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di Mauro Tedeschi

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9° Puntata

Il professor Julius Cornelius Chron era un tipo assai particolare. Sebbene avesse passato la vita ad occuparsi di scienza delle comunicazioni nelle più prestigiose Università europee non si era mai montato la testa. Egli aveva, testardamente, provato e riprovato ad escogitare la formula magica che gli regalasse un mondo migliore. Era più vicino ai settanta, che ai sessanta, malgrado questo, ovunque si recasse, non utilizzava mai mezzi privati. Questo per due motivi: era convinto che fosse tra la gente comune che si coglieva il vero senso delle cose, gli odori, le espressioni gergali, i rumori e perché, disgraziatamente, da qualche anno, era diventato irrimediabilmente cieco. Per questo, vittima anche di una certa zoppia, conseguenza dell’artrite reumatoide, si faceva sempre accompagnare da un fido ex allievo, ora ricercatore. Un certo Dust, al quale garantiva una decorosa borsa di studio oltre ad una immersione costante nell’acquario multicolore dei sognatori incalliti.

Il docente discese con prevedibile disagio dal corrierone stipato degli studenti. Era sabato, quasi mezzogiorno, il suo blazer blu si intonava con gli occhiali scuri e i capelli grigi, a spazzola. Colse subito, dall’aria, che quello doveva essere il luogo ideale. L’anticamera del niente. Rumori di auto sfreccianti, telenovele e soap operas a tutto volume, e un persistente odore acre, forse colza, forse residui di conceria.

“Dove andiamo?” compitò il giovanotto distinto con la valigetta, che lo accompagnava. La destinazione finale era sempre l’ultimo dei loro problemi.

“Descrivi…” Chron ruotò il bastone bianco per chiedere ciò che il suo badante potesse vedere.

L’altro puntò lo sguardo in tutte le direzioni, come fosse il suo periscopio: “Case, anni sessanta, palazzine di otto appartamenti, più o meno, muri scrostati, manutenzione scarsa. Due noci rachitici, piantati di recente. Una piazza, automobili alla rinfusa, asfalto mal rifatto, spazi non segnati. Uffici comunali, un parallelepipedo di cemento, una chiesa in stile romanico, direi fine ottocento.”

“Aperta?” Chiese il professore.

“Chiusa.” A quella risposta il vecchio s’incupì.

“E su, in alto?”

“Case monofamiliari, garages. Almeno tre persone stanno lavando l’automobile con l’acqua potabile, panni stesi.”

“Colore dominante?”

“Marrone, direi, e rosso scuro.”

“La gente, Dust, come si veste?”

“Non c’è nessuno per strada, non abbastanza per un’analisi, è ora di pranzo, se vuole entriamo in un locale per approfondire...”

“Più tardi. Considerazione d’insieme?”

“E’ un luogo triste, non è vitale, la gente ci viene solo per dormire. Pizzerie al taglio almeno tre nel raggio di cento metri, videonoleggio, lavanderia automatica. La casa come rifugio, dove ritirarsi e sparire. Negozi di elettrodomestici due sulla piazza, televisori al plasma a prezzi scontati. Mi pare un posto senz’anima come migliaia di altri.”

“Perfetto!”

Erbavoglio sapeva che quel giorno avrebbe finalmente incontrato il professor Chron, un vero mito per tutti i navigatori controcorrente. Non sapeva niente di lui che non avesse letto e non aveva mai visto una sua fotografia. Un nickname, la prosa di un blogger famoso e null’altro. Aveva insistito per incontrarlo in città, era disposto a prenotare un ristorante costoso, ma l’altro aveva declinato: “casa sua o una trattoria di paese” aveva risposto. Il farmacista una casa vera non ce l’aveva, perciò allertò le anziane zie, che abitavano nel “centro storico” del paese, che preparassero un pranzo come si doveva. Non se la sentiva di affrontare il luminare da solo, data la sua cronica insicurezza temeva una pessima figura, perciò si fece forza e andò a chiamare Nico che poltriva ancora nel letto. Quando l’operaio aprì la porta del ‘Paradiso’ il farmacista lo sommerse con un fiume di preghiere, lusinghe e minacce.

“Devi assolutamente venire, Nico!”

“Non ti bastano i casini che abbiamo già procurato, vuoi scovarne di nuovi?”

“Mi permetto di ricordare che i casini li hai disseppelliti tu, su alla Ferriera.”

“E adesso liriseppellisco.”

