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di Mauro Tedeschi

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5° Puntata

 

Alessia non era felice.

La moglie di Nico si sosteneva con gli psicofarmaci e investiva tutto il suo tempo a non precipitare nella mezza età. Come sua suocera, anche lei viveva in un altro tempo, quello in cui una donna doveva diventare una moglie ed una madre perfetta. Lei non era divenuta né l’una né l’altra. Aveva atteso il principe azzurro tra le presine colorate e il corredo ricamato ma il tempo passava e nessuno che apparisse degno delle sue aspettative si faceva avanti. Era stata quella strega di sua madre ad illuderla con le sue fantasie. Mentre le altre si divertivano in discoteca o accedevano alle professioni, lei cuciva, rammendava, andava a messa.Nico era uno della compagnia dei ragazzini, quello che nessuno aveva raccolto prima che diventasse così “uomo”. Come se si trattasse di un’offerta speciale ai magazzini, prendere o lasciare d’impulso, lei lo aveva preso.

Non erano stati anni facili quelli a fianco di Nico, specialmente gli ultimi, dopo il fallimento dell’idea dell’agriturismo che li aveva tenuti uniti in un desiderio di emancipazione. Entrambi i coniugi avevano cercato consolazione altrove, l’alcol per lui, le pillole per lei. Quel sorriso stampato che la caratterizzava, tale e quale quello di sua cognata Cristina, la moglie di Enrico, era una forma di mascheramento. Lei, la sorella di Nico, sì che era stata fortunata, aveva vinto alla lotteria della vita. Alessia la odiava e la ammirava insieme. Dado era stato per lei la più segreta delle passioni e ogni volta che lo rincontrava provava una struggente nostalgia. Di una giovinezza che si era perduta, di un’ infanzia carica di speranze deluse, di un presente noioso e grigio. Si trovava, la sartina Alessia, in quel periodo in cui una donna è un frutto così maturo che sta per cadere dalla pianta, ancora desiderabile, ma per poco. Per questo voleva fare qualcosa per cambiare il proprio stato, mentre con il resto del mondo continuava a fingere bonomia ed equilibrio.

Alessia non aveva mai desiderato divenire madre, specialmente di un figlio di Nico e a suo tempo aveva provveduto in proposito. Riteneva quel legame una specie di limbo, uno stato da cui si poteva evadere, prima o poi. Questo spiega perché suo marito scambiava con lei solo le parole necessarie al buon funzionamento della casa ed al benessere degli animali. Lo stato di agitazione in cui l’operaio era precipitato nelle ultime settimane, dopo unperiodo di relativa tranquillità succeduto alla disintossicazione, stava minando il loro equilibrio, indifferente.

Quel sabato sua cognata si era presentata a casa alla ricerca del fratello ma Nico, dopo avere curato gli animali, si era recato in paese sempre per quell’ odioso affare della Ferriera.

Alessia armeggiava con un asciugapiatti colorato, lo faceva sempre quando giungevano ospiti inattesi, dava l’impressione di operosa vitalità. “Come ti va, cara Cristina ? I nipotini sono sempre più belli…” Teneva i loro ritratti sul comodino, erano la fotografia del loro padre.

“Va bene, Alessia.” Lo disse senza convinzione.

“Ho saputo che Enrico si tratterrà qui per qualche tempo, per via di quel nuovo lavoro…”

“E’ appunto di questo che volevo parlare con Nico.”

Un pensiero oscuro fece breccia nella mente di Alessia.

“Nel senso? Puoi dire a me?”

“Preferisco parlare direttamente a lui, è una cosa tra fratelli.”

“Beh, gli puoi telefonare.” Il tono era seccato.

Cristina, la Barbie della compagnia, oramai abbandonata nella cesta dei giocattoli vecchi, la guardò bene negli occhi, non emanava più né fascino, né entusiasmo.

“Io rientro a Milano, digli solo di stare attento.”

“Non ti preoccupare, lo metterò in riga, come sempre.” La sarta sorrise nervosamente.

L’altra annuì, salutò e girò i tacchi. Certe cose non si possono dire al telefono, ma certe altre pare di sì. Alessia richiamò il numero che desiderava dalla memoria del cellulare.

