Gli orfani dei vivi

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Fabrizio Blaseotto, dopo i due romanzi storici “Fratelli senza confini” e “Gioventù spezzata”, presenta la sua terza opera “Gli orfani dei vivi”, nuovo tassello del mosaico pazientemente pensato e realizzato, edito anch’esso da Aviani & Aviani Editori, casa editrice presente in Friuli dal 1878.
Questo romanzo trova l’ambientazione storica nell’ambito della Grande Guerra del 1915-1918 e nell’immediato dopoguerra  e conferma come la continuazione di “Gioventù spezzata”, costituendo di fatto un dittico narrativo, dove il protagonista principale Giacomo, al comando di dodici alpini della 72° Compagnia del Battaglione “Tolmezzo”, aveva organizzato sul fronte carnico del monte Freikofel una diserzione della propria squadra verso il nemico, mentre egli, assieme al fidato Caporale Antonio, non andava a consegnarsi  prigioniero agli austro-ungarici, ma prendeva una via di fuga interna, raggiungendo con avventurosi stratagemmi il quartiere della Boca a Buenos Aires.
Ivi dimoravano sua madre e la sorella in precedenza fuggite per evitare gli arresti della Polizia Militare Italiana per pesanti violazioni di legge.
A guerra conclusa Giacomo rientrava in Italia con false generalità argentine, per costruirsi una nuova vita, dopo che la prima era stata spezzata dai tragici eventi.
Ripercorrendo luoghi a lui familiari, viene a scoprire realtà molto diverse da quelle conosciute, fatti ignorati dalla gente e pure verità nascoste. In effetti in quel periodo alcuni avvenimenti bellici e certe situazioni erano misconosciuti, oppure trascurati per ragioni di stato, per opportunità politica interna, per orgoglio nazionale, per i molti tabù che imponevano il silenzio o versioni diverse della realtà.


