SCRIVIMI UNA CARTOLINA

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Il Circolo Culturale "Giorgetto Unfer" di Timau ha dato alle stampe in questo primo scorcio del 2012 una splendida raccolta di cartoline che hanno illustrato il paese e i dintorni, in un arco temporale che abbraccia tutto il XX secolo!
Si tratta di un grosso volume di oltre 350 pagine, egregiamente cesellato in ogni minimo dettaglio da Luciano Plazzotta della tipografia Cortolezzis di Paluzza, il quale ha impresso a questa ennesima opera di recupero storico-iconografico timavese un carattere rigorosamente aderente agli originali, lavorando spesso su reperti deteriorati quando non gravemente lesionati, riportando così in vita immagini e particolari altrimenti persi e dimenticati.
Il presidente del Circolo, Ottaviano Matiz, scrive in presentazione: "... scorci, luoghi punti di osservazione che si ripetono ma che non sono mai uguali: c'è sempre una ramo d'albero, una scritta, una frase che li differenzia, che li rende unici...".
Sono centinaia le cartoline che si susseguono nel tempo e nelle pagine (la prima esposta risale al 1906) e per ognuna di esse vi è davvero il riferimento ed anche il particolare che la contraddistingue.
Timau rivive così un intero secolo attraverso queste rare e preziose immagini-cartolina che svelano l'inarrestabile mutamento del paese, dell'ambiente circostante, dei modi di vivere e di vestire, dei mezzi utilizzati nella quotidianità...
Sfogliando queste interessantissime pagine, si assiste inoltre al lento progresso della tecnica di stampa fotografica: dal seppiato al bianco-nero; dalla approssimativa e a volte fantasiosa (vedi foto a pagina 85) colorazione artigianale eseguita in laboratorio al colore vero e proprio ripreso in loco; dalle pose e postazioni prefissate ai grandangoli moderni.
Anche i caratteri tipografici utilizzati sulle cartoline esprimono bene il lento mutare dei gusti e delle mode, dove però i rutilanti caratteri tipografici moderni non paiono affatto migliori di quelli in voga negli anni '50 e '60 che nella loro essenziale sobrietà indicavano con esaustiva brevità l'immagine riprodotta.
La maggior parte delle cartoline possiede la dicitura del fotografo e dell'edizione, per cui è stato facile e gratificante risalire agli autori ancora viventi (Gino Del Fabbro...) per avere qualche particolare in più; per quelli scomparsi (Mentil Leandro, Tassotti Dante...) la redazione si è avvalsa di vecchie interviste oppure di notizie fornite dai parenti ed in questo modo anche i vari fotografi individuati sono stati doverosamente menzionati.
Anche i collezionisti che hanno collaborato mettendo a disposizione i loro pezzi rari (Plozner Laura e Giuliano De Piante) vengono brevemente presentati nei loro tratti essenziali.
Insomma: una gran bella raccolta di cartoline illustranti Timau e dintorni, che farà certamente gola non solo ai timavesi emigrati altrove (che bramano magari di rivedere e rivivere il paese di allora) ma anche ai cultori di questo simpatico hobby che sa unire meravigliosamente il gusto della collezione con l'amore per il proprio territorio.

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Il 10 agosto è il giorno in cui tradizionalmente tantissimi grandi e piccini si riversano in tutti gli spazi aperti a disposizione, per godesi l’inimitabile spettacolo delle cosiddette “stelle cadenti” che nelle loro scie infuocate, disegnate mentre vanno a morire incontrando l’atmosfera terrestre, trasportano le promesse di desideri realizzati ed aspirazioni appagate. Ogni tanto succede che effettivamente certi desideri vengono soddisfatti, con grande compiacimento dei fortunati. Quest’anno, un venerdì del 2012, tre stelle cadenti sono scese a tradurre in realtà le attese di un ragguardevole uditorio raccoltosi nella sala comunale di Timau ed hanno regalato tre perle di poesia, grazie all’impeccabile cura con cui il locale Circolo culturale “G. Unfer” ha organizzato la tradizionale serata culturale estiva.
