Il tratto anticattolico del
RISORGIMENTO ITALIANO

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Quest'anno 2011 è stato celebrato il 150° anniversario dell'unità di Italia. A seguito di questo evento storico-culturale, ho voluto approfondire la questione del Risorgimento italiano da una diversa prospettiva che finora è stata tenuta in scarsa considerazione sia dai mezzi di informazione che dalla storiografia ufficiale, tranne rarissime e lodevoli eccezioni, rappresentate per lo più dalle precise e puntuali pubblicazioni della Editrice Ares.

 

I Plebisciti
Ritengo preliminarmente necessario accennare ai plebisciti (caratterizzati da comprovate irregolarità formali e sostanziali) che hanno ratificato negli anni 1859-66 le annessioni delle varie regioni italiane al Regno di Sardegna. Cito qui i due maggiori autori che hanno lasciato nella mia memoria un segno profondo e che sono andato a rileggere:
-DENIS MACK SMITH (inglese, protestante, antipapista, il maggiore storico del nostro Risorgimento) ha scritto (ed io ho letto): Storia d’Italia 1861-1969 (1985); Il Risorgimento italiano (1987); I Savoia re d’Italia (1990); Le guerre del duce (1985); Garibaldi (1994), Storia d’Italia 1861-1997 (1999). Dei plebisciti l’autore scrive così nell’edizione 1985 della Storia d’Italia:

Pag. 48: “Il fine -egli (Cavour) disse- è stato santo e ciò varrà forse a giustificare l’irregolarità dei mezzi cui abbiamo dovuto ricorrere”… sanzionando il fatto compiuto con i soliti frettolosi plebisciti”. 
Pag. 105:”I plebisciti regionali del 1859-60 avevano sempre dato una maggioranza del 99% in favore dell’Italia una e indivisibile ma destava sospetto il fatto che così pochi elettori avessero dato un voto negativo. Spesso i registri elettorali non erano stati redatti nella maniera dovuta cosicchè era stata chiamata a votare e in effetti votò gente di ogni età sesso e paese. I giornali di opposizione erano stati imbavagliati e siccome il voto era pubblico e la maggior parte dei votanti non erano in grado neppure di leggere le loro schede elettorali, era aperto il campo all’influenza delle autorità preposte che avevano già prestato giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II e che non si preoccupavano nemmeno di fingere imparzialità. I proprietari terrieri e gli ufficiali della guardia nazionale condussero spesso i loro uomini a votare in blocco… Molti osservatori stranieri furono d’avviso che la maggior parte degli elettori meridionali in grado di comprendere quali questioni erano in gioco, volessero l’autonomia locale… In alcuni casi i contadini siciliani il giorno delle votazioni si dettero alla montagna…”.
Pag. 128: “...nell’ottobre 1866 l’Austria fece dono del Veneto a un commissario francese; comunque l’inevitabile plebiscito che seguì diede come risultato 647.426 voti favorevoli e soltanto 69 contrari (su una popolazione di 2.603.009 abitanti)…  Garibaldi si infuriò perché i veneti non si erano sollevati per proprio conto neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo…”.
Pag. 143: …Rattazzi… nel 1867 ancora una volta sperò che Roma si sarebbe sollevata di propria iniziativa ed avrebbe dichiarato la propria annessione all’Italia con un plebiscito addomesticato…”.
Pag. 149: …su una popolazione di 220.000, gli aventi diritto al voto erano 167.000 di cui 133.000 approvarono l’annessione e solo 1500 si dichiararono contrari. Quanti credevano nei plebisciti potevano ora sentirsi più tranquilli”.

-INDRO MONTANELLI (ateo, anticlericale quanto basta, patriota cristallino) ha scritto una ponderosa Storia d’Italia in tantissimi volumi. Del volume L’Italia del risorgimento (1990) cito solo:
Pag. 390: ...direttive draconiane furono impartite dai governi provvisori. Ricasoli con una Circolare ai Prefetti, decretò la mobilitazione in massa dei fattori che stanassero i contadini con le buone o con le cattive dalle loro case e li conducessero indrappellati alle urne. L’operazione venne condotta a fondo con metodi da regime totalitario e lo si vide nei risultati. In Toscana votò più del 73% degli elettori e per l’annessione furono 367.000 contro 20mila. In Emilia andò anche meglio: votò l’81%, 426mila per l’annessione, 1500 contro”.

Nel 1866, alla notizia della pace avvenuta tra Austria e Italia e della successiva annessione del Friuli al Regno dei Savoia (144.988 voti a favore e solo 36 contrari), nella nostra regione “non vi fu la più piccola manifestazione, come se si fosse trattato di una pace tra la Cina e il Giappone” confessò sconsolato e stupito Quintino Sella, commissario italiano in Udine.

