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di Mauro Tedeschi

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6° Puntata

Al ventottesimo piano della Ditta quella mattina si teneva una riunione dedicata alla security dei vari insediamenti produttivi sparpagliati per il mondo. In una regione dell’Africa centrale, in particolare, era in corso una rivolta tribale che metteva a repentaglio l’incolumità dei tecnici e, cosa ben più importante, delle costose infrastrutture.

L’incontro era stato sollecitato per vie informali dal feroce direttore della sicurezza interna, tale Marius, il finto operaio con i capelli a spazzola della Ferriera. Enrico era assente e non a caso, c’era anche il suo comportamento irrazionale all’ordine del giorno.

Il discorso scivolò sul sito I – SOKA4. Quella era la sigla ufficiale affibbiata al megainceneritore di Acciarino. Marius, già agente speciale in un servizio segreto orientale, stava facendo rapporto ad alcuni membri del consiglio di amministrazione.

“Non abbiamo incontrato le solite resistenze, quel posto ha tutte le carte in regola. La camera argillosa che abbiamo ricavato nel profondo della miniera principale è l’ideale per stoccare le scorie radioattive.”

“Strada spianata, dunque!” il consigliere anziano si stava crogiolando per un altro lavoro in dirittura d’arrivo.

“Se non fosse…” Marius era un professionista nel suo genere, serio e degno di fiducia. A lui erano state affidate piattaforme nel Mare del Nord, installazioni petrolifere nel sud del mondo, cargo mercantili al di sotto di ogni sospetto diretti nell’Estremo Oriente.

“Continui…” il direttore amministrativo, un tipo glabro ed occhialuto, in perenne competizione con il consigliere anziano, attendeva solo un appiglio per rinfacciargli qualcosa.

“Che il problema potrebbe generarsi da noi, dal nostro interno.”

“In che senso?” La signora affascinante con il pechinese sulle ginocchia era la terza moglie del proprietario, le era stata data facoltà di partecipare a tutte le riunioni, anche le più riservate. Aveva fama di manager capace e non rappresentava certo il tipo di donna soprammobile, anche se le sue debolezze erano note, specialmente al responsabile della sicurezza.

L’ex agente continuò: “Vedete, io ho lasciato la famiglia a quindici anni per la vita militare, credo che, oramai, abbiano perso la speranza di rivedermi. Nonostante tutto, ogni mese, faccio pervenire loro una piccola somma, e poi non mi dimentico i regali per i compleanni, per il Natale ortodosso,per abbellire la casa di mia madre. Se doveste incaricarmi di un lavoro dalle mie parti, manderei un altro.”

“Ho sempre immaginato che avesse anche un cuore, da qualche parte, ma questo cosa c’entra?” Il Direttore generale, un grassone che nessuna camicia poteva contenere, voleva arrivare al sodo, c’erano milioni di metri cubi di cemento, macchine e infrastrutture da mettere in moto.

L’Ex militare sbottò: “I legami di famiglia sono cose serie e pericolose, voi avete mandato un Direttore dei lavori…”

“Enrico, ha conoscenza dei luoghi, maneggia con i migliori ambienti politici di tutte le tendenze…” Il consigliere anziano cominciava a spazientirsi.

“Mi lasci terminare…” Marius trattenne il respiro “Lui ha rinfocolato una faida familiare, da quella scintilla sta prendendo forma un comitato contro di noi, poca roba, qualche decina di persone al massimo, ma il rapporto che si sta instaurando tra lui e i suoi parenti non mi lascia tranquillo, sono già venuti alle mani. Tra Enrico e gli altri paesanotti, poi, ci sono antiche questioni irrisolte. Sono spiacente di informarvi che nel gruppo ho individuato anche un paio di spaventapasseri…” Non ci fu bisogno di traduzioni per quel nomignolo, da qualche anno i No Global avevano fatto irruzione nel loro immaginario.

La signora interruppe: “Quello di scegliere i direttori dei lavori non è compito suo, Marius. Enrico è il migliore che abbiamo sulla piazza. Forse lei dimentica le innumerevoli situazioni delicate che ha risolto.”

Il direttore amministrativo, custode di mille segreti che gli permettevano di interrompere la moglie dell’azionista di riferimento ( ma non lui in persona ), ricordò: “Anche Marius ci ha risolto molte situazioni spinose, ha lavorato spesso con Enrico, senza mai fiatare e se ci pone questo problema è il caso di rifletterci.”