“Ora che hanno visto la luce, sarà ben difficile convincerli a rientrare.” Erbavoglio sospirò, poi tentò l’ultima carta: “Ci sarà anche don Celestino…”

Queste parole colpirono Nico al cuore: “Cosa dici, se sono dieci anni che non si muove dal suo eremo, e poi come pensi che possiamo accompagnarlo? Sul sellino della moto?”

“Sarebbe un’idea…” Erbavoglio era tragicamente sincero.

“E chi sarebbe questo professore?”

“Uno che risponde alle domande.”

Effettivamente, l’operaio aveva per la testa mille domande e garbugli che non riusciva a sbrogliare. Da una parte, avrebbe preferito lasciare alle spalle gli ultimi mesi, dall’altra sapeva che il suo era un viaggio appena incominciato. “Celestino, chi va a prenderlo?”

Erbavoglio si vergognava molto non era un grande stratega, né un credibile bugiardo: “effettivamente, io pensavo proprio a te e alla moto…”

“Allora non scherzavi, sei proprio matto… Siamo sicuri che venga?”

“L’ho avvisato, gli ho spiegato il tipo di persona, l’ho pregato di aiutarci a trovare una strada. Alla fine ha accettato.” Il naso gli crebbe di un palmo.

Fu così che Nico rispolverò la moto da enduro, e il farmacista si fiondò a telefonare al vecchio parroco. Mentre correva a casa ( non aveva mai posseduto un cellulare ) incrociò uno strano tipo, cieco e zoppo, accompagnato da un ragazzo distinto con la valigetta. Non li aveva mai visti in paese, non si premurò di degnarli di un’altra occhiata. Il suo professore era un signore anziano ma nel pieno delle forze, con un’abbronzatura da bay watch, si sa, gli eroi sono sempre giovani e belli.

Di malavoglia, con le ossa che gli facevano male per il sonno agitato, Nico prese la sua moto, si sincerò del buono stato delle pedaline poi si mise a ridere nervosamente. Non avrebbe mai pensato di trasportare don Celestino sul quel due ruote contraffatto. Quell’uomo pareva stare in piedi per miracolo, o meglio, per volontà Superiore e adesso doveva far subire alle sue terga i gradoni della mulattiera che portava a Luminaria, la sua contrada, stretto all’estremità del magro sellino. Improbabile, ma, conoscendo Celestino, niente era impossibile. Mentre saliva sgasando verso la montagna, l’operaio non potè fare a meno di orientare lo sguardo in direzione della sua vecchia casa, non c’erano più i suoi panni stesi ma le finestre erano aperte. Alessia conosceva bene il caratteristico rumore della moto da cross e lui credette di scorgerla mentre si precipitava fuori, come a richiamarlo. Non le concesse alcuna attenuante, lui girò il casco rosso con la banda bianca dall’altra parte. Un tradimento, forse, l’avrebbe potuto perdonare, ma quel tradimento, no!

Il religioso stava in piedi davanti alla canonica, aggrappato al suo bastone in abiti civili, un fardello sotto il braccio. Antonia, la perpetua, lo stava riprendendo con tutte le sue forze, ma lui, i pochi capelli al vento, negava vigorosamente. Fu in quel momento che Nico si rese conto di non avere un casco per lui e non sapendo cosa dire esordì,rendendo la situazione ancor più surreale con un: “mi, mi, mi sono dimenticato il suo casco!”.

La donna lo incendiò con lo sguardo, poi si tranquillizzò, era chiaro che una cosa del genere non si potesse fare. Era semplicemente impossibile. Il prete osservò il motociclista di sbieco e poi sorrise freddo: “A che mi serve il casco, se casco… muoio!”

“Beh, io non voglio forzarla Don, capisco le sue difficoltà…”

La perpetua si illuminò: “vedi Celestin, nessuno ti obbliga.”

“Capisci poco, donna, guarda, guarda bene là in fondo, non la scorgi…?”

“E cosa c’è la in fondo?” pareva indispettita, per lei non c’era niente di nuovo da vedere.

“La speranza, io devo raggiungere la speranza, con ogni mezzo! Questi ragazzi sono cresciuti con me, ho un debito con loro, non posso lasciarli soli. Se è vero, come mi ha detto quel matto di Erbavoglio, che la speranza arriva in corriera, ebbene, io la raggiungerò in moto!”

“Vecchio pazzo!” la donna se ne andò stizzita e senza un saluto. La porta della canonica sembrò venire giù per lo schianto.

Fu così che Celestino si aggrappò all’operaio Nico e, con un difficoltosissimo movimento a pendolo delle gambe, si fissò al sellino.