Come avesse fatto Gloria, nel giro di una mezza giornata, a ritrovare tutta la banda, o almeno quelli che erano rimasti nei paraggi, rimase per l’operaio Nico un mistero. Quella donna lo aveva da sempre impaurito per la sua determinazione. Più larga che alta, lo sguardo fiero della maestra severa, a malapena si salutavano. Un certo risentimento per quella che era la “spia” della banda, quella che decideva quando una certa avventura si stava spingendo oltre e correva a chiamare il parroco o i genitori, era rimasto nei suoi pensieri. Le persone però non restano identiche tutta la vita, c’è chi migliora, chi peggiora, e chi, alfine, capisce. Per questo, mentre pensava di essere accolto da una sorta di giudice istruttore, si trovò nel tinello di una famiglia normale, a fare conoscenza di un marito simpatico e perbene e di due figli che studiavano al piano di sopra. Lei gli risparmiò la solita manfrina sul bicchiere di vino e passò direttamente al tè.

“Ci ho messo del bello e del buono ma vengono quasi tutti, con le famiglie”

“Con le famiglie?”

“Certamente, Nico, pensi che questo fatto riguardi solo gli adulti? Se decidono di appendere una bomba sopra le nostre teste, la questione riguarda tutti, anche i più piccoli.”

All’operaio apparve una stranezza: “pensi che si sentiranno coinvolti, i nostri amici, o ci stanno facendo solo una cortesia?”

“Questo non lo posso dire, ma se non riusciamo a rendere partecipi neanche loro, che nei buchi della Ferriera ci sono cresciuti, allora è tempo perso.”

“Hai ragione, e quelli l’avranno vinta un’altra volta.”

“Questo dipende da noi, è venuta l’ora di dimostrare di che pasta siamo fatti.” Il marito annuì.

In sottofondo, dalle camere dei ragazzi arrivava il dolce suono di una canzone dei Beatles:

I don't know why

Non lo so perché

Nobody told you

Nessuno ti ha detto

How to unfold your love..

Come dischiudere il tuo amore

I don't know how

Non lo so perché

Someone controlled you

Qualcuno ti trattiene

They bought and sold you..

Loro ti comprano e ti vendono

Contro ogni aspettative anche Alessia lo aveva seguito, su, fino alla cappella della Luminaria. Erano una trentina di persone tra amici e parenti, tutti ingrassati, qualcuno irriconoscibile. Erbavoglio era molto seccato all’idea di recarsi ad una funzione religiosa, Francesca, che Gloria non avrebbe voluto presente, contro il parere di Nico, si era portata dalla città un paio di giovanotti con il berretto Rasta multicolore e i pantaloni stracciati.

Antonia, la perpetua “volontaria”, aveva preparato tutto per benino. Li accolse con una bevanda analcolica prima della Messa, le altre anziane abitanti della contrada si prodigavano nel dare una mano. Era una bella giornata di sole. La primaverastava facendo capolino e se ne potevano intravedere i colori.

L’omelia fu un momento indimenticabile. Mentre Celestino commentava gli Atti degli Apostoli, fece un preciso riferimento alla Pentecoste con un tale trasporto e parole tanto alte da convincere perfino i Rasta a pigiarsi nell’angusta cappella.

Celestino era terreo ma la sua fede superava ogni cosa: “Vedete, io oggi faccio uno strappo alla regole. Ho sottratto un certo numero di anime alla parrocchia di Acciarino, un atto di superbia che non so se mi verrà perdonato.”

Qualcuno sorrise, la parrocchia era sempre semideserta.

“Bene, lo sapete dove è nata la Chiesa? Qual è il momento forse più importante dopo la nascita e la resurrezione di nostro Signore?”

Non attese la risposta: “èstata la Pentecoste: ‘essi stavano riuniti nello stesso luogo’ ‘apparvero ad essi come delle lingue di fuoco che si dividevano e che andarono aposarsi su ciascuno di essi’.” Respirò a fatica .