L’agente apparve determinato: “Non sto dicendo che Enrico non sia bravo… Sto solo avvisando alcuni autorevoli membri del Consiglio che affidare i rapporti con i locali a lui potrebbe generare grossi problemi, perché, a differenza di molte altre situazioni, qui si stanno innescando delle dinamiche private, incontrollabili, unpredictable.”

La signora elegante esibì il sorriso più falso e condiscendente: “Enrico non si discute, Enrico è il migliore di tutti!” Lo disse con trasporto eccessivo, che tutti notarono.

Marius non mostrò alcuna emozione, ma prese atto che anche la moglie del proprietario era caduta nel cesto.

“Effettivamente…” il direttore amministrativo non condivideva l’entusiasmo della signora e i soldi erano soldi: “Possiamo trovare una risorsa( così chiamavano gli umani ) che affianchi il nostro Direttore nelle relazioni con i locali. Marius non avrebbe nessun motivo per parlare così se non avesse rilevato un problema, se non avesse riscontrato un deficit di tranquillità che può nuocere alla nostraCompagnia…”

“Concitator?” Il consigliere anziano non voleva farsi imporre una proposta.

“Concitator.” tutti annuirono, meno la signora, che non poteva insistere oltre, sapeva di aver già oltrepassato la misura.

Adesso Marius era più tranquillo, conosceva quel tipo e sapeva che nessuno come lui sapeva trattare con le popolazioni locali, lapponi o africane che fossero. Provocava guerre e risentimenti politici, di qui il soprannome, ma era un maestro anche nel sopirle. Fregoli dei travestimenti e scafato diplomatico, era un free lance che si faceva pagare bene ma otteneva quasi sempre il suo scopo.

Marius sapeva di essersi guadagnato un nemico in più, ma in quell’ambiente nessuno poteva illudersi di possedere degli amici.

La riunione si sciolse tra sorrisi e pacche sulle spalle, la Signora si defilò e corse a telefonare.

Concitator non aveva un nome, o, meglio, non vi era nessuno che lo conoscesse veramente. Si calava nella parte dopo uno studio accurato dell’ambiente ed entrava presto in sintonia con l’interlocutore. Si poteva definire un camaleonte, un furbo dissimulatore di sentimenti, una faccia da Poker.

Fu così che quella mattina presto si fece trovare davanti all’hotel Paradiso, vestito in un modo, pettinato in un modo, atteggiato in un modo che la signora Afra non potè credere ai propri occhi. Nemmeno nei suoi sogni più segreti avrebbe pensato si potesse materializzare davanti a lei l’immagine del Duca, il mitico cliente del tavolo tredici, l’affabulatore di storie fantastiche. Era una cosa impossibile, il vero Duca avrebbe avuto almeno cent’anni. Il cuore di lei si mise a battere come una grancassa quando comprese che attendeva proprio lei.

“La signora Afra?” Le fece il baciamano. Non poteva che trattarsi di un fantasma. L’anziana proprietaria si guardò intorno e si diede un pizzicotto di nascosto sul polso sinistro. Sì, era vero!

“In, in cosa posso esserle utile?” la voce di lei tremava.

“Veda signora, in città è corsa voce che lei intende ristrutturare il suo albergo, una spesa notevole.”

“Ci sto riflettendo, con i nuovi lavori alla Ferriera…”

Lo aveva fatto entrare! Erano decenni che non faceva entrare più nessuno. Che cosa le stava succedendo?

“Lo tiene bene signora, rustico, ma grazioso.”

“Si, si, accomodi signore.” Lei depositò la borsetta e accese la luce. L’allacciamento era stato ripristinato solo da pochi giorni. Neanche a farlo apposta lui prese posto al tavolo tredici. A quel punto Afra ebbe un sommovimento dell’anima. Per un centesimo di secondo che durò un secolo rivide la sua giovinezza nel paese che non c’era più. Lui la osservava incuriosito, alla fine la vecchia signora, con il corpo che si squassava in un tremore prese posto. Si diede della cretina, poteva trattarsi solo di una notevole somiglianza.

“Mi dica, in cosa posso aiutarla? Non ho compreso bene il suo nome, signor...?”

“Sono Bruno Fossa della Mirandola, Duca di Tre Stelle.”

