DI AVVENTO
con l'Ospite e Giorgio

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Carissimo (veramente) Erminio,

prete più per grazia di Dio che della santa madre chiesa. Facciamo pure assieme qualche riflessione sull’avvento che domenica (pardon: sabato sera prossimo) dovrebbe incominciare.
Forse l’Ospite (chiamiamolo così, pasolinianamente) perché Gesù, dopo Renan, puzza troppo di oleografico e di caramelloso; e Cristo… be’, è troppo usato dai moderni teologi: il Cristo…; e poi mi hai detto che la cultura cinematografica dei tuoi rampolli  non è eccessivamente profonda). Dunque, l’Ospite non avrà demolito così a fondo la società nella quale con il suo arrivo entrava. Venne vestito di sabbia e di bianco, ed entrò dalla porta di fondo. Un ragazzo col giradischi (Nevio, forse) suonava una canzone di Fabrizio, e la canticchiava in concomitanza, ma non la capiva, perchè la sua testa era piena di idee, ma il suo cuore era vuoto di amore. (Ogni riferimento è puramente…)
Quella società, raccolta – per quella sera- nell’aula, aveva questo in comune: la testa gonfia di idee e il cuore vuoto di amore.
Ma le idee non sono l’uomo e forse l’amore sì: se è vero, come è vero, che l’idea, morto il suo portatore, vive ancora e l’amore no. Dopo Prometeo nessuno aveva fatto loro il dono di un po’ di calore. E per le ninfe grigie che da un demiurgico telescopio guardavano nell’iperuranio, s’erano svenati Seneca e Lucano, aveva bevuto la ciotola di amara cicuta Socrate, era stato arso in Campo dei Fiori Giordano Bruno. Per quelle idee era stato scomunicato Fozio, gettato sul letame Zuinglio, chiuso ad Arcetri a morire Galileo, bastonato a morte Matteotti. Due pallottole nel cranio di John Kennedy. Due pallottole nel cranio di Bob Kennedy. Due pallottole nel cranio a Luther King. In quell’aula, quella sera, c’erano degli assassini. O comunque puttane, disperati, ruffiani, gigioni,omosessuali, razzisti. Dietro  le idee, uomini. E i nemici di questi uomini, dietro altre idee. C’era S. Domenico di Guzman, lo sterminatore degli Albigesi, e Pio V°, lo sterminatore dei Turchi. Su, in alto, ghignava, di un ghigno grasso, feroce, alla contadina, Josif Vissarionovic e, sotto “Gesù abbeverato di fiele”, tracannava i suoi boccaloni di birra bavarese Adolfo (con accanto Enrico, Enrichetto) asciugandosi distrattamente due folti baffoni paralleli. Anche Josif, su, vicino all’organo, si lisciava, ma accuratamente, due folti baffoni spioventi.
Quella assemblea così folta, così varia, doveva essere – a mio avviso- distrutta.
I benpensanti – da benpensanti-  ben pensano che si possa distruggere soltanto quando si sia capaci di edificare qualcosa in “sostituzione”.
A parte che non capisco perché sia necessario proporre un valore e demolire un non-valore (che ha in sé il germe dell’autodistruzione), ma il qualcosa, anzi il qualcuno, quella sera, non c’era. Venuto da molto lontano, vestito di sabbia e di bianco, era un portatore non di idee, ma di amore. (Così almeno sembra, attraverso le mitico-liturgiche deformazioni del N.T.). E il giorno quattordici di Nisan, quando morì, spaccato su un palo, morì per un “sentimento” e non per delle idee. L’Ospite.
Quella sera, all’aula, la gente chiacchierava, poi quando l’Ospite entrò si fece silenzio, non a colpo, ma a poco a poco, e senza che lui lo chiedesse, questo è il bello!, senza che lui aprisse bocca, si fece silenzio. Così; lui passava e quella fetta che si lasciava dietro le spalle faceva silenzio. A volte scoppiavano a piangere, ma subito sst, sst venivano zittiti e soffocavano le lacrime in gola.
La gente diceva tante cose, prima che lui entrasse.
Ad esempio, Adolfo raccontava dello Zyclon B, quando il sole tramontava dietro una panchina e, dalle torri, si alzava fumo denso e acre. Adolfo raccontava tra un boccale e l’altro di birra di Baviera, ed era già mezzo ubriaco, ma raccontava; o forse no, non era lui, ma un tizio pelato, dal mento quadro, che con un accento vagamente emiliano e il parlare tipico dei tribuni o dei maestri di scuola, rievocava il fattaccio di luglio.

Un ragazzino –  tanto per esemplificare meglio- un ragazzino, dalla voce sottile e un po’ roca (tipo Gri), raccontava della cotta che si era presa. Aveva una ragazza ed amava un’idea, aveva un tormento,  e si tormentava per un sogno. Non sapeva che ci si prepara ad amare, ma si ama, come non ci si prepara a vivere, ma si vive.