Sin dall’inizio, l’incontro promette di svilupparsi su toni di alto livello: viene infatti proposta la presentazione di una raccolta di cartoline che raccontano la Timau del secolo appena trascorso. Il risultato finale è letteralmente affascinante. Grazie alla profonda sensibilità artistica dei fotografi che hanno saputo catturare immagini di ogni tipo con occhio infallibile e rare doti di abilità professionale, quei cartoncini - in origine “vestiti” di un malinconico bianco e nero, per poi gradualmente acquistare tonalità più vivaci, fino ai coloratissimi esemplari attuali – raccontano la storia di un paese: le trasformazioni avvenute durante gli anni sul territorio (basta osservare come boschi, campi e prati offrissero originariamente un’immagine di ordine e pulizia per poi progressivamente soccombere all’incuria dell’uomo ed alla inarrestabile tendenza all’espansione della vegetazione); l’evoluzione della sua architettura abitativa, ovviamente in senso positivo; la maestosa imperturbabilità delle montagne attorno, che da tempi remoti cingono Timau in un abbraccio protettivo, così come sicuramente avevano fatto, dolenti e commosse, mentre cullavano il sonno eterno di tanti giovani che sulle loro aspre balze rocciose avevano detto addio alla vita negli anni tristi della prima guerra mondiale. E poi vedute panoramiche, scorci suggestivi, particolari di luoghi significativi ed importanti del paese, monumenti, locali in cui si effettuano attività commerciali, strade asfaltate densamente transitate e sentieri appena disegnati nel verde di un prato, edifici nobilitati dal sacro crisma della storia patria, pascoli, greggi transumanti, malghe affondate negli irregolari rilievi di alture erbose…una collezione di immagini dalle quali balza viva e vibrante l’essenza stessa di Timau e della sua comunità attraverso l’esposizione visiva di una serie infinita di fatti relativi ad un ambito cronologico, geografico, politico, sociale ed economico. Sfogliando il libro, (introdotto da una approfondita scorrevole presentazione di Ottaviano Matiz, Presidente del Circolo culturale), il lettore è condotto per mano alla scoperta di Timau in misura che oserei definire capillare e, chiudendolo all’ultima pagina, si accorgerà di avere ancora per molto gli occhi pieni di splendidi immagini. Merito dei tanti sinceri innamorati di Timau, i quali hanno fornito il loro fondamentale contributo alla riuscita dell’opera. È doveroso ricordarli tutti nominalmente. Ci riferiamo ai collezionisti di cartoline, dai quali è prontamente giunta l’autorizzazione ad inserire nel saggio alcuni dei loro “pezzi” più pregiati: Laura Plozner e Giuliano De Piante; ai fotografi, mai abbastanza lodati per la loro bravura: Gino Del Fabbro, Mentil Leandro e Tassotti Lionello; ai collaboratori a vario titolo: Maurizio Craighero, Patrizia Craighero, Pietro Fronzaroli, Rosa Maria Mentil, Ivana Primus, Gelindo Mentil, Emidia Mentil, Valeriano Primus, Lidia Muser, Renata Granzotti, Rosalba Pittino, Peppino Matiz, Velia Plozner. Inoltriamoci senza ulteriori indugi nell’esame della pubblicazione e subito scopriamo che all’osservatore è riservata una piacevole sorpresa: ogni argomento presentato successivamente è preceduto da una breve trattato ne che ne illustri gli aspetti peculiari. Un esempio? Guardiamo una cartolina risalente al 1906 e notiamo che allora Timau si presentava in maniera assolutamente diversa, in quanto a caratteristiche architettoniche di molti caseggiati e condizioni urbanistiche. Le case erano relativamente poche, carenti delle comodità che in seguito avrebbero sensibilmente migliorato le condizioni di vita della popolazione. A mano a mano che la data di stampa delle cartoline avanza verso anni più vicini a noi, possiamo agevolmente renderci conto delle trasformazioni relative ad aspetti strutturali e formali, intervenute a modificare certe caratteristiche della vallata, sottoposta a numerosi assalti di capricciosi e spesso tumultuosi corsi d’acqua. La rassegna prosegue con una vasta proposta di cartoline dedicate al Tempio