”Non ci sarebbe Chiesa, che vuol dire insieme, assemblea, incontro, se non ci fosse la Comunità. La chiesa è Comunità, la Chiesa è stare insieme. Il primo momento della chiesa Cattolica è un momento comunitario, di persone che in nome dello stesso ideale condividevano tutto ‘ma era tutto tra loro in comune’. Quale bestemmia peggiore del ritenere l’essere cristiano un fatto personale, un fai da te, un affare che non possa riguardare il nostro vicino di sedia, o di casa. Dico una cosa che forse potrebbe apparirvi blasfema, ma negare l’essenza comunitaria della Chiesa, cioè il suo carattere collettivo, significa in buona sostanza negare Dio stesso. Due i comandamenti principali fratelli, Amare il proprio Dio e amare il proprio Prossimo.A mio avviso l’individualismo che permea tutti i momenti della nostra vita, questo ammaestramento dei mezzi di comunicazione che ci ha portato a ritenere il nostro simile talvolta nemico, talvolta strumento dei nostri desideri, è entrato anche nei nostri santuari. Voi, amici cari, siete stati fortunati a vivere in questo paese quando ancora la gente si chiamava per nome, e i bambini non avevano solo un padre e una madre, ma decine di padri e di madri che vegliavano su di loro. Oggi si accompagnano i figli a scuola anche se la loro casa dista cento metri. Oggi abbiamo tutti paura. “

Un brusio di approvazione sottolineò quelle parole.

“Bene, e allora a chi altro se non a voi, che oggi siete professionisti, insegnanti, lavoratori stimati e ascoltati nel loro ambiente, ed alle vostre famiglie, Lanterne della Comunità, posso rivolgermi per trasmettere il mio sdegno? Chi altri se non coloro che in questi luoghi nascondono le proprie radici posso rendere coscienti di quello che sta accadendo qua sotto?” Il riferimento alla Ferriera era eloquente.Divenne rosso in viso: “Non solo di giorno ci si prepara ad accogliere un enorme tempio allo spreco e alla supponenza umana, ma di notte …Strane luci, strani rumori, boati giù, nelle viscere della montagna che qualcuno vuole trasformare nell’anticamera degli inferi… Vi chiedo di vigilare, affinché non si debba dire, figli miei, e parlo degli adulti, che conosco ad uno ad uno fin dalla fonte battesimale, che vi siete voltati dall’altra parte. La “banda del buco”, come vi nominavamo allora, è chiamata ora alla missione più difficile, quella di affrontare il drago, faccia a faccia. Questa piccola cappella dedicata a S.Michele, mai nome di Angelo fu più appropriato, sia l’occasione della vostra Pentecoste. So che qualcuno di vuoi si vuol trasferire, so che altri hanno preoccupazioni importanti, malattie, problemi familiari, lavoro. So! Ma ciascuno è chiamato al proprio impegno, ed io che tante volte vi ho tratto fuori dai guai, questa volta vi chiedo la restituzione della mercede. Mi aspetto qualcosa da ognuno di voi, mi aspetto che la fedenascosta nei vostri cuori vi faccia guardare lontano, oltre, molto più in alto.”

Detto questo, sprofondò sulla sedia per un lungo momento di riflessione. Un raggio di sole penetrò dall’abbaino e illuminò il suo volto che a qualcuno apparve per un attimo confondersi con quello di Cristo.

Fu in quel preciso istante che la pace ed il silenzio della contrada di Luminaria furono interrotti dal distinto rumore di un potente mezzo a motore che giungeva da chissà dove. Interrompeva un momento magico. Ne furono tutti seccati, tanto che alla fine della messa cercarono con lo sguardo la fonte di quel baccano.

Dalla contrada di Luminaria la Ferriera distava circa duecento metri in linea d’aria, forse meno. C’era un grosso Bulldozer che smuoveva la terra e piccole figure umane che brulicavano d’intorno. In quel mentre le anziane del luogo stavano disponendo i rinfreschi sulle tavole imbandite.

“Che fanno laggiù?” chiese Nico a Fabio, l’architetto.

“Niente, fanno vedere che ci sono.”

“Vuoi dire che fanno vedere a noi, che ci sono?”

“Direi di sì, non vedo altri spettatori in giro. Il paese dista sette chilometri, se parliamo di strada e la domenica mattina quasi tutti hanno altro da fare.”Il professionista manteneva il suo atteggiamento perplesso rispetto a quella rimpatriata.