Le storie contenute in questo romanzo possono anch’esse contribuire a far luce su alcuni avvenimenti rimasti in penombra nel Friul-Veneto bellico e postbellico. L’autore, per raggiungere questo fine, utilizza il personaggio polivalente di Giacomo per far parlare le persone incontrate, le quali raccontano e testimoniano su fatti personali vissuti, sulle penose situazioni delle famiglie stanziali e profughe, sul dramma delle madri per stupro di anonimi militari nemici o italiani, e così via.
Questi è il medium che l’autore utilizza per sviluppare le parti storiche del romanzo; soggetto interessante per un’analisi psicologica del suo “ego”. Liceale classico, poliglotta, “cramar” di famiglia (commerciante ambulante), sergente alpino stimato dai superiori, giovane vedovo per morte improvvisa dell’amata moglie, divenuto ribelle simile a un “Krampus” (diavolo) per presunte ingiustizie subite dalla sorella e dalla madre, avventuroso disertore-traditore dei suoi alpini, infine pecorella smarrita che rientra all’ovile della natia Carnia per cambiare vita e ritrovare se stesso e la perduta libertà interiore.
Blaseotto, oltre aver ideato un personaggio singolare, che si muove all’interno di trame imprevedibili e inimmaginabili, dimostra notevole intuito nello scegliere dei riferimenti storici con i quali il racconto si collega naturalmente. Ciò è stato favorito da sue laboriose ricerche su materiale bibliografico e documentale, da accurate indagini dei siti citati nel testo, da interviste e testimonianze orali indirette su fatti poco o addirittura non conosciuti. Questa serie di attività, condotte con molta passione e zelo, gli hanno consentito di approfondire la storia del periodo con cognizione di causa e nel rispetto della verità nuda e molte volte …cruda.
In questo ambito di indagini storiche mi piace rilevare due casi significativi e molto ben approfonditi. Il primo caso concerne la penosa situazione degli orfani illegittimi di guerra, figli di padri ignoti, militari dell’esercito invasore ed occupante o di quello italiano. Questo triste fenomeno aveva interessato le zone del Nord-Est occupato, con il dramma delle donne diventate madri di figli illegittimi, concepiti a seguito di violenza e di stupro. La necessità di sopravvivenza della donna minacciata e indifesa condizionava la poveretta, costringendola a violare le regole della fedeltà coniugale. La tragedia, a cascata, colpiva l’intera famiglia che non sopportava il disonore sociale per tale situazione, che si acuiva quando il coniuge militare faceva ritorno a casa a guerra terminata. Il “figlio della guerra”, incolpevole intruso, veniva apostrofato con umilianti epiteti di “bastardo”, “mostro”, “tedeschetto”, e a volte la famiglia cercava di sbarazzarsene prima della nascita con l’aborto provocato, o dopo, con l’infanticidio. La Reale Commissione d’Inchiesta, nell’indagine sulle violenze avvenute nei territori italiani occupati nel 1917-1918, accertò che gli stupri denunciati con le generalità della vittima furono 165, mentre quelli senza indicazioni della violata risultarono 570. Questi dati suscitano alcuni dubbi. Infatti, in molti casi, per ovvi motivi, la vittima o la sua famiglia non aveva sporto denuncia, gli aborti e gli infanticidi sfuggivano all’inchiesta non essendo stati resi noti, le autorità locali cercavano di oscurare il fatto, infine lo Stato italiano aveva interesse a gonfiare il numero degli stupri causati dai nemici, al fine di aumentare il risarcimento dei danni di guerra alla Conferenza di Pace.
È altrettanto vero che gli stupri vennero consumati anche da militari italiani in territori dell’Impero Austro-Ungarico occupati dal Regno d’Italia e che, in più casi, anziché di atti sessuali violenti si trattava di rapporti concordemente tenuti per amore o per mercimonio.
In fine si può rilevare che ricerche fatte dall’Istituto San Filippo Neri di Portogruaro su un campione di 115 nati da relazioni con militari della Grande Guerra, 47 risultarono figli di austro- tedeschi e 69 di italiani. L’analisi di quanto emerso dalle indagini sopra riportate fa emergere dubbi sulla esattezza dei dati e sulla limitatezza dei parametri presi in esame e ciò per ragioni varie, che potrebbero aver offuscato e influenzato la veridicità dei riscontri statistici.
Resta comunque assodato che violenze dirette sono state poste in essere, e in numero consistente, da una parte e anche dall’altra. Per risolvere il problema sociale degli “Orfani dei vivi”, per iniziativa di Mons. Celso Costantini, poi divenuto Cardinale, a dicembre 1918 venne fondato a Portogruaro l’Istituto San Filippo Neri, ente gestore dell’ospizio destinato all’accoglienza di questi bimbi, provenienti per la maggior parte dal Friuli e dal Veneto Orientale. L’Istituto, gestito dall’energica ed efficiente guida del Monsignore, venne poi trasferito a Castions di Zoppola (luogo natio di Monsignor Costantini), in uno stabile ceduto in eredità all’Istituto dal Dott. Vincenzo Favetti, medico del paese. L’Ente chiuse la benemerita attività, protrattasi per lungo tempo con l’aiuto di molti benefattori, nell’aprile del 1947. I giovani ospiti che vi trovarono accoglienza, istruzione e avviamento al lavoro, risultarono complessivamente 357 tra maschi e femmine, una parte dei quali fece ritorno alla famiglia d’origine e una parte adottata.
Il secondo caso riguarda la liberazione e il rientro in Italia di circa 10.000 militari irredenti di lingua ed etnia italiana del Trentino, Friuli e Venezia Giulia, arruolati nell’esercito austriaco, che si trovavano come prigionieri di guerra in vari campi russi. L’Italia cercava di farli rientrare per comprensibili motivi nazionalistici e affidò tale missione al Capitano (poi Maggiore) dei Reali Carabinieri Cosma Manera, ufficiale esperto, collaudato ed abile nelle trattative diplomatiche, favorito dalla conoscenza di ben otto lingue straniere. L’impresa si presentava complessa, delicata e rischiosa, trattandosi di operare all’interno dell’immenso territorio russo, dove scorrazzavano su fronti in movimento milizie rivoluzionarie rosse, truppe lealiste bianche ed anche bande irregolari di mercenari (tra cui gruppi di prigionieri irredenti), dediti al saccheggio e alla violenza indiscriminata.
L’autore, alle note 41,42 e 43 del libro, descrive la lunga ed intensa attività svolta dal Manera in tale missione, prima cercando i prigionieri sparsi in più campi, poi raggruppandoli, infine riuscendo a rimpatriarli via mare in Italia. Gli ultimi rimpatri degli irredenti avvennero utilizzando vari mezzi di trasporto, verso la metà del 1922.
Evitando pleonastiche ripetizioni di quanto già contenuto nel romanzo, ritengo storicamente corretto evidenziare che Cosma Manera, definito “il padre degli Irredenti“, si dimostrò un carismatico comandante, un diplomatico e persuasivo tessitore di operazioni coordinate con gli Alleati , un instancabile motivatore di prigionieri liberati e fidelizzati all’Italia, in conclusione un vero leader che considero un eroe. Su Manera e sulla sua impresa esiste una certa produzione bibliografica, in verità non molto copiosa per un incomprensibile oblio storico, forse retaggio addebitabile ad influenze negative del passato regime fascista, che non nutriva molta simpatia nei suoi confronti. Comunque sia, la memoria del Generale di Divisione, superdecorato con onorificenze militari e civili, italiane e straniere, deceduto il 25 febbraio 1958 è stata onorata con il funerale di Stato, concesso solo a ristrette e benemerite categorie di cittadini.
Concludo congratulandomi con l’autore Fabrizio Blaseotto, che, con le esperienze acquisite nel tempo, ha realizzato, a mio parere, il più significativo e interessante tra i suoi romanzi storici già pubblicati. Il libro si legge piacevolmente tutto di un fiato, corredato da una bella veste ed è ben curato dagli storici editori Aviani&Aviani. La trama romanzesca appare assai dinamica, spazialmente articolata e particolarmente densa di interessanti riferimenti storici, presenti sia nelle macro che nelle micro storie contenute, caratterizzate da una costante ricerca della verità dell’accaduto, non sempre coincidente con il raccontato o conosciuto.

 

Dott. Luigi Tomat

Studioso di Storia del Friuli Venezia Giulia e 1° Capitano Alpino

 

 

 


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