Ossario di Timau, il Sacrario militare costruito tra il 1935 e il 1937 allo scopo di custodirvi le venerabili spoglie di 1768 militari italiani (ed anche settantatré austroungarici) che durante la Grande Guerra persero la vita sui monti sovrastanti Timau, in quei tempi limacciosi trasformati dalle esigenze belliche in fronte carnico. Dal Sacrario, quasi si intendesse stabilire un filo di collegamento tra i due argomenti, si passa a parlare del cimitero di guerra allestito a Timau nel 1920/2, a poca distanza da quello civile. Nelle intenzioni delle autorità militari, nel nuovo cimitero si sarebbero dovute traslare le salme provvisoriamente inumate nel sepolcreto del Pal Piccolo e negli altri cimiteri alpini sparsi lungo il fronte dell’Alto Bût (estratto da “Il recinto della memoria”). Per completezza di informazione, aggiungiamo che quei poveri resti trovarono effettivamente requie nel camposanto di Timau, prima di essere definitivamente spostate, e custodite, nel Tempio Ossario.
Scorrono adesso sotto gli occhi le cartoline che compongono la “sezione” dedicata alle montagne (Ganzschpitz, Freikofel, Pal Piccolo, Pal Grande, Gruppo del Coglians e consorelle), alcune aspre e brulle, altre dolci e boscose, che fanno da corona all’abitato. Le vedute catturano l’ammirata attenzione dell’osservatore e quel susseguirsi di spazi aperti, al confine col cielo, genera uno struggimento inebriante di libertà.
A questo punto del tragitto, intrapreso alla scoperta del “pianeta Timau” attraverso il coinvolgente racconto delle cartoline, ci inerpichiamo sulla statale che collega il paese al valico di Monte Croce Carnico. È una strada stretta e serpeggiante, resa più disagevole dalla presenza di dieci tornanti. A pochissima distanza dal primo di essi incontriamo un lindo bar-ristorante, noto con il brioso nome di “Casetta in Canada”. Accordata una corroborante sosta di ristoro alla nostra persona, riprendiamo l’ascesa. L’auto attacca i tornanti con giudiziosa risolutezza. Sotto i nostri occhi, lentamente si allarga la vallata tempestata di abeti; lassù in alto, tra boschi, pascoli e cielo, troneggia l’allineamento dell’algida chiostra delle montagne poste lì dalla natura a salvaguardare l’inviolabilità di due Stati confinanti. Un decisivo sprint e planiamo sul vasto piazzale del passo di Monte Croce Carnico, ultimo lembo d’Italia prima che sopravvenga il territorio austriaco. Pietro Fronzaroli ha composto intorno al valico un ricordo struggente ed affettuoso, rievocando in un bellissimo articolo sensazioni e fatti assorbiti ai tempi in cui egli prestava servizio doganale a Monte Croce in qualità di appartenente alla Guardia di Finanza. Gli “anni ruggenti” del valico sono così stati richiamati alla memoria con vivida immediatezza, ma anche con tangibile nostalgia. Il flusso di autovetture che nella stagione estiva diventava a tratti ininterrotto; la presenza corposa di turisti sciamanti dal bar dell’albergo ai chioschi di cui era disseminato il grande spiazzo; il contatto vero e sincero con colleghi italiani ed austriaci; l’allegria di una bicchierata in compagnia: tutto questo, ed altro ancora, era Monte Croce Carnico. E poi allora non si badava troppo alle privazioni e ai sacrifici legati al soggiorno presso un luogo lontano dalle comodità e dagli svaghi che poteva offrire un paese perché comandava la giovinezza, una ingannevole maliarda capace di far credere che ogni giorno che il buon Dio manda sulla terra sia un regalo personale da sfruttare alla ricerca del meglio che la vita sappia offrire…
Le malghe. Un tempo popolavano rilievi montuosi ricchi di suggestioni anche fiabesche. Casere che accoglievano il pascolo estivo di alta montagna, rifugi legati alla pratica dell’alpeggio che si rinnovava ogni anno, tra i 1000 e 2500 metri, da fine maggio a metà settembre. Le cartoline dedicate all’argomento documentano con dovizia di particolari l’esistenza di “stavoli” e di opimi pascoli, che ai nostri tempi una incomprensibile scelta di politica orografica ha lentamente portato a trasformarsi in boschi.