“Vuoi dire che anche noi avremmo altro da fare?”

“Voglio dire che di solito i motori di queste proteste sono i portatori di interesse. I contadini o gli allevatori ai quali avvelenano l’acqua e la terra, gli albergatori che perdono le attrattive turistiche, qualche furbetto che non è entrato nella torta e incita il popolo fino a quando finalmente si ricordano della sua fetta. Ma noi…”

“Noi?” Nico era amareggiato dall’atteggiamento dell’amico.

“Noi siamo portatori di disinteresse, non siamo mai entrati in conflitto con gente come questa. Acciarino è il luogo ideale, un dormitorio senza prospettive, una fila di capannoni. Niente agricoltura, niente turismo.”

“Ci sono solo degli esseri umani.” Daria si intrufolò nel discorso. Faceva la programmatrice giù in città, ma si recava spesso ad Acciarino per accudire i vecchi genitori. “Quelli non entrano nel conto?”

Daria era una convinta salutista, vegetariana, patita della bicicletta, rocciatrice provetta. Una cliente fissa di Erbavoglio. Fisico minuto, forza felina di una pantera, ai tempi era quella che si misurava con i maschi e non si era mai vista portare una gonna.

Nessuno sembrava voler prendere in mano la situazione, don Celestino, bicchiere in mano, biascicava parole sottovoce con Gloria. Alessia distribuiva sorrisi e caramelle ai bambini, Nico se ne stava in disparte. Passato il momento magico si poteva misurare tutto l’imbarazzo di rivedersi più vecchi e spogli di ogni illusione. Nessuno però poteva ignorare quel sottofondo rumoroso, quella macchia arancione che si muoveva su e giù, oltre il burrone. Ad osservare meglio pareva delimitasse un perimetro, una linea di difesa.

Daria decise per tutti.

“Io vado.”

“Dove vai ? C’è il burrone!” Giorgio, lo speleologo dilettante si era sempre preoccupato per Daria, certi sentimenti attraversano il tempo. A sua moglie non piacque per nullail tono accorato della sua voce.

“Allora?” L’informatica si rivolse a Giorgio, come sapesse di possedere ancora ascendente su di lui. A dire il vero un sentiero c’era, ed era quello praticato negli anni cinquanta dagli operai che non potevano permettersi di scendere fino in paese per poi risalire con la corriera.

La seguirono Giorgio, lo speleologo, Erbavoglio il farmacista, Maria Grazia, la caposala, Mauro il ristoratore, Gloria la direttrice didattica, suo marito Marino, insegnante di matematica, Lina, la postina, Fabio, l’architetto, Francesca, la studentessa, il Rasta con le scarpe a punta, quello con gli occhiali neri, ed infine Nico, l’operaio. Quel sentiero lo avevano percorso molte volte da bambini, con le scarpe da ginnastica, ma adesso era molto più dura, visto che la traccia era quasi sparita e il fiato si era fatto più corto. Non c’era quasi vegetazione, solo sassi taglienti, tanto che le scarpe a punta del disobbediente dopo pochi metri avevano cominciato a sagomarsi, con suo grande dispiacere. Piccole nuvole di polvere si alzavano ad ogni passo.

Quelli che lavorarono di sotto si accorsero della nube alzata sopra i ghiaioni e si prepararono ad accoglierli. Ciascuno di quelli che stavano scendendo, tranne i Rasta, intendeva proteggere gli altri da qualche alzata d’ingegno. Si erano mossi per questo? In parte era vero, in parte sentivano ancora dentro le parole di don Celesitino che li osservava dall’alto e alle proteste a alle preoccupazioni della perpetua rispondeva “Pensa solo agli affari tuoi!” La Ferriera si presentava come al solito spettrale, la terra smossa di fresco era stata depositata in un cumulo nei pressi del pozzo principale della miniera, quasi ad occultarlo. All’occhio esperto di Fabio apparve chiaro che i lavori in corso erano più dentro a quell’anfratto che fuori.

Dado, bello, stava in maniche di camicia, la zazzera al vento, i soliti inappuntabili operai in tuta, sei o sette, alle sue spalle, disposti a mezzaluna. Teneva un vanghetto nella mano destra, ad ogni buon conto.