La soppressione dei Gesuiti
L’Italia è l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenuti in aperto e feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale. L’incompatibilità tra patria e religione, tra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale”: così si espresse Ernesto Galli della Loggia (politologo ed intellettuale di sinistra) in un saggio comparso su Il Mulino (n. 349, 1993).
Il processo storico culminato con l’annessione al Regno di Sardegna di tutti i territori della penisola si svolse infatti contestualmente ad un’aspra battaglia condotta in Parlamento e nella società civile contro gli ordini religiosi cattolici, avviata sia per motivi economici (urgenti necessità finanziarie per la guerra di Crimea) sia per motivi politici (accreditarsi presso le potenze europee anticattoliche-giacobine come Francia e Belgio, o protestanti come Inghilterra e Germania) sia infine per preparare l’assalto finale al potere temporale del papa quale atto preparatorio alla cancellazione (anche spirituale) della chiesa cattolica da sostituire con il “libero e scientifico pensiero massonico”, con cui modificare il quadro socio-culturale della nazione in senso anti- o acattolico (“L’Italia è fatta, ora occorre rifare gli italiani”) per realizzare una religione civile dotata perfino di una sorta di liturgia patriottica e secolarizzata. E così, mentre il Piemonte sta perdendo la prima guerra d’indipendenza (iniziata il 23 marzo 1848 con la dichiarazione di guerra all’Austria da parte di Carlo Alberto) la Camera di Torino, in questo drammatico frangente, non trova di meglio che discutere animatamente sulla necessità di estirpare dal Regno, in modo efficace e definitivo, i Gesuiti (paragonati alle vespe dall’avvocato Leopoldo Bixio nel suo intervento) e gli altri ordini affini, definiti sprezzantemente gesuitanti. Infatti, nello stesso 1848 (quindi ben 13 anni prima dell’ unità d’Italia e addirittura 22 anni prima della breccia di Porta Pia!), il parlamento del Regno di Sardegna sopprime per legge l’ordine dei Gesuiti, delle “gesuitesse e dei gesuitanti”, importante grimaldello per scardinare il complesso edificio della chiesa cattolica, incamerandone tutti i beni. Voglio qui ricordare che il Parlamento sabaudo è formato dal Senato (che è di esclusiva nomina regia)  e dalla Camera che viene eletta a suffragio “universale”: infatti su una popolazione di 4.325.666 cittadini, hanno diritto al voto in 90.839 (il 2%)! Non male per uno stato liberal- democratico che viene eretto (ancora oggi) a modello di monarchia costituzionale.

Superstizione o profezia?
Negli immediati anni successivi, la politica pesantemente anticattolica del regno di Sardegna, perseguìta tenacemente dalla maggioranza liberal-massonica, avanza decisa. A partire dal 1850 la situazione diventa sempre più insostenibile: moltissimi parroci e vescovi vengono incarcerati senza processo per motivi banali e inconsistenti; l’arcivescovo di Torino, Fransoni, e quello di  Cagliari, Marongiu, vengono dapprima imprigionati e poi definitivamente esiliati (moriranno in esilio). Vengono proibite le processioni pubbliche e l’atto dell’elemosina; viene imposta la censura sulle direttive e le circolari dei vescovi; è vietata la stampa e la pubblicazione delle encicliche papali; ai vescovi non è consentito di recarsi a Roma; è sotto controllo statale perfino l’insegnamento della teologia nei pochi seminari rimasti aperti… Verso la fine del 1854, di fronte a tanto odio militante contro la chiesa cattolica, anche don Bosco è assai turbato e fa alcuni sogni premonitori; avverte di questo il re Vittorio Emanuele II (anche con scritti personali) supplicandolo di non approvare la legge in itinere contro gli altri ordini religiosi cattolici, preannunciandogli in caso contrario gravi lutti per la Corte sabauda (“Dicit Dominus: erunt mala super mala in domo tua; Dice il Signore: vi saranno mali su mali sopra la tua casa”). Il Re inizialmente non si impressiona ma, nel breve volgere dei primi 5 mesi del 1855, la Corte torinese subisce questi gravissimi lutti:
- il 12 gennaio muore la regina madre Maria Teresa di 54 anni;
- il 20 gennaio muore la regina consorte Adelaide di 33 anni; il Re è spaventato e il 9 febbraio scrive a Pio IX dicendosi “disposto” a bloccare l’iter della legge;
- il 10 febbraio muore il fratello del re, Ferdinando di 33 anni;
- il 17 maggio muore l’ultimogenito del re, Vittorio Emanuele di soli 4 mesi, mentre l’iter legislativo prosegue come un rullo compressore.
Don Bosco predice anche la fine della dinastia Sabauda in Italia (“La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione) che puntualmente si verificherà poi nel 1946.