L’ultima tema toccato dalla voluminosa raccolta concerne lo stato dei vecchi dintorni di Timau. Anche in questo caso, i curatori del volume hanno voluto rimarcare la differenza di condizioni morfologiche esistente tra i luoghi “catturati” dall’occhio della macchina fotografica decenni addietro e gli stessi posti visti oggi. Alcune cartoline, infatti, mostrano come si presentava un tempo il panorama: prati falciati, sgombri da qualsiasi tipo di vegetazione superflua, orti lavorati con cura addirittura simmetrica, persone al lavoro, ordine e pulizia ovunque. Questi ultimi esemplari di cartoncini celebrativi, inoltre, contengono un paio di interessanti elementi: riportano brevi strofe di poesie scritte da illustri letterati (Carducci, Pascoli, Negri e Fogazzaro su tutti) che hanno lo scopo di descrivere le particolarità dei luoghi rappresentati e fanno notare l’assenza di qualsiasi tipo di edifici in certe località. Vaste zone del fondovalle erano completamente disabitate. Attraversate da strette strade sterrate e traballanti ponticelli gettati a scavalcare le spumeggianti acque del Bût, quelle terre si inoltravano per lunghi tratti senza presentare l’ombra di una casa: accadeva così, per esempio, nel tronco che congiungeva la località Enfretors di Paluzza con la strozzatura del sentiero che si snoda poco prima dei Laghetti di Timau.
Il libro finisce qui e le cartoline, eloquenti messaggeri del passato che per un po’ si sono divertite a volare nella memoria, chiudono le ali. Hanno raccontato una fiaba splendida, ora disciplinatamente si ritireranno nel silenzio dei loro album. Le luci in sala si attenuano, sta per arrivare la seconda sorpresa.
È un film realizzato da una piccola Compagnia Filodrammatica di Tavagnacco, formata da una decina tra ragazzi e ragazze che, sebbene alle prime armi, hanno già dimostrato di avere le carte in regola per ambire ad una carriera densa di soddisfazioni. Prova ne sia la produzione di qualche altro video che ha vinto il premio del pubblico.
Immerse nella velata atmosfera di una foschia appena percepibile, le superbe immagini della Tenchia, del Moscardo e dei monti sopra Paularo scorrono sullo schermo, mentre una calda voce fuori campo legge le prime strofe dell’ode “In Carnia” scritta da Giosué Carducci nel 1885, durante il suo soggiorno ad Arta Terme.


“Su le cime del la Tenca,
per le fate è un bel danzar.
Un tappeto di smeraldo
sotto il cielo il monte par.
Nel mattin perlato e freddo
de le stelle al muto arbor,
snelle vengono le fate
su moventi nubi d’or.
(…) De la Bût che irrompe e scroscia
elle ridono al fragor,
e in quel vortice d’argento
striscian via le chiome d’or.
Freddo e nitido è il labraco
ed il sole anco non par.
