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di Mauro Tedeschi

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8° Puntata

Quella domenica di maggio era ventosa, carica di attese e di profumi della montagna. Questo perché molte fabbriche della pianura erano chiuse e il vento spirava verso sud. Il giorno dopo era previsto l’inizio ufficiale dei lavori alla Ferriera, con la posa del primo pilone della funivia che avrebbe trasportato incessantemente tonnellate di ecoballe dalla stazione ferroviaria all’inceneritore. Che grande invenzione le ecoballe, in una parola tutta la loro consistenza, poco eco e molte balle. Involucri dove vari strati di pellicola possono avvolgere qualsivoglia abominio; chi le avrebbe mai intercettate, per esaminarne il contenuto?

Il corteo multicolore si era radunato alle porte del paese, dove c’era la piazza degli autobus. Nico si era vestito da scalatore con le scarpe da trekking e la giacca militare. Dovevano percorrere solo poche centinaia di metri ma tutto poteva accadere e nel caso di incidenti meglio avere le ali ai piedi. Barbarossa e gli altri si erano radunati attorno a lui, come i generali della battaglia di Alesia attorno a Cesare.

“Hai preparato il discorso?”

“Certamente.” Mentì Nico.

“Credi che questa manifestazione buonista sortirà qualche effetto?”

“Lo spero.” Mentì di nuovo Nico. Non c’era l’ombra di un giornalista o di una telecamera, solo il corrispondente locale di un giornale di provincia. Un professorino che seguiva ogni evento della valle, si trattasse di una partita di calcio,di un reato di sangue o dell’inaugurazione di un ristorante.

Francesca arrivò un po’ in ritardo, baciò l’operaio sulla guancia, suscitando l’invidia di non pochi giovanotti ed il suo riottoso imbarazzo. L’organizzazione era affidata a lei.

La ragazza era carica di entusiasmo: “Bene, allora i cartelli si portano a mano, i fischietti sono permessi, i caschi restano nel sottosella.” Si udì un borbottio di sottofondo. “Mio padre ha garantito il palco nella piazza del municipio, i ragazzi del paese hanno preparato l’amplificazione.”

Affluiva intanto un certo numero di abitanti del posto, specialmente giovani e famiglie che avevano acquistato la casa da poco. Le forze dell’ordine, intervenute numerose e in assetto di guerra, si tenevano a debita distanza, solo alcuni agenti della polizia politica si avvicinarono ai capi dei dimostranti, per assicurarsi della coerenza del percorso con il tracciato concordato. Era una bella manifestazione, colorata, palloncini per i bambini, striscioni non troppo offensivi tipo: MULTINAZIONALI? RIFIUTATELE o CAMBIAMO NOME: IMMONDEZZAIO poi REGIONE, PROVINCIA, COMUNE: ASSENTI! Il corteo prese ad avanzare, i commercianti compresero che non era il caso di abbassare le serrande, anzi, alcuni familiarizzarono con i manifestanti e offrirono loro da bere.

Si rideva e si scherzava, ma qualcuno, in mezzo al corteo, attendeva solo un segnale e ben presto ebbe soddisfazione. Sopra il vociare, oltre il monte, si udì prima in lontananza, poi sempre più vicino, il rombo regolare del rotore di un elicottero. Niente di così strano, poteva trattarsi di un mezzo delle forze dell’ordine, anche se, per trecento persone, si sarebbe trattato di un disturbo eccessivo. Era un enorme Chinook da trasporto che portava sotto la pancia, agganciato a un sistema di verricelli, la base del pilone numero uno. Dunque li stavano provocando apertamente. E ancor di più quando, grazie ad un’ampia virata, l’aereomobile volò a perpendicolo sopra di loro, esercitando un movimento a pendolo, così da provocare una certa apprensione tra i manifestanti.

Barbarossa, che di mestiere faceva il postino precario, non ci mise molto ad elaborare il messaggio. Grande fu la sua sorpresa quando si rese conto, guardandolo in viso, di quanto il tranquillo Nico, il moderato Nico, l’assennato Nico, avesse il sangue agli occhi come lui.

“Allora?” gli chiese mentre altri bestemmiavano e lanciavano strali alla macchina volante. Gloria e i più moderati si prodigavano a tenere calmi i ragazzi, specialmente quelli di città, ma era come nuotare in una vasca di piranha. Si istigavano uno con l’altro, arano abituati ai cortei, non alle processioni.

