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di Mauro Tedeschi

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4° Puntata

 

La Salamandra.

Quella notte Nico sognò della Salamandra gialla e nera. Della sua inutile sofferenza mentre Dado la tormentava con un coltello, del suo sangue versato senza motivo apparente. Nessuno metteva in discussione le iniziative del ragazzino più spaccone della compagnia, ma il piccolo balbuziente non si identificava nel prepotente sciocco, ma in quell’animaletto torturato. Quante volte aveva subito i lazzi di Enrico, nipote di un facoltoso imprenditore della pianura. L’estate Dado la passava ad Acciarino e per Nico iniziava l’incubo. L’unico modo per evitare di essere sbeffeggiato a causa di quei suoi “bla bla” era mettersi al suo servizio, dimostrare coraggio nel calarsi in un anfratto o attraversare un torrente al comando del bulletto della compagnia. Tutti i bambini che facevano gruppo durante le vacanze estive erano al tempo stesso impauriti ed affascinati da quel ragazzino biondo e spregiudicato. Uno che vinceva sempre le figurine degli altri, spesso a dadi, a volte barando, di qui il suo soprannome. Tutto sua nonna, l’effervescente professoressa del tavolo diciannove, ai tempi belli dell’hotel Paradiso.

Nel vuoto disabitato della sala da pranzo, l’orologio a pendolo suonò le sei del mattino. A quell’ora erano già centinaia i mezzi che si muovevano in direzione della pianura. Un’altra settimana da sopportare, le radio accese nelle automobili trasmettevano tutte la stessa trasmissione, uno che dice facezie e un’altro che ride da beota.

E fu così che quella mattina, svegliatosi di malumore, Nico decise che era venuta l’ora di vendicare la salamandra e tutte le altre salamandre del mondo. Forse l’identificazione dell’oppressore con suo cognato poteva apparire eccessiva, ma uno che portava il più grande inceneritore della regione nel paese dei suoi avi non meritava troppa considerazione. Né l’operaio, che si teneva bene informato sulle cose del mondo, poteva più ignorare quanto uno stile di vita che non gli apparteneva,fatto di automobili inquinanti, media tarati per bambini scemi e centri commerciali, stava definitivamente devastando il suo mondo.

In fabbrica si forgiavano i soliti infissi, vita di sempre, cadenzata da pause e lavoro. Era mercoledì e Nico sorseggiava il consueto caffè delle undici, numero dodici alla macchinetta automatica, quando il caporeparto, un tipo untuoso e tracagnotto, lo avvicinò.

“Siamo in crisi.” Nano, come lo chiamavano, aveva vestito la solita faccia da poker.

“Cosa dici? Se siamo pieni di lavoro?”

“Fino a giugno, poi qualcosa dovremo inventarci. I costi sono troppo alti e i padroni stanno pensando ad aprire una succursale all’est, oltre frontiera.”

“Non guadagnano abbastanza?” Acquamen non aveva la certezza che scherzasse.

“Non hai mai capito niente dei signori, Nico. Se uno può guadagnare di più, magari senza avere la seccatura di lavoratori sindacalizzati e rompiballe, senza offesa…”

“Si fa per dire…”

“Allora si va, adesso c’è la globalizzazione.” Il caporeparto parlava forbito, non erano parole sue…

“Però, che concetto interessante, lo hai letto sulla settimana enigmistica? Orizzontali o verticali?”

“A meno che…” L’altro fece finta di non sentire.

“A meno che…” l’operaio cominciava ad inquietarsi.

“Non si riducano i costi, visto che i dipendenti se non li paghi si incazzano, c’è l’energia, ad esempio, o lo smaltimento dei rifiuti speciali.”

“Le commesse, abbiamo ancora i nostri venditori, no?”

Il bassotto sorrise, come se fossero arrivati dove voleva lui.

“Bene, bravo il mio specializzato. Dalla Ferriera può arrivare un ordine gigantesco, una cifra che neanche te la puoi immaginare.”