Su la vetta de la Tenca
incominciano a danzar. (…)”


La sfilata dei monti sfuma lentamente, sostituita dall’apparizione di tre ragazzi e una ragazza che, in un’atmosfera spensierata, partono per un gita sulle alture che sovrastano Cercivento. Risate, battute, affettuose canzonature dell’amico che costringe la comitiva a tornare indietro perché ha dimenticato a casa gli scarponi da montagna, poi l’arrivo alla meta, con l’attraversamento di un bosco traforato dai raggi sole che giocano tra i suoi tronchi. Finalmente viene raggiunto il prato dove si intende pernottare. Si allestiscono le tende per il riposo della notte, di fronte all’imponente catena delle cime che si innalzano sopra Paularo, lo scorrere delle ore notturne, poi la nascita del nuovo giorno. Un ragazzo sbuca sbadigliando dalla sua tenda, si stiracchia, poi accende il fuoco del novello bivacco e vi posa sopra la macchinetta del caffè. Ad un tratto si interrompe, intento all’ascolto: un forte scroscio di pietre che rotolano arriva dal brullo declivio della montagna dirimpetto. “Che strano” sembra dire il ragazzo, assumendo un’espressione meravigliata alla scoperta che il luogo è assolutamente deserto. Chi avrà procurato quella specie di frana? Intanto il caffè è pronto da bere. Il ragazzo sta per servirsene, allorché compare un boscaiolo. Uno scambio di cordiali saluti e di qualche veloce battuta, poi lo sconosciuto fa per andarsene, ma il ragazzo lo ferma e lo invita a sorbire un caffè con lui. Il boscaiolo accetta, estrae dal suo zaino una curiosa tazza di alluminio di foggia antiquata, la riempie del ritemprante liquido e si siede accanto al suo gentile ospite. Il discorso scivola subito sullo strano fenomeno delle pietre rotolanti e il boscaiolo trova subito la soluzione del piccolo mistero: è stato Silverio.
“Silverio? E chi è Silverio?” chiede interessato il giovane escursionista e un momento dopo si ritrova ad ascoltare una leggenda assai nota nell’Alta Carnia.
“Silverio” inizia a raccontare il misterioso individuo” viveva a Timau agli inizi del secolo scorso. Era un uomo assai ricco ed altrettanto avido. Le sue ricchezze, che pure erano ragguardevoli, non gli bastavano mai ed un giorno la sua inesauribile ingordigia lo spinse ad impadronirsi addirittura di una montagna. Silverio era al colmo della felicità: possedeva una montagna! Ma la sua soddisfazione ricevette un duro colpo quando seppe che il suo confinante lo aveva accusato di essere un ladro presso il giudice del posto, il quale, a seguito della denuncia, aveva disposto che Silverio si presentasse in tribunale per discolparsi. E adesso, come tirarsi fuori da un disastro simile? Che cosa avrebbe potuto inventare per salvarsi? La sera prima dell’audizione in tribunale, Silverio tremava di paura e così la moglie ne ebbe pena. Lo chiamò e gli disse che una via d’uscita esisteva: bastava riempire gli stivali con la terra dei suoi campi e, alla domanda del giudice, rispondere con sicurezza che egli stava sui suoi possedimenti. Silverio si sentì salvo. Versò nelle sue calzature abbastanza terreno, proveniente dalle sue proprietà, da poter giurare tranquillamente che egli era sulla sua terra e si presentò davanti al giudice. Le cose andarono proprio come aveva previsto sua moglie e alla fine del processo il giudice sentenziò che Silverio era innocente e che anche la montagna gli apparteneva. Il furbo ladro aveva aggirato la giustizia degli uomini, ma imparò a sue spese che non ci si beffa altrettanto facilmente della giustizia divina. Alla sua morte, infatti, Silverio fu condannato per l’eternità a demolire a picconate, senza mai fermarsi, la montagna sopra il torrente Moscardo, quella di cui egli si era impadronito con l’inganno. Ecco perché ogni tanto si sente il fragore di una cascata precipitosa di pietre” conclude lo strano viandante, alzandosi ed avviandosi verso l’interno del bosco. Il giovane lo segue per un po’ con lo sguardo, ancora scosso dalla straordinaria storia appena conosciuta, poi viene riscosso dall’arrivo dei suoi tre compagni di escursione che reclamano una tazzina di caffè caldo. È la ragazza a notare tra l’erba il curioso recipiente di alluminio che il misterioso visitatore ha dimenticato accanto al bivacco. Lo gira e lo rigira tra le mani, poi chiede qualche spiegazione al suo amico e così anche gli altri vengono a conoscenza della leggenda di Silverio. All’improvviso, tutti e quattro sono colpiti dallo stesso pensiero: che fosse proprio lui, Silverio, l’enigmatico boscaiolo fermatosi bere il caffè in una tazza così chiaramente fuori moda?