Acquamen si guardò in giro e adocchiò un paio di matti che stavano già cercando di svellere i paletti dei marciapiedi e uno che, con una sorta di piede di porco recuperato chissà dove, iniziava ad estrarre, con certosina abilità, sampietrini dal selciato. Fu un attimo, poi l’operaio prese la decisione più saggia. Bene la prova muscolare, ma fuori dal paese. Danneggiare la proprietà non era il biglietto da visita più intelligente per preservare almeno la neutralità del paese.

“Alla Ferriera!” Fu il suo grido di battaglia.

“Alla Ferriera, alla Ferriera!” Finalmente una parte dei manifestanti poteva dare il meglio di sé.

Il maresciallo dei carabinieri, inorridito per quel che poteva accadere nel bel mezzo della piazza, accolse con sollievo la decisione di risparmiare il centro abitato. Aveva avvertito Nico di quello che poteva accadere associandosi a certa gente, che cuocesse nel suo brodo, adesso. Immaginava il loro obiettivo, conosceva i sentieri, così diede le informazioni giuste ai reparti su come tagliar loro la strada e coglierli di sorpresa. Le famiglie e i manifestanti pacifici rimasero isolati, smarriti in mezzo alla strada con i loro cartelli. Invece, con un fuggi fuggi generale i ragazzi correvano nella piazza dei pullman dove, nei recessi più impensati, avevano occultato scudi, biglie di ferro e bastoni.

Correvano come matti, Nico vociò a Barbarossa: “Almeno un gruppo di noi deve arrivare su in cima, conosco i sentieri ma di sicuro tenteranno di impedircelo. Occorre una diversione.”

Un tipo si era attaccato al telefono, chiamava le televisioni e i giornali locali,ripeteva: “Botte, botte da orbi!” Giocava d’anticipo, offriva ai mediaquello che chiedevano. Sangue, l’unico modo per farli muovere ed arrivare in tempo. Il sentiero saliva ripido e i ragazzi erano i fila indiana, ad un certo punto quasi si incrociava con uno dei tornanti della vecchia strada per la fabbrica. Lì le forze dell’ordine avevano posizionato i mezzi, attesero con pazienza e poi caricarono, in discesa, la testa e la coda del gruppo. Dal paese, visto che quel pezzo di montagna era ancora libero dagli alberi, si vide tutto. Gli altri manifestanti, quelli pacifici, osservavano esterrefatti i corpo a corpo, le zuffe, i ruzzoloni, le vampate dei lacrimogeni. Finalmente giunsero trafelate le troup televisive, che, grazie a potenti teleobiettivi, riuscirono a immortalare la scena. Uno spettacolo di cappa e spada, ad uso dei media, uomini e donne impolverati si facevano la guerra, chi per uno stipendio da fame, chi per la gloria, chi per un ideale non troppo a fuoco. Barbarossa fu ferito e arrestato, una trentina di ragazzi fermati per resistenza a pubblico ufficiale, ma Nico, Francesca e un gruppo di otto si erano dileguati nel bosco, con la ferma intenzione di occupare la Ferriera.

Il nucleo originario che aveva formato il comitato si era seduto in piazza, e non andava fiero dello spettacolo. Gloria era sconsolata. “Ci eravamo tanto raccomandati...” Giorgio quando non sapeva che fare assumeva l’aria del vecchio saggio, citò una vetusta allocuzione: “a giocare col fuoco ci si brucia.” Daria lo rimproverò, suscitandogli una smorfia: “volevamo l’attenzione del mondo, adesso ce l’abbiamo.” Fabio sorrise amaramente: “Non esagerare con il mondo, un servizio di coda nel telegiornale regionale, forse. Dipende dalla qualità delle immagini e dal numero degli arrestati.” Erbavoglio era addoloratissimo, al limite del pianto: “Non avrei mai pensato che Nico volesse la guerra, invece si è mosso alla loro testa!” Mauro, il ristoratore laureato in filosofia, arresosi anche lui alla realtà, e non da quel giorno, rispose: “da quello che si dice in giro ha qualche motivo personale per essere così arrabbiato, cherchez la femme…”. Maria Grazia, l’infermiera chiosò: “Quella sua e di suo cognato non è la nostra guerra, per me la questione può anche finire qui.”