“Vuole il mio casco, Don?”

“Va, va…”

Nico non poteva procedere troppo piano, rischiavano di cadere, né troppo forte, rischiavano di uscire di strada, perciò pregò il loro Dio che quel viaggio pazzesco finisse al più presto. Il prete, avvinghiato per quanto le sue forze consentissero all’operaio, mentre il vento gli batteva sulla faccia, snocciolò nella mente l’intero rosario, contando ad una ad una le buche che avrebbero preso.

Pregava tra sé: “Sono dunque ammattito, Signore? Anni e anni che non scendo in paese, e tu, dovevi scegliere un mezzo così stravagante per farmi ritornare?” Poi si diede del fesso. Il suo Interlocutore l’ultimo viaggio lo aveva fatto in salita, scegliendosi un mezzo ancora più eccentrico.

Finalmente si ritrovarono sull’asfalto e il prete si acquietò, comunque fosse stato il ritorno, per il momento, era ancora vivo.

Quando sentì suonare il campanello della vecchia casa delle zie Erbavoglio provò un tuffo al cuore, che per un attimo poi rimase senza fiato quando si ritrovò davanti gli strani tizi che aveva incrociato per strada. “Chi di voi è il professore?”

“Entrambi” rispose Chron, “lei deve essere il famoso farmacista.”

“In quanto al farmacista, potrei essere d’accordo, in quanto al famoso…”

“Lei si sottovaluta, signore”, puntualizzò il fido ‘Dust’: “se è riuscito a trascinare fin qui il professore non dev’essere un uomo da poco… Come preferisce essere chiamato?”

“Qui tutti mi chiamano Erbavoglio, così è anche il mio nick, per me va bene così.” Era sinceramente sconvolto, la forza della natura che aveva incontrato su internet, si concentrava in un corpo stanco, straziato al punto da dover essere sorretto. Quanta differenza tra realtà e fantasia.

“Lei è in imbarazzo per me, vero? Non si aspettava un cieco, ma l’assicuro che gli altri sensi che possiedo la ‘colgono’ benissimo. Lei è una persona dolce e insicura, dottore, piena di amore per il prossimo non corrisposto. La cosa bella di lei è che non ha mai perso la speranza che le cose potessero cambiare, e io sono qui per aiutarla.”

Erano ancora sulla porta, il farmacista rispose: “lei è il benvenuto, signore, e il suo compagno con lei. La nostra casa è la vostra, purtroppo anche io mi sono abituato alla forma che cancella la sostanza. Prego accomodatevi.”

Dopo pochi minuti giunsero anche Nico e Celestino che liberò il suo fagotto che aveva trattenuto tra lui e Nico per tutta la discesa. Mai e poi mai avrebbe fatto il suo ingresso in una casa “foresta” senza la sua vecchia tonaca. Il farmacista lo vide e si commosse, pensò che non avrebbe mai rivissuto una giornata così. Le persone che amava di più, i suoi amici di scuola, di pensiero e di penna, riuniti attorno allo stesso tavolo. A pensarci bene avrebbe dovuto fotografarli tutti, registrare ogni parola.

“Bene…” Erbavoglio non sapeva che dire, la mente gli si annebbiò.

Il professore ruppe il ghiaccio: “Dunque questi sono i suoi migliori amici, Erbavoglio è un nome d’arte, hoqualche riserva a chiamarla così…”

“Erasmo…” Celestino ruppe l’imbarazzo. “Si chiama Erasmo!” Il farmacista lo incendiò con un’occhiataccia, odiava il suo nome , Nico, che lo sapeva, sorrise.

“Lei, che resta in silenzio, deve essere Nico, l’operaio che abita nel ‘Paradiso’”

“Ultimamente la mia vita dice il contrario, professore, comunque, sono molto onorato di conoscerla…”

“No, io lo sono, lei resuscita lo spirito di Davide contro Golia.”

“Solo che Davide ha vinto…” il tono di Nico era rassegnato.

“Ha avuto fortuna, per non usare un’espressione più forte…” Celestino era il solito burlone, le zie che si accalcavano attorno ai fornelli si fecero il segno della croce, tre volte. Nessuno seppe trattenere la risata.

“Veda, Nico, io credo che i prepotenti si possano battere ma non con gli eserciti, io penso che si possano battere insieme…”

“Insieme…” ripetè Dust, che viveva di luce riflessa.

“Noi eravamo in tanti alla manifestazione, abbiamo addirittura appeso la bandiera in cima al fumaiolo…” l’operaio si giustificò.