La soppressione degli altri ordini religiosi
Nonostante questi incredibili fatti luttuosi, il 29 maggio 1855 sono soppressi nel Regno di Sardegna tutti gli ordini contemplativi e mendicanti (Agostiniani, Carmelitani, Lateranensi, Certosini, Benedettini, Cistercensi, Olivetani, Minimi, Minori conventuali, Minori osservanti, Cappuccini, Oblati, Passionisti, Domenicani, Mercedari, Servi di Maria, Filippini, Clarisse, Benedettine, Cappuccine, Carmelitane, Crocifisse benedettine, Domenicane, Terziarie francescane, Battistine…). I conventi sono trasformati spesso in caserme e manicomi. Le biblioteche sono disperse ed i libri (spesso anche quelli antichi) finiscono spesso ai droghieri che li usano per avvolgere la merce…  Due mesi dopo, il 26 luglio 1855, il Re viene scomunicato da Pio IX, insieme a tutti coloro che hanno approvato la legge di espulsione dei religiosi e di soppressione dei conventi. I beni degli stessi (derivanti da spontanee donazioni e lasciti dei fedeli nei secoli precedenti) sono immediatamente incamerati dallo Stato piemontese, anche se ne beneficeranno concretamente le nuove èlites dirigenti borghesi (politiche ed economiche) torinesi, già arricchitesi con le precedenti espropriazioni napoleoniche e che in questa occasione (pagando pochissimo una ampia ed immediata disponibilità di case, palazzi e terreni) costituiranno la solidissima base di una straordinaria ricchezza che diverrà generazionale, perdurando fino ai nostri giorni per alcuni casati. A questo proposito è istruttivo sapere come la pensa Antonio Gramsci, fondatore del PCI, che così scrive nella sua opera “Il Risorgimento” Editori Riuniti 1971, a pag. 134: “E’ vero che i liberali non distribuirono i beni ecclesiastici tra i contadini ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera ma solo quella delle Congregazioni cattoliche”. Questa espropriazione dei beni ecclesiastici crea subito un effetto di totale estraniazione delle masse rispetto allo Stato (non a caso il Risorgimento italiano sarà un movimento elitario delle classi elevate e borghesi), perchè la stragrande maggioranza dei beni degli ordini soppressi venivano utilizzati dalla Chiesa per pagare le spese di educazione e l’assistenza sociale ai ceti più poveri e abbandonati, completamente ignorati e trascurati dallo Stato sabaudo, ma accolti e gratuitamente curati nelle case dei vari: don Giovanni Bosco, don Giuseppe Cafasso (alcuni paramenti del quale sono conservati alla Mozartina di Paularo), don Giuseppe Cottolengo, don Leonardo Murialdo, divenuti poi i grandi santi sociali dell’Ottocento piemontese!

La farina del diavolo va in crusca
Tutti i beni ecclesiastici confiscati furono dunque incamerati nella cosiddetta Cassa Ecclesiastica del Regno. L’asse ecclesiastico sequestrato fu stimato nel 1855 in circa 10 milioni di lire, su cui il Governo piemontese faceva gran conto per rimpinguare le esauste casse del regno. Ebbene nei soli tre anni seguenti, la cassa Ecclesiastica, anziché restare in solido attivo, accusò nel 1858 un passivo di ben 2.811.295 lire! Infatti tutti i beni immobili (ma anche opere d’arte e libri antichi) non furono venduti al loro prezzo di mercato ma, al fine di realizzare immediata liquidità, furono svenduti alla ricca borghesia liberal-massonica, della quale sempre Antonio Gramsci, in occasione della discussione sulla massoneria il 16 maggio 1925, alla Camera dei Deputati, dirà tra l’altro: La massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica… La massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo”. E lo è probabilmente tuttora. Sappiamo bene infatti che anche oggi una precisa e consistente produzione o tentata produzione legislativa (aborto, eutanasia, fecondazione eterologa, embrioni soprannumerari, matrimoni gay…) trae ancora linfa e sostanza da quel filone massonico anti-cattolico e radicale tuttora ben presente nelle pieghe del nostro Parlamento.