 

Io vorrei bene affidare la mia vita
alle tue mani e dentro la tua bocca
fermare il passo delle stagioni
col mio vestito di erbe e di suoni.

Io vorrei bene danze intrecciare
sopra ruscelli, quando primavera
di nevi fragranti nei frassini gorgoglia
dai gioghi di roccia a festa e si risveglia.

Ma il desiderio s’intrama col tormento
che brucia il palpito breve di una vita:
ma tu lo senti amore, senti il vento?

Tu senti il vento amore, senti il vento?

Come vorrei vederti di maggio,
mia principessa di cirri e di sogni,
bocca di baci e occhi di polla
e limpido corpo sorgivo d’amore.

Come vorrei che nel tempo di maggio
un aquilone garrisse selvaggio
non come rosa che chiude la sera
rapida appassita in un sospiro.

Ma s’incrina la chitarra in un lamento,
questo ti chiedo, non giochi di mani.
Conosci il nodo dove nasce il vento?
Il nodo sai, ove nasce il vento, amore?

Sì. Là dove si muore.

(Non tutti possono avere sentimenti e passioni da aviatore. E’ ovvio)

Lo sconosciuto avrebbe dato un senso, un altro, all’amore?

Ma c’era un soldato, morto in un campo di grano, senza né rosa né tulipano, che raccontava di essere partito per fare la guerra e dare il suo aiuto alla sua terra. Anche qui parole. Patria, amore, gloria. Ma come pallide, scialbe parole, di fronte all’unico fatto che conta, la morte. Lo sconosciuto avrebbe dato un senso alla morte? Gli passò accanto, questo. E il povero soldato tacque.
Aveva uno strano modo di camminare lo sconosciuto. Sebbene ospite, e non a casa sua dunque, camminava maestoso, non da padrone, ma come se ne avesse diritto, nella corsia dell’assemblea. Ricordava un po’ – hai presente?- il “Pietro che risana gli infermi con la sua ombra” masaccesco, alla Cappella Brancacci.

Uno filosofeggiava, leggendo un vecchio numero del “Corriere della Sera”. Pardon, era “L’Unità”, se ben ricordo. O forse “L’Avanti”. Mah, il giornale non lo so, ma l’articolo me lo ricordo bene, era in terza pagina, a titolo: “Un paese di telescopi”. E dopo averlo leggicchiato, senza commozione, s’era messo a bofonchiare:

Non sanno più cosa dire e ci preparano favole.
Le notti che passano in piedi sono solo un pretesto
per poter ruminare nella gran mangiatoia dello stato.
Un’élite di cretini che scrivono, scrivono,
criticano, sputano sentenze, fanno i Dante Alighieri
e poi non servono a niente.
Non su queste basi, di sicuro, si farà un rinnovamento
(qui calcava le parole: SI FARA’ UN RINNOVAMENTO! , in maiuscolo, hai capito?)

Basi? Le distruggono! E niente, non costruiscono niente,
un tubo di niente.

Un tizio, a questo punto, l’ha interrotto e gli ha detto:
E perchè non scrivi al giornale queste cose?

Io? Dovrebbero capire da soli, da soli
dovrebbero capire. Tanto intelligenti da scrivere
il paese dei telescopi e simili monate sono.

Quel tizio non si dava per vinto e continuava:
Già, tu te ne freghi. Hai la tua camera, i tuoi libri.
Ma qualcosa si deve pur fare, per cambiare il paese.

E il lettore, stizzito:
Intanto, finiscila. Loro non cambiano niente.
E fanno nervoso.

A questo punto, ti ricorderai bene. Tu stavi a braccia conserte su una porta, quasi di fianco, e con la tua voce franca da aviatore hai detto:
Sì, certo tu hai paura. Ma lo sai
senza l’amarezza di ciascuno,
senza la gioia e la pena e l’allegria
la nostra rabbia é foglia accartocciata
che il vento rotola e porta con sé.

Proprio in questo momento l’Ospite passava accanto al lettore. E il lettore zitto. L’Ospite ha guardato a lungo il lettore. Poi – non so se ti ricordi; ma io ormai sullo sconosciuto avevo appuntato la mia attenzione, e notavo ogni suo minimo movimento- ha guardato, a lu87ngo, molto a lungo, anche te. Poi ha proseguito; ma, appena voltato, il lettore ha cominciato  gridare in tono enfatico:

Sentite qui: “Fratelli. Tornate alla terra, fratelli. Noi siamo figli della terra e non del cielo…”
E qualcosa che riguardava i paioli, le polente e le vacche senza vitellini.
Io le parole precise non le ricordo, forse tu le avrai stampate nella memoria. Disse proprio quelle, ma lentamente l’Ospite si voltò e il lettore, con sulla schiena quel paio di occhi insistenti, tacque definitivamente.

Questo avvenimento, come tutti gli altri del resto, non mi fu chiaro che alla fine, quando lo misi in relazione con le parole che l’Ospite, prima di cadere sotto le pietre pronunziò: le stesse.

