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ANNI
DURI
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Dal
libro che presento, emerge l'autoritratto di un ragazzo che cresce
faticosamente e prende non senza incertezze la decisione di farsi
prete.
L'autore superata una iniziale ritrosia a raccontarsi, si svela con
semplicità e
spontaneità. Il pregio maggiore della piccola opera sta proprio
nell'autenticità, nell'aver lasciato parlare il cuore.
Il protagonista più che Primo lo si dovrebbe chiamare "primitivo" come
lui stesso ammette più volte. Di sicuro è lui, ma nel contempo è anche
tutti i
piccoli selvaggi che eravamo noi, tanti anni fa, quando si viveva nella
civiltà pre-industriale, rurale.
Il testo va letto. Dai vecchi con nostalgia perché ricorda i bei tempi
passati, dai giovani con curiosità per riconoscere le differenze con
l'oggi.
Va letto, costa poco. Si può leggere prima o dopo i pasti, è gustoso
e non
indigesto; può esser letto avanti o dopo essere andati a letto, non
dà
insonnia e non produce incubi, al massimo può conciliare il sonno, il
che
non fa mai male!
E' un bel libro. E' scritto in modo semplice. I capitoli si susseguono uno
dietro l'altro con uno stile fresco, simpatico, direi giocoso. Poche,
essenziali le preghiere; tante, ingenue e perciò saporite, le battute.
E' divertente e positivo. Sembra scritto da. un altro autore! Non è una
battuta gratuita o una voluta cattiveria. Ora mi spiegherò.
Anche
se l'ho frequentato pochissimo, don Primo lo conosco da sempre. Fin
da
piccolo me ne hanno parlato in modo entusiastico sia lo zio don Lorenzo
Dassi che lo riteneva oltre che figlio spirituale anche amico fidato e
saggio sia la mamma che lo stimava come prete sapiente e bravo. Lo
conoscevo, da sempre, ma in modo parziale e ora ne sono certo, distorto.
Dopo
la messa festiva, il 6 agosto scorso don Primo mi avvicina e mi dice
che avrebbe piacere che io presentassi il suo "primo" libro, in "anteprima"
qui a Treppo.
Era la solennità dell'Addolorata e la mia prima reazione mentale è stata:
" Madone. e cumò ce ao di dij!?" Forse ha intuito l'attimo di
perplessità e
mi ha immediatamente rassicurato dicendomi che si trattava di un librettino
di ricordi, dei suoi anni giovanili, in cui si parla anche di Treppo e dello
zio don Lorenzo.
La preoccupazione dentro di me è diminuita e mi son sentito dapprima
onorato
e poi contento di poter incontrare un don Primo in veste nuova, meno nera
del solito. Mi piaceva poter fare qualcosa per conoscere di più quella
figura di prete che mi era stata presentata in termini lusinghieri, ma che
non mi aveva mai conquistato personalmente. Forse potevo tentare anche di
superare lo stereotipo, l'immagine superficiale e sicuramente parziale, che
mi ero fatta. Valeva la pena comunque provare e in tutta franchezza.
Nel
pomerggio divorai il libro. Con piacere. Effettivamente, fin dalle
prime
righe, mi resi conto che mi trovavo innanzi un personaggio nuovo,
sconosciuto, che a poco a poco mi si svelava. Finora don Primo mi aveva
aperto la mente, avevo talvolta condiviso, più spesso dissentito; ora
mi
apriva a poco a poco il cuore e non potevo che apprezzare, essere solidale,
sentirmi preso.
Ogni
anno don Primo era presente alla festa dell'Addolorata. "Patiès" negli
ultimi anni lo avevo fatto senz'alto derivare dal greco "pathos",
che può
essere tradotto con "passione". Col termine "passione" mi
riferivo alla
sofferenza interiore provocata in me dalle sue prediche tutte orientate a
sottolineare "la decadenza mo-ra-le e mor-ta-le (con una dizione scandita)
dei nostri tempi senza Dio". Non è questa la mia visione, ma non
importa. Se
fosse stato bel tempo quella domenica sarei andato a camminare in montagna;
ero già depresso per conto mio per rischiare il peggio!
E
invece. questa inaspettata e perciò cento volte più gradita
richiesta. La
presentazione: una mano tesa in amicizia, ma soprattutto la felice proposta
della lettura di un testo che mi avrebbe scombinato tutte le carte.
Avevo davanti, nelle pagine del testo, un "secondo" don Primo, completamente
diverso da quello che conoscevo. Non il don Primo, primo della classe,
chierico modello, filosofo acuto, teologo scrupoloso, prete integerrimo,
preside colto, rettore inossidabile; non il don Primo che sta nell'Empireo
della filosofia e della teologia, sulle nuvole o sul pulpito. Mi trovavo
dinnanzi a un don Primo "Rasoterra".