L’azione anticattolica in Italia
L’8 dicembre 1864 (dopo ben 16 anni di persecuzione anticattolica) Pio IX promulga l’enciclica “Quanta cura”  con l’allegato “Sillabo” che è un lungo elenco di dottrine, idee e affermazioni condannate dalla Chiesa: nulla di nuovo rispetto a quanto essa va ripetendo da lungo tempo in materia di pantesimo, razionalismo, naturalismo, giacobinismo, socialismo, comunismo, liberalismo... Dopo l’uscita del Sillabo, il piemontese don Bosco tenta un’ultima mediazione tra il papa e il re, specie per risolvere la spinosissima questione delle sedi vescovili italiane vacanti da molto tempo, tra cui quelle di Torino Milano e Bologna: nel 1865-66 infatti, su 229 sedi vescovili, ben 108 sono senza pastore, 45 vescovi sono in esilio, ed a 17 non è stato consentito dal governo italiano di prendere possesso della propria diocesi… La lotta acerrima contro le congregazioni religiose termina il 7 luglio 1866 quando, all’indomani della III guerra di indipendenza, il Regno d’Italia (di cui fa parte ora anche il Friuli) abolisce tutti gli ordini religiosi e confisca i loro beni su tutto il territorio nazionale; la stessa sorte toccherà anche a Roma nel 1873, tre anni dopo la sua occupazione, quando non vi sarebbe stata più alcuna necessità né politica né economica ma solamente quella dettata dall’odio anticattolico, tanto è vero che i beni delle altre confessioni religiose non cattoliche presenti in Italia non vengono minimamente scalfiti. I membri degli ordini maschili e femminili cattolici (57.492 persone) sono letteralmente gettati sul lastrico e derubati di ogni avere, compresi libri, archivi, oggetti di culto, statue e quadri. Successivamente anche le cosiddette opere pie vengono sciolte: 21.766 “opere pie” e 2400 “fondazioni di culto” sono soppresse e passano di mano, nelle solite mani… Spoliazioni e persecuzioni che presentano molti punti in comune con quelle subite dalla stessa Chiesa Cattolica durante la dominazione giacobina napoleonica (in Francia ed in Europa) o di quelle sopportate nel Messico negli anni Venti del sec. XX, o nella Spagna del 1931-36: un vero e proprio progetto di scientifica decattolicizzazione forzata! E allora: come ci si può stupire se il popolo semplice resta del tutto indifferente al moto risorgimentale? come si può pensare che i preti e i vescovi italiani non si allarmino? Come si può infine pretendere che il povero e storicamente tanto bistrattato Pio IX (finalmente beatificato dalla Chiesa che ne ha compreso le intime lacerazioni) se ne resti zitto e immobile e non reagisca autorevolmente di fronte ai diritti conculcati ed alla persecuzione della sua Chiesa, emanando (a ragion veduta e con pazientissimo ritardo) nel 1874 il suo Non expedit (“Non conviene” che i cattolici si impegnino in politica…)? Ed i cattolici si sono disimpegnati a lungo (troppo a lungo?); e quando poi hanno ripreso l'impegno, non hanno sempre fatto bella figura. Tutt'altro, purtroppo, ma questa è un'altra storia.

Conclusioni
L’Italia, pur mancando di uno stato unitario, era concretamente da secoli già “unita” da un collante ben più solido e duraturo, costituito non certo dalla lingua (solo parzialissimamente unificante) ma proprio dalla religione cattolica che, pur nelle profonde differenze socio-culturali e politiche esistenti tra nord e sud, aveva saputo offrire una omogenea copertura quantomeno di tipo culturale ed etico-morale, senza la quale la successiva unità politica d’Italia mai sarebbe stata comunque possibile.
Per esemplificare il concetto, proviamo a pensare paradossalmente ad una eventuale Italia pre-unitaria che fosse stata luterana al nord, cattolica al centro, ortodossa a sud-est e islamica a sud-ovest (avrebbe potuto benissimo succedere nei secoli precedenti quel che in effetti successe nella Jugoslavia): chi mai avrebbe potuto unirla politicamente? Credo proprio nessuno, neppure il teutonico Bismarck!
Per questo sostengo che la religione cattolica, pur con tutti i suoi limiti umani e temporali, lungi dall’ostacolare l’unità, l’ha in un certo senso precostituita, prefigurata e facilitata e ne è stata poi per così dire l’invisibile catalizzatrice.
Resta ovviamente pacificamente inteso che lo Stato Pontificio ed il potere temporale del papato erano ormai del tutto anacronistici come erano anacronistici tutti gli altri Stati e staterelli della penisola, compreso il Regno di Sardegna, che non era certamente il più prestigioso, antico ed attrezzato rispetto agli altri. L’ora storica richiedeva certamente una unità anche politica dell’Italia, che non disconosco assolutamente, anche se avrei di gran lunga preferito la soluzione federalistica, variamente sostenuta allora da Gioberti, Balbo, Rosmini, Cattaneo. Una unità dunque che potesse reggere l’impatto delle nuove sfide che si profilavano all’orizzonte (Europa delle potenze, colonialismo, dirompenti problematiche sociali…).
Ma occorre anche ribadire altrettanto chiaramente che il modo ed i tempi e le circostanze con cui questa unità è stata imposta (da una agguerrita minoranza) e poi raggiunta, lasciano molti dubbi e troppe perplessità che derivano da vaste zone oscure e ancora oggi non del tutto esplorate quando non accuratamente evitate. Accettare oggi acriticamente la secolare vulgata risorgimentale, spesso reticente, a volte troppo retorica e sempre esageratamente sentimentale, non solo non è più possibile dal punto di vista prettamente storico ma diventa irragionevole anche dal punto di vista intellettuale.
“La storia, come indagine razionalmente e sistematicamente condotta su fatti, istituzioni e strutture del passato, non può essere altro che (ri)lettura, (re)interpretazione e quindi revisione continua di giudizi e di interpretazioni precedenti, illuminate dai nuovi documenti e riscontri che emergono continuamente nel corso degli anni
”.