Sbottò: “Tutta la compagnia, comprese signore e signorine.”

La battuta era rivolta a Daria che era felicemente ( almeno diceva lei ) single.

“Sei sempre lo stesso figlio di puttana.” La (ex) ragazza non usava perifrasi.

“Non la pensavi così venti anni fa.” Nessuna, dicesi nessuna, gli aveva resistito.

“Una diventa una donna, prima o poi, e sa distinguere un uomo da un serpente.”

Il direttore dei lavoro scrollò le spalle, non aveva nessun interesse per lei, ma scrutava annuendo i suoi vecchi amici ad uno ad uno fino a quando non individuò suo cognato: “Oh, abbiamo l’onore di ricevere il capo dei ribelli, è tutto qui quello che sei riuscito a racimolare Bla Bla? Una rimpatriata tra falliti che pretendono di fermare un treno in corsa con il culo?”

“Sei sempre stato un bastardo, Enrico, ma portare qui questa, questa, cosa è stata la porcata peggiore della tua vita.”

Il dirigente depositò il vanghetto, sorrise agli “operai” che annuirono divertiti, dato che ne aveva fatte anche di peggio, poi rispose a muso duro: “Era meglio in Africa, in qualche remota repubblica Sovietica, o in Cina? Sapete quanti rifiuti producete tutti i giorni, senza contare quelli ospedalieri, i residui delle vostre fabbriche, le scorie radioattive?”

“La domanda è”, si fece coraggio Giorgio, frequentatore saltuario della fabbrica e delle sue miniere, “Dovevi portarli tutti qui? Perchè avete allargato l’accesso al pozzo principale?” Anche al suo occhio allenato non erano sfuggiti i nuovi sostegni.

“Perché no?” rispose il direttore, “Abbiamo ottenuto tutti i permessi e adesso andate via, prima che chiami la forza pubblica!”

Adesso stingeva il vanghetto con entrambe le mani, uno dei due Rasta rispose accendendosi una sigaretta, non chiedeva di meglio che muovere le mani. Dal momento che nessuno muoveva un muscolo, nemmeno i suoi, Dado si avvicinò al cognato e lo strattonò per un braccio. Per un momento ritornarono ragazzini, l’uno, l’operaio, rimaneva immobile, l’altro, il cognato, gli girava intorno. Poi Dado sorrise sprezzante e gli rifilò un buffetto sulla guancia.

“Tornatene a casa dalla tua mogliettina, e non farti più vedere, hai esagerato, e se non vuoi passare dei…”

Non finì la frase, perché uno schiaffone a mano aperta, dura e callosa dell’operaio lo prese in pieno volto e lo scaraventò per terra. Allora Dado, stupefatto, rivolse lo sguardo al capo della sicurezza, il duro con i capelli a spazzola, per chiedergli un immediato intervento ma quello si frappose e fece segno a tutti di mantenere la calma. Il Rasta con le scarpe ormai tonde si ricompose, era già pronto a dare battaglia.

Il momento era topico ma, senza che nessuno proferisse parola se non il vento, tutti i presenti decisero che la questione potevano chiuderla solo quei due.

Nico lo incendiò con lo sguardo “Non siamo più bambini, Enrico, e io non sono più Bla, Bla. Se vuoi che ti spacchi la testa, accomodati.”

Il cognato tornò a brandire il vanghetto, furibondo “Fuori di qui! Tutti”

Gli invasori allora si ritirarono e fu durante la risalita che decisero di organizzare l’assemblea cittadina. Avevano avuto il loro battesimo del fuoco.

Dado era incazzato nero con i suoi BodyGuard ma il tipo con i capelli a spazzola fu laconico. “Io devo sorvegliare i lavori non il direttore dei lavori. Non era nel nostro interesse pestare un gruppo dipaesanotti e due spaventapasseri . Quella di sfidarli senza motivo non è stata una buona idea, perché lei lo sapeva, vero, che oggi erano lassù! D’ora in poi lasci a me questo tipo di decisioni. La sicurezza dei lavori è cosa mia.”

Dado, tacque, sapeva che i dirigenti si possono sostituire dall’oggi al domani, ma si ripromise di restituire quello schiaffo nel modo più feroce e doloroso possibile.

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