Adesso le immagini mostrano nuovamente le montagne e l’armoniosa voce fuori campo riprende a declamare la poesia di Carducci. Ma stavolta qualcosa è cambiato. Compare Silverio, impegnato nella sua eterna, infernale opera di disgregamento della roccia. Il suo sguardo è disperato ed egli cede improvvisamente alla malia del richiamo delle fate che in cima al monte Tenchia, sull’orizzonte opposto, danzano, cantano e chiamano a raccolta le loro sorelle della Carnia. Silverio interrompe il suo orrendo lavoro ed ascolta incantato.


(…) “Su la rupe del Moscardo
è uno spirito a penar:
sta con una clava immane
la montagna a sfracellar.
Quando vengono le fate
egli oblia l’aspro lavor
e, sospeso il mazzapicchio,
guarda e palpita d’amor.
Che le fate al travaglioso
mai sorridano, non par:
il selvaggio su la rupe
si contenta di guardar,
e talvolta un cappel verde
ei si mette per amor
ed un bel mantello rosso
ei riveste il suo dolor.
Ahi, da tempo su la Tenca
niuna fata non appar;
sol la Bût tra i verdi orrori
s’ode argentea scrosciar,
e il dannato sul Moscardo
senza più tregua d’amor
notte e dì col mazza picco
rompe il monte e il suo furor.”


Povero Silverio, verrebbe da dire: storia carnica di delitti e castighi! I ragazzi di Tavagnacco hanno confezionato un DVD veramente delizioso, recitato con la disinvoltura derivante dall’assoluta compenetrazione nel lavoro che si sta preparando e attento ai particolari (quel giovane che, uscito al mattino dalla tenda e dando le spalle al pubblico, simula l’espletamento di un bisogno fisiologico con simpatica spregiudicatezza, aggiunge un tocco di irresistibile veridicità alla pratica quotidiana). I nostri giovani attori sono stati molto bravi, ma altrettanta bravura hanno dimostrato Ottaviano e i suoi collaboratori del Circolo quando li hanno coinvolti nella serata. Vogliamo citarli per nome? Se lo meritano anche loro. Il video, intitolato “Glereon”, è stato realizzato da Giulia Cignolini e Alex Ordiner, coadiuvati nella loro fatica da Jessica Cassettini, Ivan Ordiner, Fabio Bravo, Giovanni Pravisani, Stefania Pagnutti, Federico Zamparo e Daniele Mion. La carezzevole voce della lettrice di alcune strofe della poesia di Carducci appartiene a Lucia Gazzino.
È destino, però, che nella serata del 10 agosto a Timau, la demoniaca figura di Silverio debba farla da padrone. Dopo il filmino degli amici di Tavagnacco, gli spettatori hanno difatti la possibilità di godere della visione di una serie di disegni animati parimenti incentrati sulla tragica storia del dannato del Moscardo. Il pregevole lavoro è stato presentato da Ilia, la vulcanica direttrice del balletto “Is guldana pearl”, e realizzato dal suo geniale fratello Giorgio, il poeta del pennello e della matita da disegno.
Alla fine applausi calorosi e convinti hanno salutato lo sforzo compiuto dal Circolo culturale per dare alla comunità uno spettacolo gradevole e di innegabile validità artistica. Complimenti a tutti, perciò, e alla prossima bella iniziativa
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Rocco Tedino
(timavensis moribus, non natione)

Timau, 1° settembre 2012

 

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