Più avanti, su una pedana, un tale cantava:
Dio del cielo, se mi vorrai amare,
scendi dalle stelle e vienimi a salvare.

E verso la fine, l’Ospite gli rivolse uno sguardo come per dire: ”non hai capito, sono io, eccomi!”. Come per dire: “è tanto tempo che sono con voi e ancora non avete capito? Filippo…”
Fu dopo di questo fatto che l’ospite pronunciò quelle parole nel silenzio generale. Un silenzio profondo, di stagno notturno, e lui diceva con calma, come se volesse persuadere uno per uno, come se la cosa fosse tanto chiara, tanto evidente, perbacco, che non ci fosse bisogno di alzare la voice. Tu le parole le sai, le hai stampate nella memoria, e io non le rammento più.
Alla prima pietra sul capo, cadde…

Giorgio stava seduto su un sedile di pietra di piazza I° Maggio. Ormai i baracconi se n ‘erano andati tutti altrove e piazza I° Maggio era buia e deserta.
Un’orchestra in cielo suona l’intermezzo del 1° Concerto brandeburghese di J. S. Bach, appassionatamente, o forse era un pezzo del “Requiem tedesco” di Brahms e all’orchestra del cielo gliel’aveva prestato Perosa, o forse l’adagio della nona sinfonia di Beethoven.
Giorgio stava con la testa fra le mani, e aveva voglia di morire.
Perché anche la sua testa mulinava, mulinava, mulinava, Pavese, osteologia, amicizia, Pavese, Albee, paraliturgia, donna, Lorca, ateismo, vuoto, anatomia, come faccio a credere, Pavese, Lorca, la centoventiquattro sport, non ho nessuno, quei coglioni che mi…, solo, Lorca Kafka solo il mio amico Menut solo quei coglioni solo solo solo. Ma il cuore aveva vuoto. Anche lui.

Dove porterai il mio rimorso
In quale notte e in quale sogno,
in quale viale di foglie pestate
vorrai di nuovo aperta la mia mano,
in quale prato, il cielo dentro agli occhi
sentirai il dolce, allora, ed ora amaro
dei miei baci e l’ombra del mio corpo
che ti copriva: questo vorrei sapere
ora che sgorga il giorno e tanto
tanto ti ho desiderata.

E infatti dalla musica in cielo, sopra i frassini, gorgogliò il mattino e un pallido sole autunnale sbocciò in forma di viola. Una campana suonava, come su al paese. Una campana chioccia, rauca.
E Giorgio vide l’Ospite venire in quel mattino che si spandeva, in quel sole a forma di viola, in quella campana che batteva stenta

e risalì dal fondo del suo pozzo
buio
come salì dal fondo del suo occhio
un’allodola
come salivano dal fondo, ma dal fondo, giù dal fondo della sua anima
lacrime.
E strinse la mano all’ospite che era arrivato; perché l’Ospite che s’era inventato bisognerà bene che stringa la mano soprattutto a lui, no?

 

 

Beh, ti ho scritto questa lunga lettera, bisognerà bene che ti faccia un po’ di Bibliografia: Weiss. Garrani. Il fattaccio di luglio. Quasimodo. Il muro.- Ferigo: poesie giovanili. S.C.E. Comeglians, 1968-  Ferigo: Te lucis ante. Raccolta di saggi politico-socio-religiosi. S.C.E. etc 1968. Fabrizio de Andrè. Karim. Blue Bell. Non ho qui le poesie di Lorca, ma il “Llanto” è una poesia sulla morte, e certe poesie del “Poeta en Nueva York” sono utili. Non conosco Brecht. Né le poesie di Pavese.
Beh, ma a parte gli scherzi, mi dici qualcosa?
Una ben forte stretta di mano

Giorgio

 

Debbo mandarti qualche porcheria universitaria di quelle dei banchi?
No, no. Che tu mi dica qualcosa non mi frega più di tanto. Voglio un bloc nuovo di carta da lettere Samurai! Una bic! Un mezzo pacchetto di esportazioni senza filtro! Due cerotti per il pollice e l’indice!
Di’ grazie al Conte.

Ore 15-18 di lunedì 25 novembre. Che mal di dita.

Insomma hai capito? Si entra in contatto con le idee di Marcuse, ma non con l’amore di Marcuse. Invece si entra in rapporto d’AMORE con l’ospite. Qui Pasolini aveva ragione, altro che rapporto demoniaco, è l’unico modo extrarazionale, e cioè è l’unico contesto nel quale vale la dimostrazione di Dio di Pezzetta, visto che sono cadute tutte le altre, quelle dell’ “Angelico Dottore” e quella di Kant. Beh, Pasolini l’hanno assolto. Volevo dirti: per mezzo di quest’ AMORE si dà un significato all’amore (=nascita) e alla morte: nascita+morte=VITA. Si dà un nuovo significato alla vita. Ed ora leggi in latino “ORA”.-

 

 

 

 


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