA comprenderebbe:
Arta Terme, Enemonzo, Ovaro, Raveo, Sutrio, Amaro, Cavazzo, Villa Santina e
Zuglio. ·
La
TERZA ZONA denominata
ALTA MONTAGNA, comprenderebbe
tutti i restanti comuni di Carnia e cioè: Ampezzo, Cercivento, Forni Avoltri,
Forni di Sopra, Forni di Sotto, Lauco, Ligosullo, Paluzza, Paularo, Prato
Carnico, Preone, Ravascletto, Rigolato, Sauris, Socchieve, Treppo Carnico,
Verzegnis Questa nuova ridefinizione
delle zone della Carnia, pur se sucettibile di limitate variazioni, prefigura
finalmente quale dovrebbe essere il prossimo impegno regionale e le relative
risorse finanziarie, da indirizzare esclusivamente verso quei comuni compresi
nella TERZA ZONA, ossia verso quei comuni
più deboli ed emarginati che il defunto PROGETTO MONTAGNA ha solo lambito con
l’irrisoria cifra di 4,1 miliardi in totale sui 116 effettivamente spesi nelle
altre zone. Qualcuno potrà forse criticare questa nuova impostazione
operativa regionale, bollandola con il triste marchio del DIVIDE ET IMPERA,
tuttavia a noi pare che questa impostazione, se mai verrà concretamente
applicata, gioverà certamente a quelle zone finora tragicamente trascurate da
ogni serio processo di sviluppo organico. Sono
però già passati quasi TRE ANNI dalla pubblicazione di questo volume ma NULLA
SI E’ ANCORA CONCRETIZZATO. Solo e sempre parole (parlate o scritte) ma nulla
più. |