 

Mi permetto di segnalare sommessamente alcuni titoli (da cui anche ho tratto queste "politicamente non corrette" notizie) che aiuterebbero tutti ad una maggiore comprensione della complessa vicenda risorgimentale, liberata da anacronistici ideologismi e preconcette verità:


-        Angela Pellicciari: Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, Ares 1999
-        Angela Pellicciari: Risorgimento anticattolico, Piemme 2004
-        Luigi Negri: Pio IX attualità e profezia, Ares 2006.
-        Francesco Pappalardo: Il mito di Garibaldi, una religione civile per una nuova Italia, Sugarco 2010

Alfio Englaro

 

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PIO IX E IL RISORGIMENTO,
TRA VERITA' STORICHE E MENZOGNE LIBERAL-MASSONICHE

 

Pio IX è stato l’ultimo Papa Re, l’estremo protagonista del potere temporale della Chiesa. La sua eccelsa figura è tuttavia strettamente legata alle vicende risorgimentali, che lo hanno visto sempre in primo piano.
Fu inizialmente considerato un liberale; ma dopo il rifiuto di muovere all’Austria una guerra incompatibile con la sua missione di Vicario di Cristo, venne strumentalmente dipinto come un ottuso conservatore, incapace di comprendere il corso della storia, chiuso ad ogni novità. In verità, Giovanni Mastai Ferretti fu un papa profondamente religioso e poco avvezzo alla politica. In particolare, non amava essere capo di uno Stato e di un esercito e considerava l’eredità del potere temporale semplicemente come un bene ricevuto in custodia, da conservare e, per quanto possibile, da tramandare intatto ai suoi successori. Egli è stato, invece, il più grande Pontefice missionario degli ultimi secoli, il papa della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione e del Concilio Vaticano I. Sotto il suo pontificato, il più lungo nella storia dei successori di Pietro, sono nati e sono stati approvati molti nuovi Ordini religiosi. Riguardo ai tempestosi avvenimenti risorgimentali, ciò che Pio IX aveva maggiormente a cuore era che «i popoli cattolici conoscessero la verità», come lo stesso ebbe ad affermare, nel 1849, in una sua lettera alla granduchessa di Toscana.
La storiografia ufficiale, risorgimentalista, ha sempre affermato che la Chiesa ostacolasse la formazione di uno Stato unitario. È vero l’esatto contrario!
Innanzitutto, c’è da dire che, fino al 1848, nessuno aveva minimamente ipotizzato che l’unificazione della Penisola italiana potesse realizzarsi, attraverso una sanguinosa guerra fratricida, con la conquista militare sabauda. L’idea che andava per la maggiore – ed anche la più realistica – era piuttosto quella federale (qualcosa di simile agli Usa o alla Svizzera odierni) e il principe italiano più accreditato ed universalmente ritenuto più idoneo alla leadership era proprio il Papa. Era questa, in particolare, la posizione del movimento neoguelfo di quegli anni; e, a cominciare da Pio IX, per finire al più semplice prete di campagna, l’unità italiana non era assolutamente avversata.
Nello stesso Parlamento piemontese, numerosi deputati ricordavano il favore che aveva incontrato, nel clero, la causa dell’unificazione nazionale. Questa la testimonianza di Giovanni Cavallera, prete liberale, in un intervento del 1848 alla Camera di Torino: «Signori, allorquando cominciò l’attuale movimento civile d’Italia, i nove decimi del clero non solo non gli contrastavano, ma gli fecero plauso di tutto cuore, e lo favorirono, se non sempre coll’opera, almeno coi voti. Or, perché in alcuni si raffreddò l’entusiasmo che dapprima erasi suscitato? Egli avvenne appunto perché temettero che il nostro movimento civile potesse dare nel materiale, nell’anarchico, nel demagogico».
Lo stesso concetto venne successivamente ribadito, nel 1855, dall’influente deputato piemontese Ottavio Thaon di Revel: «...vennero le riforme; uno slancio generale di libertà, di indipendenza, di italianità, invase pressoché tutti gli animi; ed in ciò voi siete testimoni come il clero stesso parteggiasse allora per queste idee».
Pio IX – ed i cattolici con lui – divennero invece avversari del progetto unitario allorquando risultò chiaro che Carlo Alberto e i Savoia volevano «fare da sé» e, soprattutto, quando il progetto italiano venne egemonizzato dai nemici della Chiesa, i massoni.
Ricordiamo innanzitutto che, all’invito del Papa e del Re delle Due Sicilie (Ferdinando II di Borbone) di costituire una lega doganale italiana, quale premessa per una successiva unione politica, chi non vi aderì (con una eloquente inversione di rotta) fu solo il re piemontese (Carlo Alberto di Savoia-Carignano), del quale emerse oltremodo chiara la totale contrarietà (perfettamente coincidente con il pensiero massonico) al menzionato «progetto federalista neoguelfo».
