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NEL CUORE DELL'UMANITA'
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Un
tempo quando il nonno salutava il nipote che partiva e che
forse
non avrebbe più rivisto, si dice gli facesse questa
unica raccomandazione: “Va, lavora e fai il galantuomo”.
Leggendo il libro di Pierluigi Di Piazza “Nel
cuore dell’umanità” (ed. Ernesto Balducci, pagg.
221, € 12), mi è sembrato di
sentire più volte l’eco di questa raccomandazione essenziale,
ovviamente vissuta nel contesto di una vocazione sacerdotale coraggiosa
e persistente.
Il racconto autobiografico parte dalla Tualis (frazione di
Comeglians in Carnia) degli anni cinquanta, quando le nevicate erano imponenti
e la miseria incombeva, appena alleviata dalla mucca e dal maiale che
senza mais e semola cresceva magrissimo.
I genitori di Pierluigi e
di Vito, il fratello, nonostante i tempi duri, presero una importante
decisione: i loro figli avrebbero dovuto studiare ad ogni costo. Così accadde!
Pierluigi entrò in seminario e Vito intraprese gli studi per
diventare medico (oggi è direttore del Dipartimento Medico dell'Ospedale
di Tolmezzo).
Il 10 ottrobre 1958 Pierluigi entrò in seminario ed iniziò un
percorso duro e tribolato, non tanto per gli studi che riusciva ad
affrontare agevolmente, quanto per l’educazione che in quegli
anni ed in quell’ambiente veniva impartita.
Testimonianze su
questo tipo di “educazione-deformazione” ce ne sono diverse.
Alcune sono state rese pubbliche e severamente censurate, molte altre
sono rimaste nascoste e non sempre sublimate. Dopo quasi quaranta anni,
Pierluigi ne parla con un certo distacco, pur denunciando il deleterio
progetto che quell’educazione si prefiggeva e che: “mirava
a coinvolgere tutte le energie di noi ragazzi a diventare fin da piccoli,
bravi funzionari, obbedienti ai superiori” (p.24).
Questa personale
ostilità ad essere considerato “funzionario” lo
accompagnerà negli anni spingendolo ad assumere atteggiamenti
talvolta giudicati da ribelle o da contestatore (per es. rifiutò di
farsi identificare dall’abito che indossava, non accettò alcuna
offerta per i servizi religiosi che officiava). Così descrive
e giustifica questo suo comportamento: “Mi sento appunto uomo,
laico, umile credente, prete in divenire” (pag.204).
Nella cronaca di quei lunghi quattordici anni trascorsi in seminario,
non poteva mancare l’accenno al problema del celibato che viene
subito accettato, mai capito. L’assenza della donna, bandita
dalla chiesa da tutti i luoghi di responsabilità, viene affrontato
con pacatezza da Pierluigi anche in tempi più recenti, quando
si interroga sul perché la chiesa si ostini ad imporre, con
testarda ottusità, un atteggiamento privo di riscontri biblici
e fuori da ogni ragionevole considerazione.
Terminati gli studi teologici, i problemi per Pierluigi non sono finiti.
Si potrebbe dire che inizia la seconda parte. Non riceve gli ordini
sacri, come è consuetudine, e va a Roma a perfezionare
gli studi teologici, fra la indifferenza dei suoi superiori che non fanno nulla
né per incoraggiarlo né per dissuaderlo.
Le cose non
cambiano nemmeno quando rientra a Udine e si presenta al nuovo vescovo:
sembra assediato da una sorta di “gelo gerarchico”.
Per quanto incomprensibile possa essere, nella “famiglia diocesana” non
c’è posto per lui che rientra a Tualis e si può solo
immaginare con quanta perplessità e quanto sconforto.
Si presenta
una opportunità come diacono nella parrocchia di S.Osvaldo,
alla periferia di Udine. Dopo un breve periodo l’esperienza si
risolve con un epilogo che credo di non sbagliare a definire tragico.
Il parroco lo allontana e scrive al vescovo sconsigliandolo vivamente
di ordinare sacerdote Pierluigi che diventa un ”caso”.
Una sorta di giunta prende in mano i giudizi sui suoi ultimi anni di
seminario.
Un parere tranciante e sbrigativo definisce Pierluigi “incapace
di rapporti umani”. Il “sinedrio” alla
fine, nonostante tutto, quasi con illogicità, sentenzia che
Pierluigi può essere
ordinato sacerdote.
Gli inizi come cappellano a Paderno furono decisamente in salita. Il
suo modo di vivere l’essere prete come testimonianza evangelica
che attingeva forza dalla Bibbia, piuttosto che dalla definizione di
un ruolo, attribuito e preteso da fedeli un po’ bigotti e un
po’ tradizionalisti, portò lentamente ad una prova di
forza sconcertante. Fu positiva solo per gli sviluppi che la storia
di Pierluigi trovò in seguito. Allontanato quasi a forza da
Paderno, la vera vita umana e sacerdotale di Pierluigi cominciò il
29 novembre 1981 nella parrocchia di Zugliano che gli era stata assegnata.
E’ da lì che cominciò a realizzare un progetto
di solidarietà ed accoglienza che avrebbe segnato fino ad oggi
tutta la sua vita.
Fondò il centro
Balducci che in pochi anni è diventato
punto di riferimento internazionale di approfondimento annuale sui
temi della pace e della povertà.
Nel libro dei suoi ricordi e delle sue riflessioni, alcune impegnative
anche dal punto di vista teologico, non mi è parso di rilevare,
a parte una certa delusione nei confronti della gerarchia, alcuna
vena polemica, ma tanta serenità interiore ed un singolare
modo di vivere la fede, quasi “anonimamente” come
se prima di tutto fosse più importante la “testimonianza”,
l’impegno
per vivere la realizzazione delle beatitudini.
Confessa che il suo
obiettivo è quello di volersi realizzare come uomo, come laico,
come umile credente ed infine come “prete in divenire” al
servizio degli ultimi.
Più che un galantuomo!
Marino PLAZZOTTA
15
febbraio 2007