“Parente?” lei si convinse di trovarsi di fronte ad un miracolo.

“Alla lontana...” avrebbe potuto rispondere qualsiasi cosa.

“La dignitosissima signora aprì il sorriso più bello della sua vita. Era tornato, in una forma diversa ma ancora lì, al tavolo tredici. “

“Vede, sono venuto a trovarla perché sono preoccupato per suo figlio.”

“Mio figlio?”

“Sa, io sono un investitore, ho impegnato molti milioni di Euro per la nuova Ferriera, e vengo a sapere che qualcuno si oppone, qualcuno non capisce…”

Lei posò una mano su quella di lui. “E’ una testa matta, degno figlio di suo padre, pensi che voleva chiamarlo Spartaco! Non credo comunque possa darvi fastidio, non è un aquila.”

“Però se lei potesse parlargli…”

“Non abbiamo rapporti. Buon giorno e buona sera.”

“E con i suoi amici?”

“L’unico vero amico che ha è quel farmacista matto, Erbavoglio…”

Per quasi tre quarti un’ora la signora disegnò la geografia di Acciarino, dei componenti del costituendo comitato contro la Ferriera e dei segreti anche più spinosi e privati che riguardavano il figlio e la nuora.

Adesso Concitator era soddisfatto, aveva trovato un gancio sicuro nell’accampamento avversario.

“Cosa pensa di farne dell’albergo, signora?”

“Mi piacerebbe rimetterlo in sesto. Arriveranno molti operai, tecnici specializzati…”

“Sì, ma quelli hanno bisogno di stanze dotate di tutti i comfort, televisioni a circuito chiuso, menù speciali. Un enorme investimento, forse Lei necessiterebbe di un socio…”

“Ci penserò, Duca, le spiace se la chiamo così?”

“Affatto, sebbene sia fedele alla Repubblica.” Quale, erano affari suoi.

Quando lui se ne fu andato lei richiuse il portone piano piano, spense la luce e pianse, pianse tanto da inondare il famoso tavolo.

Lui imboccò la strada verso la città, era stato un gioco da ragazzi. Quella vecchia fotografia nella biblioteca comunale, frutto di una raccolta di tanti anni prima, aveva dato i suoi frutti. “Il Duca”, c’era scritto sul retro, e “Paradiso 1953”. L’aveva riconosciuta subito la signora Afra. Mora, scura di carnagione, carina. Occhieggiava ragazzina nella foto assieme a un tipo molto charmant che le posava delicatamente una mano sulla spalla. Si capiva dallo sguardo di lei che era felice, si trovava nel posto che avrebbe desiderato occupare per tutta la vita. In piedi, a fianco di quell’uomo più anziano, vicino a un tavolo imbandito il cui numero era ancora impresso nella memoria. Il mitico tredici. Come è strana la gente, a volte si attacca a un ricordo e ne rimane impigliata per tutta la vita, lussi che il camaleonte Concitator non si poteva permettere.

 

E venne la sera della assemblea cittadina. Dei manifesti si era preoccupato Erbavoglio. Erano troppo chiassosi e colorati ma certificati “carta riciclata al 100%”.

COMITATO CONTRO L’INCENERITORE

ACCIARINO IMMONDEZZAIO D’EUROPA

Gloria aveva fatto le solite telefonate e Fabio aveva contattato tutti i professionisti del paese.Daria aveva inaugurato una mailing list e Antonia si era data da fare con il network delle beghine. Tutti insomma avevano investito il giro degli amici della questione e ci si attendeva una partecipazione adeguata, ma la gente entrava con il contagocce.

La sala civica, dove si svolgevano anche i consigli comunali, aveva una capienza di un centinaio di posti. Ad un quarto d’ora dall’inizio dei lavori, le nove in punto, c’erano poco più di due file occupate. Nico sedeva alla presidenza e rifletteva su cosa avessero sbagliato. I manifesti non erano sobri, e questo aveva potuto influire, ma le persone che formavano il comitato erano in gran parte degne di fiducia e il problema era serio. C’era un fatto però, la Ferriera era nei fatti un rudere, un cadavere da tenere ben discosto. Nell’immaginario collettivo non apparteneva al paese, ne era distante, se non in linea d’aria, psicologicamente. La maggior parte degli abitanti di Acciarino vi abitavano da meno di dieci anni e non si sognavano di risiedervi altri dieci. Del nucleo originario, anche dal punto di vista architettonico, non restavano che poche vestigia. Le proteste, i comitati, in genere nascono dai vicini del sito indesiderato, ma la Ferriera non aveva vicini, solo lontani.

