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Media
vita in morte sumus
(Note
sul libro “De profundis” di Pre Antoni Beline)
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Tutti, almeno una volta nella
vita, abbiamo sentito sentenziare: “vita
brevis est”. Forse era un prete, forse un filosofo, forse un anziano o un
genitore.Per certo sappiamo che ciò non ebbe mai alcuna influenza sulle nostre
abitudini quotidiane. Nemmeno la diffusa certezza che “media vita in morte sumus”, cioè che proprio mentre viviamo ci
avviciniamo al nostro destino, credo, abbia mai indotto qualcuno a cambiare la
propria vita. L’ineluttabilità
della nostra sorte ci lascia, per fortuna,
indifferenti.
Per alcuni, poi, il vivere assume
straordinarie caratteristiche di serenità, tranquillità, frequenti momenti di
soddisfazione. Costoro attraversano il tempo che gli è concesso quasi fosse una
passeggiata, quasi fischiando, anzi fischiano proprio. Sono dei privilegiati soprattutto perché condividono un
minimo comune divisore che è importante e fondamentale: la salute. “Mai vût nuie”
ripetono come fosse tutto loro merito!
Gli altri, cioè quanti passano la vita
piangendo, o come si dice dalle nostre parti “càinant”, neppure osano chiedersi perché gli è
“toccata” questa vita e non un’altra.
Il libro di Pre Antoni “De Profundis” (in
lingua friulana) è una precisa descrizione di quello che può accadere a
quanti, improvvisamente, sono colti
da qualche cosa che li sorprende, li stupisce ed avvilisce. Non si parla di
morte improvvisa. La morte come si sa “quando c’è noi non ci siamo”. Si
racconta della malattia che ti fa prima uno sgambetto, poi ti aggredisce con
progressione inesorabile, incatenandoti,
diventa cronica. Più grave è, più grande è la sorpresa di chi la subisce.
Pre Antoni
elenca con una precisione professionale, ma anche con umanità, tutti i
passaggi che uno deve superare per arrivare ad accettare la dialisi. La dialisi
è un trattamento ospedaliero, cui ci si sottopone ogni due o tre giorni, che
rigenera il sangue e non può essere abbandonata pena la morte in breve tempo. Quando questo
trattamento fu prospettato a pre
Antoni, nonostante la delicatezza ed il tatto dei medici, provocò in lui una
reazione naturale ed esistenziale, quasi irrevocabile: “Ch’al lassi che la
nature a fasi la so strade” disse al dottore che gli spiegava la ‘catena’ della dialisi, “non
umiliante, ma condizionante”. “Parcé
a mi Signôr?” Questa domanda che può capitare a ciascuno di noi di dover
porsi nel corso della vita, soprattutto quando questa è limitata, asservita,
condizionata dalla malattia, può
lasciarci senza risposta. “Parcè a mi Signôr?” Se non si riesce a
rispondere in brevissimo tempo può indurre a farci molto male.
“Il dolore è quanto di più personale,
intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini” scrive Salvatore Natoli ed
aggiunge che “il dolore per quanto preparati si sia inchioda,comprime ed
obbliga”. Bisogna sopportarlo, combatterlo, sperando di vincerlo.
“Il dolor po pocâti a preâ o a bestemâ, ad acetâ o a rifiutâ”
scrive Pre Antoni e non nasconde
l’ angoscia che si distende sul futuro, né
la consapevolezza di avvicinarsi ad
un evento finale che tale situazione accelera.
Ricorda le malattie che lo
hanno accompagnato da sempre: broncopolmoniti, occlusioni di arterie, infarto
intestinale, “la curtissade che mi ha forât i bugjei”, fino alla fase
finale: la dialisi.
Con paziente
ironia e serenità pre Antoni legge la sua vita, racconta i suoi drammi e
propone una via di uscita: accettare.
Non esistono parole che possano convincerti ad essere morituro ed accettare un
destino scritto dalla natura. Resta repellente ed illogico, incombente come una frana.
Quest’uomo ci aiuta non ad autoconsolarci, ma ad accettare
il nostro destino. Ci insegna ad avvicinarci al fine della nostra vita senza entusiasmo, ma anche senza
disperazione. E’ commovente accompagnarlo in quel difficile momento in cui
il medico gli conferma che ormai a quel punto, la scelta “l’à fate il mâl” che potrà essere
controllato, ma non eliminato o fermato.
Il cambiamento di abitudini, di orari, di
vestiti, di alimentazione è registrato con bonaria ironia “cul orari, just,
dal ospedâl, a vot di sere si è za stufs di ve zenât” (106) oppure “un
come me, ch’al è vivut par une vite dibessól e che s’al sint ancje dome a crizâ une brê nol siere voli, al è evident che al varà
di fa vitis di cjan par usasi a durmì cun atre int tune struture simpri in funzion (57).
La “disinvestitura” che l’ospedale
mette in atto con tutti i ricoverati è accomunante:
siamo tutti uguali. Forse per un prete rinunciare ai suoi segni distintivi, alla
sua divisa, al suo potere potrebbe essere problematico. Essere come gli altri dopo aver occupato
posizioni di potere, distinti da
una divisa, può essere traumatizzante.
La consapevolezza di stare attraversando un
periodo di vita buio, non scoraggia pre Antoni che con tenacia e fede prega e
chiede un po’ di luce al Signore. E’ una riflessione triste, come è triste
l’esperienza di solitudine in cui relega
la malattia.
E’ un libro di speranza
anche se non nasconde l’improvvisa sofferenza di una malattia che arriva senza
alcun preavviso.
Ti vuole
convincere che “la flamute”
se la cerchi la trovi e così illuminerà la
strada della vita.
E’ un libro che ti sprona ad essere coraggioso e ti invita
a “puartà la cros e no a strisinale parcé che ti seares lis spalis”.
E’ un libro pieno di fede in Dio, ma anche
nell’uomo: “o ai dibisugne di crodi tal Signor, ma ancje in mè” (104).
Si trovano ancora nel libro “De
Profundis” una lunga meditazione sulla settimana santa (Pre Antoni è stato
ricoverato per la dialisi durante la settimana di Pasqua 2003) e tante domande esistenziali di un uomo
che teme di essere abbandonato nel buio.
Quando accetta il trattamento della dialisi
recupera la sua ironia e riprende le sue amorevoli critiche nei confronti della
struttura “gleseatiche” che
spesso ignora la sua malattia,
sebbene qualche emissario lo vada a trovare proponendogli ragionamenti e
filosofie irritanti.
E’ un vademecum che aiuta
a vivere sia quanti hanno già
esperienza della malattia che quanti vanno,
fischiettando, verso la loro fine.
Questa intensa
riflessione pre Antoni la conclude con una aspirazione che attraversa tutto il libro: “che la muart nus cjati vîfs”.
Marino Plazzotta
Agosto 2004