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ACCOGLIENZA
GIUSTIZIA PACE
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Pierluigi Di Piazza ha scritto diversi
libri in cui spiega le sue idee sull’accoglienza, la giustizia, la pace ed
anche in questo, che vi presentiamo, espone il mosaico della sua fede,
delle sue convinzioni ed utopie.
Si tratta di una raccolta dei commenti
domenicali pubblicati sul quotidiano Messaggero Veneto che è l’editore
e il distributore di “Accoglienza giustizia pace”, (pag.250,€ 5,00
che saranno devoluti al Centro di Accoglienza Balducci). Il libro oltre
ad una prestigiosa
-
presentazione firmata dal filosofo Massimo
Cacciari è composto
da due parti:
-
una lunga intervista del giornalista Gianpaolo Carbonetto
-
i commenti domenicali dei brani dei vangeli secondo
lo scadenziario liturgico.
La presentazione di Cacciari incute soggezione, alla prima lettura,
toccando argomenti che “dal pianto di Gesù” sinteticamente
accennano ai diversi “modi di uccidere Dio” e ti spinge
ad una rilettura più concentrata.
L’intervista di Carbonetto è articolata
e vasta. Tocca quasi tutte le tematiche e gli interrogativi che la
Chiesa ha affrontato
e cui ha cercato di rispondere in questi decenni. Per quanto le
professioni di fede dell’intervistatore e dell’intervistato
siano, dal punto di vista concettuale, assai differenti, si può notare,
tra le domande e le risposte, una affinità di vedute ed
un comune interesse per la condizione umana. Di Piazza evidenzia
nella
logica
delle sue risposte che il suo punto di riferimento è il
vangelo e quindi Gesù Cristo. E’ partendo
dal vangelo che si muovono le sue critiche nei confronti della
chiesa ed anche
nei confronti dei
cristiani che non testimoniano nella loro vita l’amore per
il prossimo praticando l’accoglienza, impegnandosi per una
giustizia non partigiana e per una pace non teorica. Le critiche
non sono, né polemiche,
né personali o mosse da acredine, ma solo dall’ amara
constatazione o conclusione che la chiesa di Roma, ma anche
quella di Udine , è troppo lontana dalla realtà evangelica.
Non è profetica, quasi non ha più nulla a che fare
con la “buona novella” o con “la corrente calda
dell’utopia”,
quella che trasforma l’assioma che “extra ecclesiam
nulla salus” in “al di fuori dei poveri non c’è salvezza”.
Una chiesa che spesso si serve impropriamente della “infallibilità” nel
senso che “i fedeli avvertono come qualche cosa che viene
da lontano e che ha poco a che fare con le scelte nella vita di
ogni giorno” e
soprattutto che ascolta poco le persone, preoccupandosi
più di
fissare norme, esprimere giudizi definitivi sui comportamenti umani
e condannare più che capire. Stimolato dal giornalista,
don Di Piazza analizza certe problematiche presenti nella nostra
società a
partire dalla diffusa ossessione di dover vivere il presente “con
bramosia, avidità, quasi che se non ci fosse questo consumo
esaltato non ci sarebbe vita” alla critica dello stereotipo
friulano diffuso nel dopo terremoto “fasin di bessoi”,
che induce all’individualismo esasperato costringendo la
persona ad affrontare e risolvere in solitario i propri problemi.
Con questa ottica è quasi
normale che ci sia poco spazio per i problemi degli altri, la fame
nel mondo, i bimbi che muoiono, i disperati che approdano sulle
nostre spiagge, da dove sono scomparsi i samaritani buoni.
Le meditazioni domenicali vanno lette come tali
altrimenti c’è il
rischio di pretendere da
queste ciò che non possono
dare: emozioni, tranquillità,
ottimismo, illusioni, autocompiacimento.
Gli argomenti prelevano dal
vangelo tutto quello
che stimola
all’accoglienza,
che è qualche
cosa di più della
ospitalità;
alla pace, che è qualche
cosa di più del ripudio
della guerra; alla giustizia che è qualche
cosa di più della
pretesa di vedersi riconosciuti
i propri
diritti.
