Tra la vita e la morte

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Così mi pare di poter  tradurre il titolo dell’ultimo libro “Lûs e scûR  che il circolo culturale “ La Dalbide ” di Cercivento, ha pubblicato e che ho letto con  curiosità , accompagnata, via via, durante la lettura , da una intensa nostalgia.

Spesso mi chiedo  perché i ricordi, le memorie, debbano provocarmi  tristezza  e sofferenza, e non so darmi una risposta.

Forse perché in essi  ritroviamo  quello che eravamo e non siamo più?

Forse perché  ci rendiamo conto di perdere ogni giorno dei riferimenti importanti, che in qualche modo hanno lasciato una traccia, un sapore,  nella nostra vita? Forse perchè ci sentiamo vuoti di speranze, di  ideali e di obiettivi?

Nel leggere “Lûs e scûR” curato da Celestino Vezzi, Alessandra Silverio, Manuela Quaglia, (ed. Tipografia Cortolezzis-Paluzza), più volte sono stato preso da una emozione che non riesco a descrivere.

Questo libro,  che raccoglie  e racconta i  momenti  che hanno  accompagnato   dalla nascita alla morte  la vita di un Carnico qualsiasi, magari di Cercivento, è una specie di diario in cui  molti di noi,  che abbiano più di 40 anni, vi  riconosceranno il proprio ambiente e le proprie vissute abitudini.

L’impostazione che gli Autori hanno dato ai ricordi, alle reminiscenze di anziani con “memoria”,  sembra si proponga soprattutto di riuscire ad  archiviare, a catalogare non solo  nella storia, ma anche nella testa di giovani e meno giovani,  una cosciente consapevolezza del tempo che passa e rischia di macinare assieme alle vite di ciascuno anche i valori e quei punti di riferimento che  sono stati di aiuto, di guida ai nostri  genitori ed a molti di noi.

 

La vita e la morte sono due parole che  inevitabilmente pongono interrogativi. La morte fa sempre paura! Non sei mai preparato a riceverla anche  se per tutta la vita hai pregato ogni sera: “Gesù Giuseppe Maria spiri in pace l’anima mia!”

Siamo interiormente convinti che il “ mistero della vita  “ è più’ “misterioso” di quello della morte, perché la morte è certa e “no cjale in muse  nissun”, mentre  la vita  è  incertezza sempre per tutti.

La vita rappresenta un orizzonte infinito e spaventoso nelle possibili sfavorevoli evenienze,  mentre la morte è come un punto finale che si sa  che,  quando ci sarà,  noi non ci saremo.

Nel libro gli argomenti sulla vita sono contrassegnati da una stella e quelli sulla morte da una croce che riproduce esattamente quella che abbiamo visto intagliata sulle pareti di legno di tutti i nostri stavoli carnici. Entrambi sono stati  simboli di speranza e di fede.

Se  noi subiremo la morte senza esserci posti  interrogativi, i nostri figli o nipoti dovranno  affrontare la vita  da soli, senza indicazioni e senza risposte: senza tabù, ma anche senza simboli.

Ci sono in questo libro delle parole che  non possono non evocare memorie: prima che nascessimo,  la mamma  a spietave” oppure “a  veve di comprâ. “E quant ca ti spietavi- mi ha detto  mia madre  oggi ottantenne- o bramavi tôn e sgombro”. Tonno e sgombro! A me fanno schifo eppure era una   “ voglia”  che aveva   doveva essere soddisfatta, pena imprevedibili sorprese.

Vengono descritti, del nascere e del morire , certi particolari che  oggi , quando la vita e la morte avvengono in ospedale, sembrano anacronistici, irreali , incomprensibili , anzi per dirla psicologicamente, “rimossi”, “ ven a stai ignorâz” anche se sotto sotto, continuano ad esistere!

Chi si ricorda della tanta acqua che si riscaldava  quando  arrivava il momento del parto? Quanti sanno che la “santule” era la migliore confidente delle nostre madri?

Chi si ricorda che quando siamo nati,  i nostri padri, quasi sempre , erano lontani per lavoro e  nemmeno si preventivavano non di  assistere al parto, il che era inimmaginabile,  ma almeno di essere in casa   nel momento atteso?

 

“Lûs e scûR”  è una minuziosa ricostruzione   di quello che  eravamo, è un riassunto  di quegli ingredienti che , seppur in via di estinzione, hanno concorso a formarci ed a  farci vivere  nella gioia o nel dolore, cioè  così come oggi siamo, pieni di speranze o di delusioni.