“Sbagli!” Erbavoglio questa volta apparve più sicuro di sé. “A Genova, tempo fa, un immenso corteo cercò di fronteggiare i potenti del mondo. Esprimeva un sentimento diffuso, aveva le proprie ragioni, ma si schiantò contro le mura dei loro castelli. Violenza contro violenza, automobili bruciate, migliaia di feriti, un ragazzo morto ma cosa rimane oggi di loro? Un fiume di parole, storie drammatiche, forse la nemesi di un movimento. Dobbiamo cercare una strada nuova, amici miei, diamo un senso al nostro essere cittadini del mondo. Siete tutti così bravi, così intelligenti, non potete accontentarvi di dire ‘abbiamo perduto’, ‘andiamo a casa’. Non abbiamo nemmeno iniziato! Don Celestino ha detto che siamo una Comunità, forse è venuta l’ora di dimostrarlo.”

“Da Acciarino?” lo scherzò Mauro. Non siamo mica Parigi, non siamo niente!

Il palco era desolatamente vuoto, il paese era stato militarizzato, chiunque avesse rotto il delicato equilibrio della manifestazione grazie ad una deliberata provocazione ‘aerea’ aveva ottenuto una parte dei propri obiettivi. Una parte, perché, fatti salvi un paletto e una ventina di cubetti di porfido accalcati, non c’erano stati altri danni alle cose.

Ma su in alto non era finita, la strada per la Ferriera non era ancora ben assestata e i mezzi delle forze dell’ordine arrancavano. Il tafferuglio aveva regalato un grande vantaggio al gruppo degli incursori guidati da Nico che si era staccato dal gruppo principale poco prima della battaglia. Erano a due passi dalla grande voragine una volta occupata dal carbone quando un razzo di segnalazione rosso si stagliò in alto nella valle.

Erano stati individuati.

Gli operai in tuta blu, quelli della squadra di Marius, erano disposti a raggiera, ed erano in posizione di difesa. La corsa dei rivoltosi si fermò, erano tutti ansimanti, speravano di poterli cogliere di sorpresa per asserragliarsi nell’edificio principale. L’ex militare non era certo il tipo da farsi trovare impreparato. Teneva le braccia conserte e aspettava, non sembrava impaurito, era il suo mestiere.

“Signor Nico, venga avanti.” Lo invitò con fare tranquillo. Il suo strano accento lo rendeva inquietante.

L’operaio si avvicinò un poco.

“Dunque siete venuti a conquistarci.”

“Vorremmo provarci.” Era evidente che non poteva succedere.

Marius sorrise, lo faceva raramente. “Quella dell’elicottero non è stata una mia idea. Speravano di provocare qualche tafferuglio, vetrine spaccate, feriti tra la popolazione locale, magari con l’aiuto di alcuni provocatori prezzolati.”

“Tra i nostri non ci sono…”

“Lasci stare, signor Nico. Forse potrei indicargliene uno anche tra i ragazzi che sono arrivati fin qui.” La cosa provocò un certo sconcerto e un coro di“Non è vero. Non io!”

Acquamen domandò a sé stesso, ma ad alta voce: “E adesso?” Si udivano già i motori dei mezzi della polizia arrancare sulla salita.

L’ex agente decise di concedere ai giovanotti l’onore delle armi. “Adesso conquistateci, ce l’avrete uno straccio di bandiera e una macchina fotografica digitale, no?” Francesca l’aveva portata con sé e il Rasta con le nuove scarpe a punta si definiva un free lance.L’ex militare continuò: “Vede, io vengo da un paese come questo, non sta su nessuna carta geografica. Là non ci si preoccupa delle schifezze che si respirano, ci si preoccupa di arrivare vivi fino a domani.”

“Lei è uno dei loro cani da guardia.”

Marius sorrise amaramente: “Io come lei devo mangiare, devo mantenere due famiglie, una casa in montagna e un cane. Faccio un lavoro non tanto diverso dal suo, anche lei lavora per ‘il sistema’, magari senza saperlo. Dica ai suoi di appendere la bandiera sulla ciminiera più alta e poi andatevene via di qui, prima che vi arrestino.” Da parte di uno che aveva fronteggiato di persona la Rainbow Warrior, leggendaria barca di Green Peace, era una bella concessione.

Francesca si arrampicò sulla scaletta esterna della ciminiera, non senza pericolo e piazzò la bandiera arcobaleno alla sua sommità. Ilsuo amico fotografò e poi se la diedero a gambe.