Le parole
chiave distribuite
negli oltre 100 commenti si
ripetono, rincorrono, attraggono,
interrogano ed ognuna di
esse diventa un “oggetto” di
meditazione. Compassione,
conversione, attenzione,
premura, coinvolgimento,
trasformazione della storia,
partecipazione, comunione
oltre naturalmente
quelle che danno il titolo
al libro, sono come note,
insistentemente ripetute,
che sintetizzano il messaggio
propositivo ed impegnativo
che don Di Piazza, ormai
da più di
venticinque anni, diffonde
dal Centro di accoglienza
dedicato ad Ernesto
Balducci.
La lettura può provocare irritazione e qualche generica
domanda risentita. Non
tanto perché, per nostra fortuna, facciamo parte
dei paesi “benestanti”, ricchi se confrontati con quelli
del terzo mondo, quanto perché le
sollecitazioni ci trovano
impotenti o forse soli di
fronte
alla miseria che
colpisce gli
altri e non soltanto quelli
del terzo mondo!
Ci chiediamo poi
se smettere di costruire
gli F35, costosissimi
aerei
da combattimento (60 milioni
di euro l’uno), potrebbe
rappresentare una soluzione,
quando sappiamo che la FAO,
destina poco più del
20% dei suoi costi di gestione
per i paesi poveri, per non
parlare della Caritas che
si
trattiene il 50% di quanto
raccoglie per finanziare
la propria struttura, o
della cifra enorme che la
chiesa
italiana
spende in pubblicità per
incentivare la raccolta dell’8 ‰.
Non ci si può permettere
di rimproverare a don Pierluigi
Di Piazza, vissuto da solo
senza un alito di spirito
di corpo da parte dei suoi “confratelli”,
di fare politica per la sinistra,
come più di qualcuno
sostiene. Non ci si può permettere
di criticare chi vive sulla
sua pelle
la coerenza
del messaggio che diffonde!
Ci piacerebbe, tuttavia,
che
all’enunciazione dei
principi e delle critiche
al sistema, per quanto condivisibili,
seguissero proposte concrete.
I centri
di prima
accoglienza non funzionano, che cosa o come si possono migliorare
con i soldi che abbiamo?
Le impronte digitali ai piccoli Rom o
Sinti ,
come si possono evitare per non diventare un paese razzista?
Che
cosa possiamo fare per impedire
che il Mediterraneo diventi
una fossa
comune di quelli che non
riescono a raggiungere
il nostro Paese per mendicare,
stando che da noi “la mendicità” può dare
da vivere?
Chi soddisferà la fame di benessere, salute,
aspettative di vita di quei
disperati senza riso, grano, acqua, senza ecografi
e senza TAC? Altri, che nei
loro programmi predicavano l’assistenzialismo,
dopo aver procurato inumane
sofferenze, sono falliti
miseramente ed oggi
quasi dimenticati!
E’ possibile pensare
che se ci liberiamo dagli
USA, questi
non
saranno
sostituiti dai cinesi o dagli
indiani o da altri?
Come immaginare che di fronte
al dramma dei clandestini
non si senta
un moto
di compassione,
ma che cosa
può fare
il singolo? Forse si può rinunciare
a mangiare la pizza, ad andare
in ferie, a
godere in piccolo
la
vita, ad
avallare i
mutui della
prima casa dei figli, ma
nulla nei confronti di una
disoccupazione
di
massa che comincia
a profilarsi
anche in Europa e
nulla nemmeno per il PIL
(il positivo di produzione)
del
proprio paese.
Quel
che vorremmo da Don
Pierluigi è che ci aiutasse a convincerci
che prima di “amare il mondo” o accogliere i “dannati
della terra”, dobbiamo
convivere ed amare il nostro
prossimo, che non sta a Lampedusa,
ma sul nostro pianerottolo. Nella
casa dei miei genitori in
Carnia arrivavano i poveri
(uno era
conosciuto come
Bepo Gjat, perché mangiava gatti) ed avevano una branda
nel fienile sempre pronta: era il nostro centro di accoglienza.
Certo che
ora i tempi sono cambiati, ma è pura
follia, non utopia, pensare
di accogliere in albergo
i disperati di oggi.
Vogliamo
provocare una
invasione ? E non volerla
sarà mica
reato o solo egoismo?
Marino Plazzotta
Luglio 2008