“Avete fatto bene ma siete isolati e loro hanno tutto, informazione, risorse economiche, politici compiacenti…”

“E allora?”

Chron si fece serio: “Dovete trovare altri come voi, che condividano le vostre stesse preoccupazioni, che certi problemi li abbiano già risolti. Non isolatevi!”

Celestino si concesse una riflessione teologica: “Gli atti degli Apostoli parlano chiaro, pochi uomini che si muovevano di gruppo in gruppo di ebrei osservanti, per tutto il mondo conosciuto. Il Cristianesimo è nato da una matassa di Comunità, come dite voi adesso?”

Dust fu puntuale: “Network si dice! Conoscenze, sostegno economico, rifugio… ”

Arrivarono gli antipasti, ben innaffiati da ottimo vino, e nessuno aprì bocca mentre mangiava, le zie si tenevano in disparte, commentavano sottovoce quelle strane allusioni. A ciascuno fu lasciato il tempo di riflettere. Nico si sentiva inadeguato, lui non sapeva come connettersi a Internet, l’ultimo viaggio che aveva fatto era in una città vicina, per una fiera campionaria.

Ripresero a ragionare, l’operaio cercò di essere franco: “Professore, io non conosco le lingue, non mi so connettere alla rete, sono un autodidatta. A lei servono altri come lei e qui in paese non è che abbondiamo…”

Il cattedrattico sospirò: “Può imparare però, o a quarant’anni ha già chiuso il negozio?”

“Ne ho quarantatre, durante il giorno lavoro, la sera esco poco. Leggo o guardo la televisione. Comincio a perdere i capelli e non osservo più le donne… come una volta.”

Celestino lo scrutò come se fosse uno scimpanzè dello Zoo. ”Che cosa dici? Sei come questo paese, spento? Non guardi più nemmeno le donne? Quanta energia tieni dentro lo stomaco, ragazzo?.”

“In effetti, ha un’ulcera che si dovrebbe curare…” Erbavoglio finalmente aveva ritrovato la parola. Nico sbuffò.

“Beh…” il professore fece una pausa, “la nostra, ‘matassa’, come la chiama don Celestino, avrebbe deciso di formare un nodo proprio, qui, ad Acciarino.”

“Nel vostro paese!” sottolineò Dust.

Erbavoglio levitò sopra il tavolo per la felicità, lui era l’unico che conosceva un poco le finalità filantropiche della ‘matassa’, i discorsi che animavano i blog.

Don Celestino si fece sospettoso: “ma voi e le vostre teorie prevedete un Dio, o siete una fratellanza di atei, magari seguaci del grande architetto dell’Universo, sono vecchio ma ho letto Dan Brown! Non farete parte della setta degli Iniziati?”

Arrivarono i primi, e quella domanda si fece sospesa, tutti ripresero a masticare in silenzio, perché dalla risposta poteva dipendere il proseguo della giornata, e non solo.

Il professore si pulì la bocca con grande attenzione, erano tutti estasiati da come riuscisse a raccogliere il cibo senza sbrodolarsi, non vedendoci.

“Veda, Celestino, lei ha voluto essere vicino a noi con la sua veste, una veste di altri tempi. Adesso i sacerdoti cattolici sono più moderni, si mimetizzano. Io sono irlandese di nascita ma, le dico la verità, sono scappato di casa perché ero ateo e comunista, ero…”

“Era…” Dust faceva sempre da eco.

“Poi…” avevano tutti le orecchie spalancate, le zie rischiarono di bruciare l’arrosto sul fuoco, non potevano perdersi il finale.

“Sono stato ad Olimpia, voi sapete dov’è Olimpia?”

“Più o meno….” Nico era curioso su dove mai volesse andare a parare.

“E’ il luogo dove si tenevano le olimpiadi, in Grecia. Lo stadio, nella sue prima versione era situato in modo che l’arrivo fosse ai piedi dell’altare di Zeus. Poi nel IV secolo A.C. fu spostato, per aumentarne la capienza, e Zeus si trovò assai più distante. Come si dice, lontano dagli occhi, lontano dal cuore, fu proprio in quel periodo che cominciarono i tentativi di corruzione dei giudici, il doping, gli accorditruffaldini tra atleti…”

“Cosa vuole dire?” Celestino manteneva uno sguardo severo, indagatore.

“Che senza un Dio, senza una visione, l’umanità si perde. Sebbene io non creda, sono aperto a Dio e spero che un giorno possa bussare alla mia porta. Del resto nel nostro network ci sono cristiani, musulmani, agnostici, ebrei che, nelle differenze, dialogano. Ciascuno, ove possibile, dà il meglio di sé.”