Il Sommo Pontefice, poi, attraverso le sue numerose encicliche (a cominciare dalla prima di esse, «Qui pluribus», pubblicata il 9 novembre 1846), manifestò chiaramente il proprio pensiero di condanna per tutte le sette segrete, definite anche «società degli empi», le cui ideologie erano contrarie alla religione cattolica ed attentavano all’integrità della fede e dei costumi del popolo.
Avvenne così che i Savoia cavalcarono la tigre risorgimentale e, in nome della libertà, imposero a tutti il punto di vista dei protestanti e dei massoni. Accadde anche che, nell’Italia, culla dell’universalismo romano e poi cristiano, si radicò il mito, fino ad allora sconosciuto, del nazionalismo. Successe pure che questo mito fu imposto a tutti gli Italiani con la violenza delle armi e grazie all’intervento – ritenuto provvidenziale – della Francia e dell’Inghilterra, potenze che nell’Ottocento si spartivano il mondo.
Si trattò di un fatto davvero singolare: il risorgimento italiano nacque all’estero!
Perché i Savoia fecero questo? Il desiderio di «liberare l’Italia dalla superstizione e dall’oscurantismo» fu unicamente frutto dell’amore per la verità, la giustizia ed il progresso? Guardiamo i fatti.
L’Italia cattolica si era dotata, nel corso dei secoli, di una rete fittissima di monasteri e di parrocchie, di congregazioni e di opere pie, che garantivano un minimo di assistenza spirituale e materiale a ogni gruppo sociale. Non c’era categoria di persone che non fosse raggiunta dalla carità degli Ordini religiosi, di qualche confraternita o di qualche opera pia. In nome della libertà e della costituzione, i governi liberal-massonici decisero, invece, la soppressione di tutti gli Ordini religiosi della Chiesa cattolica (sebbene l’articolo 1 dello Statuto albertino dichiarasse il cattolicesimo religione di Stato) e l’incameramento dei loro beni. Col risultato che il patrimonio artistico e culturale della nazione – e con esso l’intero welfare dei poveri – fosse smantellato e disperso.
Decine di migliaia di religiosi e religiose vennero gettati sul lastrico, cacciati dalle proprie case, privati del lavoro, dei libri, degli arredi sacri, degli archivi, della vita che avevano liberamente scelto. Chi beneficiò della svendita del patrimonio ecclesiastico e demaniale? Chi si appropriò dei beni appartenenti ai 57.492 membri degli ordini religiosi soppressi?
Risposta: l’élite liberale, che comprò migliaia di immobili e due milioni e mezzo di ettari di terra, spendendo irrisorie cifre di denaro. Che si appropriò anche, per puro desiderio di bottino, di biblioteche, di oggetti sacri, di archivi, di quadri e di statue a soggetto religioso.
L’Italia liberale realizzò un enorme passaggio di ricchezza, che fece la fortuna di un’esigua minoranza (appena l’1% dell’intera popolazione) di borghesi, militari e nobili, perpetrato, non tanto e non solo a scapito della Chiesa, quanto dell’intera nazione italiana.
Il regno di Sardegna, Stato periferico a cavallo delle Alpi, mezzo francese e mezzo italiano (molti deputati e senatori che componevano il Parlamento subalpino si esprimevano in francese!), non era di certo il più rappresentativo degli Stati italiani pre-unitari. Nulla di paragonabile, per storia ed importanza culturale, con lo Stato della Chiesa o con il Regno delle Due Sicilie; in un certo senso, non paragonabile nemmeno al piccolo Granducato di Toscana. Eppure, il cosiddetto risorgimento venne realizzato proprio dal Regno sabaudo.
Stando così le cose ed essendo la politica anticattolica l’unica chance per il Regno di Sardegna, la condotta anti-monastica del governo Cavour fu praticamente obbligata.
Con i suoi provvedimenti contro la Chiesa, Cavour ripercorse la strada già battuta, secoli prima, dai protestanti; imboccando quella strada, il conte dimostrò agli unici alleati che aveva (i massonici governi stranieri e i liberali sparsi per la penisola) che, finalmente, anche in Italia c’era qualcuno intenzionato a farla finita con il cattolicesimo. Senza la soppressione degli Ordini religiosi, senza un attacco violento e frontale alla «Chiesa di Stato», Cavour non poteva sperare nell’appoggio convinto della Francia e dell’Inghilterra, del Belgio e degli Stati Uniti, nonché di tutto il mondo protestante. E, senza quell’appoggio, non poteva pensare di ottenere la copertura internazionale, le armi ed il denaro di cui necessitava per condurre in porto l’impresa italiana.
Attaccato in Senato dal maresciallo Vittorio Della Torre, che gli rinfacciava l’avversione della popolazione ai provvedimenti anticattolici della soppressione degli Ordini religiosi e della confisca dei loro beni, Cavour candidamente rispose: «Io, in verità, non mi sarei aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate». Il sedicente liberale Cavour, presidente del Consiglio del Regno sabaudo – che riteneva di essere moralmente migliore degli altri Stati italiani, perché rispettoso della libertà dei propri cittadini – non arrossì nell’ammettere che la libertà che aveva in mente valeva per i soli liberali. Cavour pensava ed affermava che la massa cattolica, che per semplici motivi di censo non aveva diritto al voto, non contava nulla per definizione.