“Solo una cosa” l’agente trattenne Nico per la giacca.”Non avete nessuna possibilità, abbiamo tutte le carte in regola. E’ un’istallazione da manuale. Suo cognato l’avrà vinta, in un modo o nell’altro, anche se è una delle persone peggiori che conosco.”

Nico si sorprese di porre quella domanda al nemico: “Non c’è un altro modo?”

Marius sorrise e rispose: “usate la fantasia, alzate la posta…”, poi lo lasciò andare, la bandiera multicolore garriva al vento. Dado dall’elicottero la vide e imprecò. Era il segnale che il capo della sicurezza li aveva lasciati fare, in spregio alla sua autorità. In fondo lo aveva aggirato, provocando la folla senza avvertire la sicurezza aziendale. Oltre, per il momento, Enrico non si sarebbe più spinto. Il Direttore dei lavori intravvide una decina di piccole figure penetrare nel bosco, non se ne curò, poi ordinò la posa del pilone. Prima pietra di un ulteriore progresso per l’Umanità.

In piazza intanto si stavano per rompere le righe. Qualcuno disse: “Nico ha fatto bene a portarli fuori dal paese…” “Ci sarebbe da chiedersi” sbottò Giorgio, “se abbia fatto bene anche a portarceli dentro.” Fabio sentenziò: “La sconfitta è sempre orfana…”. “Che si fa?” Mauro temeva di saltare il pranzo perciò invitò tutti al suo ristorante. Erbavoglio sempre più riflessivo, aggiunse: “ci deve essere un altro modo. Rispondere alla violenza con la violenza non porta risultati. In altri luoghi, dove ci sono rilevanti interessi contrastanti e grandi numeri elettorali sono riusciti a bloccare i lavori ma qui, pare che siamo le vittime predestinate, un buco nero in mezzo al niente.” Gloria apparve come sempre realista: ”Fossimo tutti come te, sognatori, varrebbe la pena. Il fatto è che il mondo gira come vuol girare e non saranno pochi volenterosi a fargli cambiare percorso.” Daria non si fece sfuggire l’occasione: “A dire il vero un falegname e un pugno di pescatori hanno addirittura rovesciato l’Impero, a suo tempo. ”Sì” Maria Grazia intervenne, “Ma loro avevano un’arma segreta...” Fabio accennò: “Al momento ne siamo sprovvisti.” Tutti sorrisero sommessamente e presero, a testa bassa, la via del ritorno.

Il professor Cornelius Chron era un tipo bizzarro ma assai intelligente. Non si fece sfuggire quella notiziola su un blog periferico che parlava dei fatti di Acciarino e dell’insediamento di una Geenna. La “Ditta” era ben conosciuta dalla confraternita di professori, ricercatori, specialisti, finanziatori piccoli e grandi che stavano collaborando all’iniziativa ‘open source’ Kimera. Le multinazionali erano ritenute nemiche di ogni reale innovazione sia in campo energetico che del progresso sociale, ma gli strumentia cui il network poteva accedere per contrastarle erano stati a lungo ridicolmente esigui. Fino a quando un ricco investitore pentito che aveva passato la vita a giocare tra le oscillazioni di borsa aveva riversato un fiume di denaro sul loro progetto. Kimera appunto, un’apparecchiatura di dimensioni relativamente ridotte in grado di produrre energia civile a prezzo competitivo grazie alla dimenticata, o occultata, fusione fredda, ovvero reazioni di fusione nucleare che avvengono a temperatura relativamente bassa.

Il compito del professor Chron era molto particolare, quello di creare le condizioni perché un cambiamento da probabile divenisse praticabile dal punto di vista sociologico. Lui faceva sempre lo stesso esempio: “Quanti, per caso, ventura, o volontà hanno scoperto l’America prima di Colombo? E perché mai questa cosiddetta ‘scoperta’ è stata attribuita solo a lui?” Era un bel riflettere e alla fine si rispondeva lapidario: “Perché i tempi erano maturi! L’umanità del tempo era disposta ad accettarlo.” Il professore era uno che lavorava sul suo tempo, sapeva bene che, per quanto alla luce del sole, un fatto non era un fatto fino a che i moderni inquisitori, ovvero i media, non rilasciassero una certificazione di autenticità. Kimera sarebbe divenuta un fatto, cambiando la storia energetica del mondo, prima ancora di funzionare, quando sarebbe entrata nell’immaginario collettivo, quando la classe dirigente in voga l’avrebbe ritenuta un’opportunità. Acciarino era il luogo ideale, il posto che stava cercando. Una periferia isolata dove la protervia del feudatario non temeva rivali. Lì poteva prendere vita uno dei suoi cosiddetti ‘nodi’, un posto dove creare la giusta differenza di potenziale tra due mondi contrapposti. Fu così che fece rispondere, in una delle sette lingue che conosceva, a quel farmacista oscuro, in un posto che nessuna guida turistica segnalava. Gli rispose, parafrasando una sua celebre frase, che non un altro mondo, ma: “un altro modo” era possibile.