Il religioso, con un cenno del capo, approvò.

“E in cosa consiste il vostro progetto?” Nico si stava mettendo a suo agio, forse era il vino, forse i commensali, ma era da tempo che non si sentiva così rilassato.

Arrivarono i secondi. Silenzio, poi i dolci, ancora silenzio.

“Beh, il progetto tecnico, diciamo è una nuova fonte di energia, che chiamiamo Kimera.”

“Inquinante?” chiese Nico.

“Assolutamente no!” Dust era un esempio di cieca dedizione.

Chron proseguì: “Dal momento che le civiltà spesso si costruiscono sulle fonti di energia che le sostengono, siano essi gli schiavi di Roma, i vapori della rivoluzione industriale, i miasmi dei pozzi di petrolio io lavoro per facilitare l’avvento di una nuova società, incardinata su una forma di energia pulita e a basso costo. Ho il compito, come si dice, di prepare il mondo ad accoglierla.”

Il farmacista sbottò: “Ad Acciarino produrremo energia bruciando i rifiuti…”

“Quale posto migliore allora?” Chron sembrava apprestarsi a chiudere il cerchio.

Celestino si disse d’accordo.

“In quale modo volete migliorare questo paese, nessuno c’è mai riuscito!” A questo punto Nico voleva vederci chiaro.

“Cominciamo dal basso, con una scuola, una sorta di Master dello sviluppo sostenibile.”

“Dove?” Erbavoglio voleva sognare.

Arrivarono i caffè.

“Sopra c’è la Geenna.” Il professore sogghignò. “Sotto c’è il Paradiso!”

Tutti osservarono Nico.

“Ah no, mia madre non lo permetterà mai e poi devo riaccompagnare don Celestino!”

Il prete scosse la testa: “Piuttosto di un altro viaggio così, vado a piedi!” Erbavoglio si candidò ad accompagnarlo.

Nico, il professore, e l’immancabile Dust l’avevano fatta piedi fino a casa della madre di Nico che certo non si aspettava quella visita. L’operaio non potè fare a meno di notare che nel ballatoio era appoggiata la bicicletta di sua moglie e la cosa lo mise in agitazione.

“Forse è meglio non entrare.”

“Perché signor Nico?”

“Perché c’è mia moglie. I nostri rapporti non sono buoni, siamo separati.”

Chron sospirò: “Posso immaginare il suo imbarazzo ma oggi vorrei chiudere l’affare.”

“Non voglio illuderla professore, ma mia madre sarà irremovibile. Ha ricevuto altre promesse, da mio cognato e dalla ‘Ditta’ stessa.”

“Ho un’arma segreta.”

Il suo assistente non ammetteva dubbi o tentennamenti: “Il professore ha sempre un’arma segreta!”

L’operaio aveva un’espressione assai corrucciata ed esitava a suonare il campanello. Allora ci pensò Dust, incurante delle sue proteste.

“Chi è?”

“Nico con degli amici…”

“Comunisti?”

“No un professore e il suo assistente.”

Si udì un commento indistinto e carico di sarcasmo, poi il cancelletto si aprì. In quel medesimo istante Alessia discese le scale esterne che portavano all’appartamento della suocera.

“Ciao Nico.”

Lui non la degnò di uno sguardo.

“Nico ti prego…”

“Ho gente!”

“Ho sbagliato ma possiamo rimettere le cose a posto.”

“Lui le sibilò. Chi sbaglia paga, comincia a pagare!”

Lei scrollò il capo e si mise a piangere, e, senza aggiungere nulla inforcò la bicicletta.

Dust e il professore erano già sulla porta di casa.

“Chi siete voi?” Afra non aveva tempo da perdere.

“Siamo delle persone interessate al suo albergo, signora.”

“Arrivate tardi, non siete gli unici…” Non era vero, da Enrico e dagli altri aveva ottenuto solo promesse generiche.

“Non ne dubitiamo.” Il professore era tranquillo, sebbene lei impedisse loro di entrare, dimostrando un certo fastidio. “Ma credo di possedere degli argomenti che valgono più di mille parole.”

L’anziana rise beffarda, ma, mentre Nico li raggiungeva, l’assistente aprì la valigetta. Gli argomenti erano più che convincenti.

A quella vista la vecchia signora strabuzzò gli occhi, si fece da parte, e, come avessero rivelato una segreta parola d’ordine, diede loro via libera.

 

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