E ben presto si capì come «libertà» e «monarchia costituzionale» fossero solo specchietti per le allodole.
Lo provarono i fatti e lo confermarono gli scritti e i documenti d’archivio dell’epoca (oggi oramai non più segretati); lo provò la stessa stampa liberale e massonica. Un giornale della sinistra liberale piemontese, «Il Diritto», nel numero dell’11 agosto 1863, divulgò a chiare lettere il proprio programma politico: «La nostra rivoluzione tende a distruggere l’edificio della Chiesa cattolica; deve distruggerlo e non può non distruggerlo senza perire. Nazionalità, unità, libertà politica sono mezzi a quel fine». Gli fece eco il «Bollettino del Grande Oriente Italiano», organo ufficiale della risorta massoneria italiana, che, nel 1865, pubblicò le seguenti affermazioni: «Le nazioni riconoscevano nell’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto che le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la Massoneria si propone; al quale da secoli lavora, a traverso ogni genere di ostacoli e di pericoli».
Ciò a conferma che le espressioni «libertà», «indipendenza», «monarchia costituzionale» erano dunque pura e semplice propaganda. L’obiettivo reale era quello di distruggere la Chiesa cattolica e la società cristiana da lei difesa. L’obiettivo era anche quello di appropriarsi, in nome della libertà, del patrimonio che la popolazione italiana aveva accumulato nel corso dei secoli e di annettere, uno dopo l’altro, in nome della costituzione, tutti gli Stati della Penisola.
Il risorgimento fu un’epoca di contraddizioni gigantesche ed insolubili: in nome della costituzione, vi fu il disprezzo della costituzione; in nome della libertà, vi fu il disprezzo della libertà della maggioranza degli Italiani e la realizzazione di un totalitarismo d’élite; in nome della religione, vi fu una sprezzante, violenta e per di più negata lotta alla Chiesa cattolica.
Dalla Riforma luterana in poi, l’Europa aveva conosciuto una serie ininterrotta di guerre contro la Chiesa romana. Nessuna però combattuta in suo nome. Ai liberali nostrani spettò il primato di aver scatenato in Italia la più dura persecuzione anticattolica che si ricordasse dai tempi di Costantino e di averlo fatto in nome della Chiesa cattolica stessa.
E Pio IX, che aveva compreso tutto questo, nell’enciclica «Cum Catholica Ecclesia», del 26 marzo 1860, ben evidenziò il fatto che la Chiesa aveva sempre dovuto combattere contro nemici potenti e insidiosi, ma che «la novità dei nostri tempi è che i nemici si dichiarano amici»: i liberali «spingono a tal punto la loro impudenza da vantare pubblicamente la loro riverenza e il loro ossequio verso la Chiesa stessa».
I liberal-massoni, anticattolici convinti, si professavano devoti credenti, con l’intento di ingannare la popolazione italiana interamente cattolica. La loro propaganda, infatti, spacciava bugiardamente il risorgimento per un moto popolare, combattuto in nome della libertà di tutti; ma costoro, in realtà, soffocavano la libertà religiosa dell’intero popolo.
Nell’introduzione alla raccolta «Atti collettivi dei vescovi italiani preceduti da quelli del Sommo Pontefice Pio IX contro le leggi e i fatti della rivoluzione», un documento tipico di quei tempi di lotta senza quartiere, si legge: «La rivoluzione italiana è l’ultima e più infausta opera del protestantesimo e della frammassoneria».
Certo, non stupisce che la storiografia liberale abbia creato, attorno ad un papa grande e santo, sia pure non esente da errori e difetti, come Pio IX, un’autentica leggenda nera; secondo loro il Papa avrebbe sbagliato, e gravemente, a non cedere tutto e subito ai piemontesi, ai liberal-massoni pronti a uccidere i migliori uomini politici suoi amici (Pellegrino Rossi, Moreno, Leu), ad aggredirlo se non si arrendeva e a confiscare i beni e le proprietà della Chiesa ovunque arrivavano al potere, per poi venderli vergognosamente all’asta ai migliori offerenti.
Quella guerra di conquista piemontese, passata poi alla storia col nome di risorgimento, non aveva alcunché da spartire con l’originario sentimento unitario dei prìncipi e dei popoli italiani; era semplicemente il frutto della politica espansionistica dello Stato piemontese.
Ed alla Chiesa cos’altro restava da fare? Le si concedeva una ben strana libertà: quella di prendere o lasciare, subire od acclamare il proprio stesso aggressore!
Il progetto di conquista piemontese fu l’esatta antitesi del genuino pensiero risorgimentale, che era federalista; ed, alla luce di ciò, possiamo ben affermare che gli artefici del risorgimento, lungi dal potersi definire i «primi Italiani», si sono al contrario rivelati come i «primi anti-Italiani».