Il don Primo ultimo fra i poveri di Pedemonte, l'alunno monello, il ragazzo
dalle idee confuse, il figlio irrispettoso, il chierichetto birichino, il
seminarista irregolare. Mi si svelava a poco a poco un'altra persona. Non il
prete che vola alto nel mondo delle idee o che sta in sella ad
un'istituzione tricentenaria, ma un ragazzo modesto, "piccolo fra i piccoli"
di questo mondo, che fa la fame e cui piacciono le ragazze. Uno che ci
racconta semplicemente di aver detto quello che tutti abbiamo detto, più di
una volta, a nostra madre: "mierde mari"! Proprio rasoterra.
Mentre leggevo e rileggevo, dentro di me il contrasto si faceva sempre più
netto. Due erano le immagini: da una parte il prete modello (di cui non
condividevo certe idee, pur stimandolo) e dall'altra il ragazzo monello in
cui non potevo che identificarmi e riconoscermi.
Le due immagini però adesso si contrapponevano, mi sembravano
contraddittorie, erano in aperto conflitto. E come negare una
contrapposizione insanabile fra un don Primo che ingenuamente si racconta
intento a fare "la pipì dai poggioli" e un don Primo che tuona
contro
" materialismo, ateismo e ni-chi-li-smo (scandendo)"?
Leggendo quelle pagine scorrevoli ed attraenti mi veniva da chiedermi: "E'
mai possibile! Qual è il don Primo vero, autentico? Quel bambino libero,
come può essere contenuto in quell'adulto dogmatico, in quel prete integro
se non integralista"?
Il dilemma iniziò a risolversi quando giunsi a pagina 88: "Dopo
la morte
di mio padre, i creditori si fecero avanti. La persona più disponibile è
stato un signore del centro. Correva voce che fosse uno spretato. In ogni
caso a noi fu di grande sostegno e conforto. E il buon Dio ne ha tenuto,
senz'altro conto".
Questo
episodio dello spretato mi fece cadere l'ultima barriera che mi
impediva di riconoscere un'immagine integrata di don Primo.
Don Primo è nato a Treppo il 21 aprile 1923. Negli anni seguenti ha
cominciato a frequentare il nostro paese e dopo l'ingresso in seminario da
oltre settant'anni, poco o tanto, ma si può dire sempre è venuto
nel nostro
paese.
Nei primi anni di prete era particolarmente fervente e combattivo. Il
momento storico lo richiedeva, gli anziani ricorderanno il clima politico
accesissimo del '48 e poi le prime elezioni. Nel '53 si era vicinissimi alla
seconda tornata elettorale e un giorno dall'alto del muro delle scuole
vecchie (ora biblioteca) faceva il suo comizio un oratore comunista, tale
Salvatore Maccarrone, ex cappellano militare, convertito, dopo la terribile
disfatta in Russia, alla fede nella rivoluzione proletaria.
Contemporaneamente sul muro di fronte, quello della Canonica, un giovane
prete, don Primo nella mia immaginazione, col vangelo in mano intratteneva
un aspro contraddittorio bollando il politico da spretato ed impostore. Io
non ero ancora nato, ma il racconto fattomi di questa scena violenta,
esagerato dai miei fratelli e smentito da mia madre, aveva lasciato un segno
negativo nell'interpretazione della figura di don Primo. (In realtà si
trattò di uno scambio di persona: il contraddittorio avvenne con don
Adriano
Menazzi, giovane parroco di Ligosullo come il maestro Agostino Di Comun mi
svelò dopo questa presentazione!).
Quell'integralismo, quello spietato atteggiamento di condanna trovavano nel
libro una spiegazione umana dove si parla di educazione rigida e
deresponsabilizzante, ma è soprattutto nella frase citata dove don Primo
si
dichiara certo della misericordia divina per lo spretato che trovo
espressioni che mi convincono oltre a commuovermi: ecco l'intima essenza di
don Primo, ecco quello che mi mancava!
Strano libro di questo prete-filosofo pieno di sentimenti. Strano questo
libro di questo prete censore che parrebbe intransigente e che è invece
pieno di tolleranza: per la nonna fattucchiera, per lo spretato generoso,
per il suicida disperato, per i fidanzati poco casti, per il padre
spirituale inadeguato.
Ora
che ho letto e riletto il testo, mi viene da invidiare le persone
che
hanno conosciuto profondamente e di persona don Primo, i suoi ragazzi
innanzitutto che l'hanno conosciuto a tutto campo (il riferimento non è
casuale considerata la sua passione per il calcio). Sono invidioso di
costoro perché al cuore di don Primo io c'arrivo per ultimo, dopo 53
anni.
