Storia di un alpino morto ammazzato

recensione di Marino Plazzotta

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Noi Carnici siamo sempre stati incapaci di protestare.
Nella nostra storia recente non esiste cronaca di gesti di protesta.
Forse qualche blocco stradale (uno), una manifestazione con il clero e l'allora vescovo di Zuglio Brollo, finita , come sempre, in chiacchiere, cioè senza nulla di fatto. Pure quando andiamo a votare noi Carnici siamo sempre ed inutilmente tradizionalisti. Anche il "non voto" si riduce ad una inutile protesta, sempre inutile, ma in particolare per noi che siamo rimasti cosi pochi. Un episodio, forse, è rappresentato dalla Lega Nord, che per una volta è riuscita a mandare a Roma, non per scodinzolare, un senatore delle nostre parti.
In uno scenario che vede svuotate case troppo grandi da riscaldare e paesi troppo piccoli per giustificare certi servizi, e canoniche vuote, scuole chiuse, suore ed asili scomparsi, osterie, tradizionali punti d'incontro degli uomini, svanite, unico gesto concreto di protesta, quasi eversivo, controcorrente, non omologabile, in un certo senso "straordinario" è quello tenacemente voluto e perseguito da Mario Flora. Egli è riuscito a far erigere un cippo sul luogo dove il suo prozio, l'alpino Silvio Ortis assieme ad altri tre commilitoni , è stato fucilato nel lontano 1° luglio 1916.
Che quest'evento sia straordinario lo dimostra l'uscita del libro della giornalista Maria Rosa Calderoni "La fucilazione dell'alpino Ortis", edizioni Mursia-Milano, dove si racconta con documentazioni, testimonianze e ragionamenti comprensibili e ben argomentati, la triste storia dei quattro alpini Basilio Matiz di Timau, Corradazzi Giobatta di Forni, Massaro Angelo di Maniago, assieme ad Ortis Silvio di Paluzza, che benchè innocenti, in quel primo luglio 1916 finirono morti ammazzati condannati con l'infamante accusa di "rivolta in armi".
Un cippo eretto in un piccolo comune della Carnia in memoria di quattro soldati finiti davanti al plotone d'esecuzione, è davvero oltre che uno straordinario gesto di protesta, nata dal basso, un fatto unico in Italia, in Europa e probabilmente nel mondo. Sancisce e diviene testimone, sentenza, di una condanna alla condanna!
Un vero atto di protesta, il primo in assoluto che si sia riusciti ad esprimere in Carnia.
Ciò ha dato molto fastidio all'ufficialità militare codificata ed all'"ordine costituito", al punto da indurre il presidente dell'Associazione Nazionale Alpini, sezione di Tolmezzo, a "diffidare" i soci di Cercivento che avevano presenziato alla cerimonia.
La partecipazione a quella cerimonia di alcune penne nere paesane, cui la tradizione orale ha trasmesso il ricordo della agghiacciante "ingiustizia militare" tragicamente subita dai quattro alpini, è stata ritenuta "inaudita" e complice di quanti "strumentalizzano episodi non certo gloriosi per denigrare le forze armate".
Nonostante le retoriche proteste, finalmente, quei quattro nomi dimenticati, anzi nemmeno inseriti negli elenchi ufficiale dei caduti (i passati per le armi, condannati da un tribunale militare, non hanno diritto ad alcuna memoria) trovavano un semplice, anche se tardiva e simbolica riabilitazione , in attesa di quella ufficiale .
Probabilmente per una singolare coincidenza quei quattro nomi passarono sotto gli occhi della giornalista Calderoni che si incuriosì prima, poi si appassionò alla vicenda.
Iniziò un'indagine meticolosa. Venne su, da Roma, più volte in Carnia. Conobbe ed intervistò i pochi rimasti con la "memoria storica" dell'episodio. Scoprì il marchio della vergogna con cui quattro famiglie erano vissute per più di cinquanta anni e i nipoti cui furono rifiutate le domande di entrare nella Guardia di Finanza o dei Carabinieri. Incontrò Mario Flora che sulla base d'alcuni documenti processuali rinvenuti per caso in un mercatino di Parigi da Gian Paolo Leschiutta, ostinatamente cercava e cerca una riabilitazione per il prozio e i suoi compagni di sventura . Prese coscienza della miseria che segna questa terra bella, ma sfortunata. Il paesaggio carnico nasconde l'anima di un popolo che ha girato il mondo. Il suo breve orizzonte incita e spinge ad emigrare, a cercare spazi anche se ciò, spesso , significa sofferenza e cocenti lacrime.