Gloria si era raccomandata con Francesca di evitare la presenza dei suoi amici disobbedienti. Avrebbero spaventato la popolazione, ma di popolazione in quella sala, non c’era neanche l’ombra. Solo alcuni amici, familiari, parenti. Perciò diedero la parola al logorroico Erbavoglio solo per prendere tempo, mentre i telefonini facevano il loro dovere, ma invano. Alle nove e mezza il gruppo che si era trovato presso Don Celestino si era ricompattato, Rasta e Francesca esclusi. Grande fu la sorpresa di Nico, mentre il farmacista sproloquiava sulle conseguenze della diossina sull’organismo umano, nel vedere entrare sua madre. I suoi occhi erano fiammeggianti, non era lì per sostenerlo ma per vederlo cadere.

Gloria era furibonda, proprio i suoi amici di partito, quelli che sulla sacralità del territorio, inteso come Heimat, avevano costruito le loro fortune politiche, le avevano tirato il bidone. A quel punto si stavano parlando addosso, seduta al fianco di Nico, accanto a Giorgio scambiò con loro uno sguardo di intesa. Si era preparata un bel discorso di apertura, ma lo avrebbe utilizzato per un'altra occasione. Avevano fallito.

Fu in quel preciso istante, mentre Gloria interrompeva l’infarfugliato Erbavoglio, per riconvocare sine die l’assemblea, che accadde qualcosa. Francesca fece capolino e si scusò per il ritardo. Era molto elegante, il fisico mediterraneo in pieno splendore, finemente truccata. Dietro di lei, questa volta vestiti secondo la moda corrente, una settantina di giovani che fecero irruzione nella sala. Ce n’erano almeno una ventina del paese, così il clima plumbeo si fece d’improvviso sereno, erano venuti quelli che non avevano invitato. A volte i giovani sono sorprendenti. La ragazza si avvicinò a Nico, gli strizzò l’occhio e sussurrò: “Non dovevamo spaventare la gente ‘normale’ no?”, lui si fece sfuggire: “Sei bellissima”, era stato come vedere arrivare il settimo cavalleggeri con lei nella parte del generale Custer. Poi l’operaio lanciò uno sguardo allarmato verso la moglie che stava messaggiando con chissachì, non aveva colto quella battuta, meno male!

Gloria non fece un discorso ideologico, si limitò ai fatti. Elencò i problemi che una installazione del genere avrebbe potuto provocare al paese. Si soffermò sul disinteresse dei politici, la latitanza del sindaco, la rassegnazione della popolazione. Fabio spiegò all’uditorio come funzionava un megainceneritore e Giorgio rese tutti edotti sui pericoli connessi allo stoccaggio di rifiuti pericolosi o, addirittura, radioattivi nel sottosuolo. Daria comunicò l’indirizzo della mailing list ed annunciò la prossima attivazione di un sito internet. A questo punto venne aperto il dibattito, una lamentazione collettiva sulle condizioni di abbandono sociale del paese, per il quale la scelta di costruirvi la Geenna, non era che l’ultimo insulto. Gli “Spaventapasseri” della città perlopiù tacevano, su fermo suggerimento di Francesca, ma quando qualcuno vociò di una manifestazione, magari “dura”, esplosero tutti in un applauso fragoroso.

Fu a quel punto che da una sedia vuota, almeno così gli era parsa fino ad un minuto prima, un signore elegante, brizzolato, in gessato blu, prese la parola. Si presentò, un cognome roboante, poi precisò che rappresentava il consorzio della aziende che avrebbero costruito l’istallazione della Ferriera. Un brusio di disapprovazione percorse la sala ma egli li zittì con la sua voce flautata: “non è forse questa una pubblica assemblea? Bene, allora ascoltate anche le ragioni di chi non la pensa come voi.” Si avvicinò al microfono. Lo attorniava un silenzio carico di tensione.