“Può?” Nico non era preparato ad affrontare quell’argomento sul posto di lavoro.

“Se nessuno si mette per traverso, o si traveste da Robin Hood.”

Touche.

Acquamen rimase senza parole, così l’altro lo incalzò.

“Da quanto aspetti un aumento, Nico?”

“Da due anni, cento euro, promessi e mai dati.”

“Saranno duecento se la commessa va a buon fine, e nessuno di quei contestatori straccioni si mette a menare casini.”

“Non mi pagheresti per il mio lavoro, ma per il mio silenzio. Tu abiti in città, fai presto a parlare…”

Il capo lo osservò con il solito sorriso a mezza bocca poi lo prese per un braccio: “non è cosa per te, Nico. Sei un bravo ragazzo, lascia perdere, e se non ti va di rimanere ad Acciarino, vendi tutto e vieni via.”

“Come se fosse facile, con quell’affare che sparge merda sotto il tuo naso. Avrò la fila di acquirenti davanti alla porta.”

“Dai retta a me, qualcuno, adesso, lo trovi.”

Fece per rispondere ma l’altro era già andato via.

 

La fantasia è la fantasia, ma quando ti toccano il mestiere, la tua unica fonte di sostentamento, le cose si fanno più serie. Nico si fece taciturno.

Quella che aveva ricevuto era nel contempo una offerta ed una minaccia. Evidentemente lo conoscevano, sapevano che nel tempo aveva maturato una certa capacità di farsi ascoltare, specialmente dagli altri operai che lo eleggevano puntualmente delegato sindacale. Il lavoro per lui era tutto, quando tornava a casa faceva carte false per uscire fuori, allontanarsi dal mondo. Sì, loro lo sapevano e gli offrivano una via d’uscita.

La salamandra però, attendeva di essere vendicata. Pensò e ripensò chi, autorevolmente e con discrezione, avrebbe potuto dargli un consiglio. Cercò nella sua mente qualcuno che rappresentasse veramente una guida, un’autorità riconosciuta a cui rivolgersi, ma, sulle prime, non gli venne in mente nessuno. Dove erano finiti gli ispiratori del suo piccolo mondo antico, dove si erano nascosti?

Il medico condotto veniva da fuori e passava ad Acciarino lo stretto necessario per disimpegnarsi. Scartato

Il sindaco, beh, di Pipino abbiamo già detto. Nico era certo che l’unico consiglio che avrebbe ricevuto si poteva sintetizzare in: “stai calmo e non rompere le scatole, vedrai che tutto si aggiusta.” Derubricato.

Il farmacista era già dei suoi, ma non è che godesse di una grande popolarità.

Il maresciallo dei carabinieri non c’era più, da quando avevano delocalizzato la caserma in pianura. Assente.

Restava il parroco. Una volta il paese aveva un prete tutto suo, una persona che, quando entrava in un pubblico locale, tutti si alzavano in piedi, compresi miscredenti, comunisti e peccatori impenitenti. Oggi, data la crisi drammatica delle vocazioni, il sacerdote seguiva diversi centri abitati. Passava più tempo in automobile che in chiesa e, più che il faro della Comunità, egli pareva essere il fanalino. Una piccola luce che si perdeva nella nebbia. Dispensava sacramenti, ma, dati la supponenza ed il disinteresse dei residenti, molti dei quali andavano e venivano senza mettere radici sul territorio, era il massimo che potesse pretendere. Questo parroco non risiedeva in paese, era poco conosciuto, difficile rivolgersi a lui per un affare così delicato, condito da imbarazzanti risvolti personali.