Dentro questo libro ,  vi possiamo trovare cose vissute , conosciute o  già dimenticate.  Vi è descritto il “portinfant” come il “bleon dai muarz” che veniva  incluso nel “coredo de nuvice”, ci sono i giochi di allora , ci sono le preghiere e le filastrocche che ci inducevano al sonno, ci sono gli esercizi mnemonici che rinsaldavano, apparentemente,  le nostre convinzioni religiose: i 10 comandamenti,  i 5 precetti generali della Chiesa, i 7 sacramenti, i 7 doni dello Spirito Santo,  le 7 opere di misericordia corporale e spirituale, i 7 vizi capitali ed avanti con i 6 peccati contro lo  Spirito Santo…ecc.ecc., per finire con “ l’at di fede, di sperance, di caritât e di dolôr”.

C’è ancora qualcuno che prega nelle nostre famiglie Carniche?

C’è ancora qualcuno che ripete questi esercizi mnemonici utili anche nella vita?

 

L’esercizio della memoria è fondamentale per capire chi siamo.

 

Questo libro prezioso e di valore, scritto in friulano, ma con la traduzione italiana per i tanti che hanno difficoltà con la madrelingua,  dà a tutti noi la possibilità di non perdere la memoria, cioè quell’insieme di tradizioni, abitudini, storie e fiabe che ci hanno accompagnati nella vita e che sarebbe  davvero un errore  lasciare  affogare in quella  smemoratezza che  incombe su  tutti noi.

Il dissolversi delle tradizioni e con esse dei valori potrebbe far scomparire anche  i dati caratteristici che identificano le nostre peculiarità ed originalità. Se perdiamo la memoria di questi fatti, di questi modi di vivere la vita e la morte,  finiremo assieme ad altri nel minestrone della globalizzazione. Concordo con Vezzi quando dice nella prefazione di questo importante documento, che “un patrimoni cussì nol po’ restâ in vite dome tal cjâf dai plui  vecjos par murî cun lôr”.

Leggere e riflettere su questo passato che ci ha lasciato impronte, tatuaggi direbbero oggi, indelebili,   non è un modo nostalgico di sopravvivere, non è una ricetta per migliorare, non un espediente per campare, ma un punto di riferimento  indispensabile per  continuare a vivere pur sapendo di andare verso la morte, verso il “Scûr”.

In questo libro ho trovato,  tra tante altre, una frase  che mi ha sempre colpito, anche quando non conoscevo alcunchè di latino: “HODIE MIHI CRAS TIBI”, che era scritta sul frontespizio dei catafalchi, quella struttura  lignea che veniva  approntata per ricevere la cassa con il morto, o per riesumarne il ricordo nelle  messe di suffragio. E’ un monito razionale,  anche se un po’ cinico,  per tutti: “ oggi a me domani a te”!

Se questo libro che racconta di noi e ci distilla un passato che molti hanno già scritto nel proprio codice genetico, non sarà letto,   finirà con noi .

E’ il mio un accorato invito alla lettura, proprio per non dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Leggiamolo e parliamone in famiglia. Forse scopriremo che i nostri figli moderni si possono appassionare anche a queste memorie e  ne sentono il bisogno, quasi un richiamo, un legame sostanziale con esse,  come se fossero stati vittime di uno “sradicamento” subito.

Possiamo non leggere e non ricordare ed accadrà l’inevitabile: diventeremo un popolo senza destino e  spariremo.

Nessuno si ricorderà del “pan dai muarz”, come non ci sarà più chi ci chiederà:  “ astu  stât in mont ?  astu  cjatât il louf”… Se lasceremo andare , “smemorare” quanto ci viene ricordato in questa eccezionale pubblicazione della Dalbide, davvero perderemo un po’ di noi stessi e della nostra storia.

Con molta tristezza concludo  questa appassionata  riflessione  sottolineando,  con convinta amarezza, il fatto che  Celestino, Alessandra e Manuela  usano quasi sempre il tempo passato…: “ Quando uno nasceva,… quando si andava a battezzare, …quando uno moriva ,  se moriva un bambino a “ sunavin  i companitis”…un passato che  sembra scomparso anche se su ognuno di noi, incombe ancora il “CIRCUMDEDERUNT ME   GEMITUS MORTIS DOLORES INFERNI…” che non può non evocare una certa reatà “prossima ventura”.

 

MARINO PLAZZOTTA (  09.02.01)

  

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