“Dove mettiamo i rifiuti?” Non attese risposta. Non ne aveva bisogno “Una domanda facile, ma una risposta più difficile… Dunque volete organizzare una protesta…” Le sue pause erano colpi di teatro, i ritmi quelli di un attore. “Nessuno giù in città si fa risarcire per le polveri sottili che respira ogni giorno, nessuno di voi, di noi, si è sollevato quando decine di vetrerie, concerie, ed altre aziende inquinanti ci hanno ammorbato l’aria. Vi ribellate adesso… a dire il vero in pochi, perché la sola parola, termovalorizzatore, vi incute timori ancestrali, un disagio psicologico.”

“Inceneritore”, protestò qualcuno rumorosamente.

“Come vuole, in ogni caso, ben consci di rispettare tutte le normative, Europee, Nazionali, Regionali, Provinciali, financo Comunali, vogliamo risarcire, non tanto il danno fisico, che né aumenta né diminuisce il consueto, ma quello psicologico. La paura indotta da media in mala fede. Perciò abbiamo già deciso di finanziare le opere sociali del comune, e di abbattere le bollette degli abitanti…. Siamo disponibili a ragionare con persone equilibrate, che non si confondano davanti alla realtà.” Si rivolse a Gloria, ignorando gli altri: “Possiamo aprire un tavolo con una vostra rappresentanza, unitamente agli amministratori locali, ragionare su ulteriori accomodamenti oppure…”

Dall’uditorio si udirono distintamente degli insulti.

“Lasciare il pallino alla piazza e allora, vinca il migliore.” Non era minaccioso, qualunque pensiero gli passasse per la mente non pareva turbarlo, anzi.

Il capo dei disobbedienti della città, un quarantenne precario detto Barabarossa, voleva rispondere a muso duro, ma Francesca lo zittì con lo sguardo, il patto era quello di esserci, non di prevaricare la cosiddetta società civile. Il Duca si guardò attorno soddisfatto, attendeva una reazione, il suo sguardo si incrociò con quello di Afra, che mimò un applauso.

A questo punto qualcuno doveva rispondere a tutta quella tranquilla protervia. Chi lo avrebbe fatto si sarebbe autonominato leader di quel movimento. Tutti si guardarono in viso e indicarono silenziosamente Nico, che, fuori della sala mensa della fabbrica, non aveva mai tenuto un discorso. Sollevò lo sguardo verso sua madre che scuoteva la testa, e allora, solo allora gli sgorgarono le parole. Libere e leggere.

“Caro Dottore, io non so chi lei sia, ma credo che i nostri amministratori abbiano già ben discusso di risarcimenti e riequilibri. Il punto è semplice. Perché a chi tutto, e a chi niente? Perché Acciarino deve diventare un immondezzaio? Lo ha detto bene lei, in parte lo è già, un cesso, e ne siamo perfettamente consci. Bene, abbiamo già dato abbastanza!” Lo aveva detto tutto d’un fiato, in modo naturale. Un lungo applauso si levò dalla sala.

Il Duca non si scompose: “Signor Nico, lei è un sindacalista…” sapeva tutto di lui“e sa bene che in una trattativa c’è il momento del conflitto e quello della riappacificazione. Il futuro di molte persone, posti di lavoro, esercizi commerciali, dipendono da noi.” Sorrise.

“Ne ho piena coscienza.”

“E allora cosa suggerisce? Noi proponiamo energia a basso costo, riscaldamento, posti di lavoro, e lei? Non ci sono alternative a questo modello di sviluppo, ci creda, se ci fossero le avremmo già impiegate. Una parte rilevante delle nostre risorse vengono investite in ricerca e sviluppo. Non siamo criminali.”

L’operaio rimase muto.

Dal fondo della sala, come per aiutarlo, una voce si levò: “resistenza, manifestazione!” Divenne un coro scandito. I ragazzi volevano la prova di forza.

“Deve esserci un altro modo!”, Nico quasi lo urlò ma non venne udito da nessuno.

Il Duca allungò il suo biglietto da visita a Gloria. “Ragionate” fu il suo laconico commento.

La confusione divenne insopportabile e allora la riunione si sciolse.

Il resto della serata lo passarono in birreria, da una parte i giovanotti che, come nell’Aida, dove Radames viene invitato a guidare l’esercito egizio, ripetevano “Guerra, Guerra, Guerra!”. I più anziani intendevano placare la loro furia, ma non avevano argomenti. Loro non potevano permettersi il lusso di essere fuori dal mondo.

“Deve esserci un altro modo.” Ripetè Nico, mentre sorseggiava, la consueta acqua minerale, gassata.

Francesca, sorrise.

 

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