Si rese conto di che cosa è stata l'emigrazione che trovava sfogo allora (1900-1916) anche nella vicina Carinzia , prospiciente a quelle postazioni sul monte Celledon, sul Pal Piccolo, Pal Grande e Freikofel , da dove alcuni alpini avrebbero dovuto, improvvisamente ed inspiegabilmente, cominciare a sparare per uccidere quelli che fino al giorno prima erano o amici o compagni di lavoro. Sintetizza la Calderoni: " per noi carnici era tutto il mondo che andava sottosopra e non sapevamo perché".
Capì che cosa significasse avere una mucca in stalla ed un maiale nel porcile: una banca per queste nostre povere famiglie!
Imparò parole nuove per lei come "mandi" o "scior santul". Provò ad infilare i "scarpez" e si fece fare il "frico di cartufules".
Poi si mise al lavoro ed oggi ci presenta la sua opera che in sé rappresenta una riabilitazione dignitosa, sebbene non ufficiale, per i parenti di Silvio Ortis.
La vicenda della 109° compagnia alpini, VII° reggimento, battaglione Arvenis, consumatasi sul Cellonkofel a ridosso dei più famosi e conosciuti Pal Piccolo e Pal Grande viene così succintamente ricordata da un Austriaco, studioso della Grande Guerra, Walter Schaumann: "Dopo l'attacco senza esito del 25 giugno, la compagnia d'alpini (109°) che occupava la cima Ovest del Cellon, si sarebbe rifiutata di ripetere un altro attacco, considerato dalla truppa, puro e semplice atto suicida. La compagnia fu tolta da lì, punita con grande severità (i quattro fucilati di Cercivento) e furono altri reparti ad espugnare il Cellon in mezzo alla nebbia".
Quella triste storia rimossa oltre che dai responsabili anche da quasi tutti i paesani, rivive nelle righe scritte dalla Calderoni con partecipazione e sincero desiderio che si faccia "giustizia" e venga finalmente fuori la verità. Nella presentazione al libro, lo storico Pietro Barcellona dice una cosa che mi ha colpito: "I soldati morti in guerra sono sempre vittime innocenti". Questa perentoria affermazione che condivido, rende ancora più drammatica e tragica la fine di Silvio Ortis e dei suoi compagni, condannati, innocenti, da un tribunale di guerra che per dei valori inutili, diramati da circolari vuote ed insensate, ha imbastito un indegno processo celebratosi, ironia della sorte, dentro la piccola chiesa di Cercivento ed ha avuto una fulminea soddisfazione in uno spiazzo poco sopra il cimitero.
La Calderoni è riuscita perfino a capire lo stato d'animo di alcuni di noi nei confronti della Italia, mettendo in bocca ai nostri sfortunati paesani questa considerazione che forse è ancora attuale.: : "Un'Italia che per noi restava un paese mai visto e conosciuto e quella Roma che era come in capo al mondo, chissà dove. Un'Italia dalla quale non ci veniva niente, solo la leva, la guerra e le tasse; che non aveva tempo per curarsi di noi e ci lasciava abbandonati come era sempre stato; con il lavoro che come sempre, dovevamo andare a cercare fuori e… " , quella Roma che aveva mandato gli alpini, anche Ortis, a combattere nel deserto Libico, quella Roma che poi premiava lo stesso Ortis con due medaglie, una nel 1912 per la guerra Italo-Turca, l'altra nel 1915 in quella che, non si sa perché, è chiamata "guerra per l'unità". Le schede di approfondimento che fanno da appendice al libro, sono particolarmente utili proprio perché aiutano a capire il clima, l'ambiente, la miseria in cui si è svolto il fatto di cui si parla. In una di queste schede si ricorda che "quando moriva un mulo c'erano verbali e verbali da riempire, mentre, quando moriva un soldato, erano sufficienti poche righe". Del resto si sa che i muli sono sempre costati, mentre i soldati, soprattutto se montanari o contadini, no!
Davvero questo libro potrebbe aiutare tutti noi a non morire "stupidi" come quel capitano della 109°, Ciofi, pretendeva da quei quattro alpini " morti ammazzati".
Anche se la stupidità regna fra le burocratiche disposizioni di Roma, pensate che la riabilitazione dei quattro innocenti è "inammissibile", perché l'istanza di riabilitazione, ai sensi dell'art. 683 del codice P.P., "deve essere proposta dall'interessato"!
Siamo certi che la nostra gente riuscirà ad esprimere ai parenti quella solidarietà e comprensione che uno stato o una patria matrigna è stata e , molto probabilmente, sarà incapace di esprimere.

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