Nico e Francesca uscirono dal bosco che era già buio. Dal momento che lui non aveva acqua corrente in casa passarono da Erbavoglio per una doccia. Il farmacista era perso nel suo portatile a chattare con chissachì. Alla fine lei accompagnò l’operaio fino all’albergo e si capiva che non le sarebbe spiaciuto di entrare. Il ‘Paradiso’ conservava ancora un alone di mistero e la ragazza non era una che si tirava indietro.

“Cosa ti aspetti tu da me, Francesca?” Nico fu molto diretto.

“Che mi lasci entrare.”

“E poi?”

“Poi cosa, Nico? Sei un uomo o un’ameba? Non riesco proprio ad interessarti, eppure pensavo di ottenere il contrario, non ti piacciono le…”

“Ho il doppio degli anni tuoi. Come credi che mi sentirei, dopo?”

“Sei un tipo ben strano. Di solito tutti sono in ansia per il prima, o per il durante…”

“Ti voglio bene, Francesca, e proprio per questo ti mando a casa.”

“Non puoi trattarmi come una bambina, ho avuto altri uomini…”

Lo spinse dentro, in quella che una volta era la reception.

Lui era stanco morto ed angustiato per il domani: “parliamo di oggi, se vuoi, immaginiamo nuove strategie…”

“Non sono qui per le strategie, Nico… Possibile che tu non capisca?”

“Io non la penso così, per quanto tu mi possa mal giudicare, io non voglio toccarti, Francesca. ”

“Allora non sei un uomo.”

“Allora non sono uno stronzo! La mia vita va già abbastanza a rotoli senza rovinare quella di un’altro.”

“Per me non cambierebbe nulla.”

“Appunto Francesca, appunto.”

Fu così che Nico rientrò nella stanza trentadue, con la voglia di fare un serio esame di coscienza. Se tutti i suoi tentativi, oramai decennali, di mettere mano alla realtà erano miseramente falliti, una ragione ci doveva pur essere. Inutile chiamare in causa la sfortuna o il malocchio. Era un fallito. Aveva passato tutta la vita a cercare un equilibrio, ora che pensava di averlo trovato si stava affannando a recuperare il tempo perduto. Questo gli era già costato il matrimonio, la sicurezza nel lavoro, la faccia con l’intero paese. Forse era il caso di fermarsi e accettare di rioccupare la mattonella che la vita gli aveva assegnato, perché era sicuro che perseverando, alla fine avrebbe perso anche quella.

Dopo avere dedicato anima e corpo alla causa dell’inceneritore e della rissa con suo cognato adesso c’era da pensare al domani. Era chiaro che certe forze non si possono affrontare frontalmente, sei non hai alle spalle interessi altrettanto potenti. Sebbene Nico fosse sempre stato un brav’uomo e avesse, per quanto gli era possibile, aiutato chi gli stava vicino non aveva potuto contare su un successo che fosse uno, negli ultimi dieci anni. Era giusto così?

Don Celestino glielo aveva spiegato e rispiegato da bambino, “Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato” decine di volte. Ora si trovava solo, con una moglie verso la quale, malgrado le sue nefandezze, aveva dei doveri da assolvere e una madre che non lo aveva mai amato. Come può una madre non volere bene al suo bambino? Forse che la sua balbuzie e la sua gracilità infantile l’avessero tanto fatta vergognare tanto da ferirla? O c’era dell’altro?

A queste cose pensava Nico mentre si rivoltava nel letto, nell’attesa di un domani quasi certamente peggiore. Adesso serviva qualcosa, un segno, un piccolo segno da parte di quel Dio che non aveva mai cessato di cercare anche nei momenti più bui.

Ed il segno, seppure colpevolmente tardivo, arrivò.

 

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