Cavour, che voleva unificare l’Italia sotto l’egida della corona sabauda ed abbattere il potere temporale del papa, a tal fine prese in prestito da Charles René Forbes de Tryon, conte di Montalembert, la celeberrima frase «libera Chiesa in libero Stato». Tuttavia, egli ne travisò e capovolse il senso originario; infatti, mentre il suo autore intendeva sottrarre la Chiesa agli abusi ed alle ingerenze degli Stati giurisdizionalisti, Cavour voleva servirsi di quest’asserzione per «liberare il papa dalle preoccupazioni legate al suo essere principe». Davvero una somma astuzia. La formuletta de qua è stata sempre presentata come la prova del genio e della grandezza dello statista Cavour. Ma non è così. A parte il fatto che nessuno sapeva cosa volesse significare, essa veniva intesa da ognuno a modo proprio e, in particolare, secondo la concezione cavouriana, la Chiesa semplicemente non contava e non doveva contare niente nella sfera sociale. La Chiesa come istituzione, come Corpo di Cristo, come Popolo di Dio, doveva essere cancellata. Con questa espressione, il primo ministro piemontese intendeva semplicemente affermare che la Chiesa doveva essere annullata, inglobata nello Stato: se i sacerdoti e i vescovi ostacolavano la sua politica, venivano perseguitati senza pietà.
Infatti, nel 1850, lo stesso arcivescovo di Torino, monsignor Luigi Franzoni, per essersi opposto alla legge Siccardi, era stato prima rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle e poi mandato in esilio a Lione, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1862. Alla stregua dei comuni delinquenti, venivano incarcerati, esiliati o addirittura uccisi preti, frati, vescovi e cardinali, lasciando peraltro vacanti parrocchie e diocesi. Al momento della proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861), la Chiesa italiana era completamente sconvolta: furono private del loro vescovo più di 100 diocesi, 57 delle quali nell’Italia meridionale, fra cui quelle di Napoli e delle maggiori città dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Con la negazione della legittimità della Chiesa in quanto corpo sociale, non c’era più alcun potere che potesse controbilanciare quello assunto dallo Stato liberal-massonico.
Pio IX e, successivamente, Leone XIII definirono il risorgimento un tentativo di «sterminare la religione di Gesù Cristo», voluto e promosso dalla massoneria, nell’intento di distruggere la Chiesa cattolica ed il suo potere spirituale, usando come grimaldello l’abbattimento del potere temporale dei Papi.
Ergo, il risorgimento è stato, fra le altre cose, una guerra di religione, una guerra contro la religione, una guerra subdolamente condotta dai liberal-massoni contro la Chiesa cattolica e contro lo stesso popolo italiano; è stato sì un «risorgimento», ma del paganesimo e della barbarie, realizzato attraverso corruzione, tradimenti, violenze, devastazioni, massacri, profanazioni, saccheggi, ruberie, intrallazzi e nefandezze d’ogni sorta.
E l’obiettivo globale della massoneria era, peraltro, fin troppo chiaro: colpire innanzi tutto il potere della Chiesa e, con esso, scardinare le monarchie cattoliche e asservire i popoli della penisola a uno Stato laico, per poter finalmente mettere le mani sui nuovi mercati, sulle loro immense ricchezze umane, sulle loro ricche industrie, sui loro demani pubblici, sui beni ecclesiastici, sulle riserve auree del Regno delle Due Sicilie, sulle banche.
Tuttavia, papa Mastai, nonostante la persecuzione cui fu sottoposto, non arretrò di un millimetro; fu un papa dalla fede eroica e profetica, come profetico sarà il magistero di Giovanni Paolo II che, giustamente, don Luigi Negri ha paragonato a quello di Pio IX. Entrambi i pontefici, infatti, sono stati come le sentinelle di cui parla il profeta Isaia: hanno tenuto alta la guardia per svelare l’orrore celato dietro l’apparenza di bellissimi slogan; che santifichino il desiderio della bella morte o della sana progenie o della buona droga o dell’allegra sessualità, il discorso è sempre lo stesso: l’oppressione di un pugno di forti disposti a tutto, pur di attuare un dominio di ferro sulla popolazione resa ottusa dalla propaganda e privata della propria autonomia, perché non abituata all’esercizio della volontà.
E la libertà della Chiesa, che i papi difendono, le parole che, sulla base della Rivelazione, pronunciano sono la migliore difesa della dignità della persona e dell’intangibilità della vita. Di ogni vita e di qualsiasi persona. «Simul stabunt, simul cadent», perché non è possibile scindere i diritti dell’uomo da quelli di Dio.


Comunicato 852 del Libero maso de I Coi
del 7.11.2012
(Articolo di Ubaldo Sterlicchio)

 

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