Il lato a me nascosto di questo prete, lo intuivo, lo intravvedevo, ma non
l'avevo percepito distintamente, in modo netto e convincente. I suoi ragazzi
lo hanno sempre conosciuto perché se da un lato, stando che era un loro
superiore, lo chiamavano nascostamente "Super-corto-maggiore", dall'altro
era pubblicamente soprannominato, come ci dice mons. Padovese, "Jack" (il
pistolero, freddo e inflessibile, che non perdona) "rasoterra" (piccolo
e
vicino al loro mondo di studio, di gioco e di vita).
Ecco ancora l'integrazione di cui sentivo il bisogno: potevo immaginarmi un
don Primo educatore, ma soltanto della mente.
Da una parte il prete rigido educato a diffidare del corpo come si può
leggere in tante pagine e dall'altra il bambino-giovane con la spontaneità,
la naturalezza, addirittura la candida semplicità del suo confessare
una sua
istintiva e perciò buona attrazione nei confronti delle coetanee ed "in
particolare per una che ai miei occhi era la più bella del paese".
No, non erano due persone. Non c'era stato uno sdoppiamento. Non si erano
perse la sensibilità e la semplicità primitive. Il prete aveva
conservato
quell'animo povero e semplice da fanciullo, solo che era nascosto sotto una
scorza ruvida, "burbera": era così, senza ombra di dubbio.
Dunque
per finire: il libro è bello. Il libro è profondo.
Nel racconto c'è
un crescendo di contenuto. Si passa dal mondo fiabesco della fanciullezza a
quello mitico e problematico dell'età adolescenziale a quello storico
della
giovinezza con le prime importanti scelte e azioni. Si parla della piccola
e
della grande storia. Si ricordano avvenimenti e persone. C'è un'incredibile
densità e profondità di sentimenti. E di questo abbiamo grande
bisogno.
Tutti e i giovani innanzitutto.
Caro don Primo, per te quegli anni furono "Anni acerbi" più che
duri. Acerbi
come il sapore delle mele che da bambini si rubavano dagli alberi prima che
maturassero. Acerbe, ma buone, il cui sapore ci fa venire ancor oggi
l'acquolina in bocca!
Don Primo oggi è ben maturo coi suoi 83 anni portati come un "signorin",
non
è più così acerbo come da "frut". Ma non ha perso,
per caso o per Grazia,
quel suo fragrante e buon sapore della giovinezza.
Gli undici anni di seminario non sono riusciti a cancellare la sua indole.
Ma è stata dura. Nella sua presentazione ci svela il suo travaglio quando
ha
deciso di scrivere e poi pubblicare le sue memorie. Bene ha fatto l'editore
a chiedere realismo e riferimenti precisi. Sono le sue parole: "Temevo
di
risvegliare il mio vissuto". Chi ha vissuto il seminario, conosce questa
paura. Si cercava di cancellare i sentimenti, di evitare coinvolgimenti
emotivi, le amicizie, gli attaccamenti. Si ingenerava terrore del corpo e
dei suoi naturali impulsi e bisogni.
Continua l'autore: "Infatti una volta risvegliato il vissuto, fui travolto
dal mare burrascoso del mio passato. Eppure mai naufragio fu così felice!"
Ci vollero più di settant'anni per recuperare quelle emozioni , quei
sentimenti e quei vissuti soffocati.
Grazie don Primo per aver continuato nella lotta per riportare alla luce
questa componente importante della tua personalità. La dimensione del
corpo,
la realtà profonda del sentire, della apertura del cuore.
Ed ecco, come in una catarsi, che si conclude il racconto di questo
travaglio interiore: "Ben presto al timore iniziale subentrarono la
curiosità, l'entusiasmo, la gioia, la commozione.". Quei sentimenti
che gli
era stato insegnato di rimuovere, di dimenticare ( non guardare in faccia le
donne: "Ce ti ano insegnât in seminari? A no cjalâ in muse
nencje to mari"!)
riaffiorano in tutta la loro ricchezza e bellezza.
Ti sei assoggettato alle regole, ma sei rimasto un uomo libero! Sei entrato
nell'esercito un tempo più fedele del mondo, ma sei riuscito a disertare!
Non hai rinunciato alla tua indole e hai voluto consegnarci il selvaggio, il
primitivo che c'è in te: il monello-modello!
Grazie don Primo per averci aperto il cuore. Forse non sei il primo. Certo
sei unico e raro. Grazie e buona lettura a tutti.
Nino Moro
Treppo Carnico, aprile 2007