Si girò e rigirò diverse volte nel letto e alla fine un’idea la trovò. Ai tempi della sua giovinezza in paese c’era un sacerdote. Una persona molto brava ed affidabile, un tipo tosto, che lo aveva avvicinato, come del resto i suoi compagni di scuola, alla fede. Un giorno però, poco dopo il matrimonio di Nico, una bufera di pettegolezzi si era abbattuta sul religioso. Vox popoli sussurrava che si fosse legato a tale Antonia, una vedova molto pia, che lo aiutava nei lavori di casa. Tra un lavoro e l’altro, si bisbigliava, il legame si era fatto più affettuoso e li si poteva incontrare, a volte da soli, al ristorante, sui sentieri di montagna, al centro commerciale. Questo non significava che coabitassero, o nutrissero l’uno per l’altra sentimenti che andassero oltre il mutuo soccorso e la condivisione di valori di fede, ma per il paese e qualche sapientone della Curia era abbastanza per avanzare un sospetto di concubinato. “Omnia munda mundis”, tutto è puro per i puri, cercò di difenderlo qualche parrocchiano colto, in fondo il nostro Gesù nutriva una casta ed intensa amicizia con Maria Maddalena. L’invidia e le dicerie si fecero talmente forti e corrosive che fu messo davanti a un bivio, sospensione o isolamento. Dovette ritirarsi in una contrada dove quasi nessuno lo cercò più. Era unprete, come si dice, progressista, e in taluni ambienti ecclesiastici certe sue frequentazioni con i testi della teologia della liberazione non erano molto apprezzati. Si paga sempre la differenza, in un modo o nell’altro.

Si vergognava un po’, Nico, mentre saliva a larghi passi sulla mulattiera che portava a Luminaria, di farsi vivo soltanto allora. La contrada era costituita da un gruppo di case quasi del tutto abbandonate attorno ad una antica cappella. Di lì si dominava dall’alto l’antica Ferriera, si poteva sfiorare con lo sguardo. Era sera, dopo il lavoro e l’operaio si era portato una lampada. Come mai, si chiedeva Acquamen, in tutti quegli anni non aveva mai trovato il coraggio di incontrare un uomo che gli aveva regalato così tanto? Forse il dono più grande, quello di credere in qualcosa che non fosse solo la certezza del domani. Bussò, venne ad aprirgli Antonia, che ne restò assai turbata. Nico riuscì ad abbandonare in un lampo pregiudizi e paure e chiese di Don Celestino.

“Sta cenando” rispose l’anziana donna, “non so se potrà ricevervi.”

“Provi” lo implorò Nico.

Una voce di tuono venne dalla cucina: “Fallo entrare, riconosco la sua voce.” Come poteva riconoscere la sua voce uno che non lo vedeva da venti anni? Dimenticava, l’operaio, che la vecchia maestra scrupolosa ricorda tutti i suoi bambini anche quando diventano padri e nonni, così il pastore attento tutte le sue pecorelle, specialmente quelle più deboli e smarrite.

Lei gli sorrise e lo fece accomodare, poi fece una voce al vecchio Don.

“Io vado a casa, Celestin” lo chiamava col suo nome di battesimo, “nel caso mi chiami pure”, gli dava del lei. La vedova aveva acquistato un modesto appartamento nella stessa contrada.

C’era odore di mobili vecchi dentro quella casa. Sulle pareti del corridoio quadri di santi, anche quello di Oscar Romero, martire del Salvador, ucciso dagli squadroni della morte sull’altare, mentre celebrava la messa. Non era ancora stato canonizzato, non tutti i probabili santi hanno i necessari santi in paradiso, ma Celestino aveva ritenuto di fare un’eccezione. Erano le sue eccezioni a dare tanto fastidio.

“Ti sei fatto uomo!” Lo invitò a sedersi, non era più il tipo vigoroso di un tempo, ma un vecchio raggrinzito, con il bastone appoggiato alla tavola imbandita e un cappello nero da cui emergevano radi capelli bianchi.

“Ci ho provato Don.”

Fu allora che il parroco fece un gesto che gli fece capire molte cose. Celestino prese il vino e lo ripose, poi prese un bicchiere, lo risciacquò abbondantemente sotto il lavandino, lo riempì di acqua di fonte e glielo porse. Voleva dire: “non devi spiegarmi, sono qui ad accoglierti, con i tuoi pregi ed i tuoi difetti.”

“La Ferriera.”

Il religioso rispose con un assenso, sapeva evidentemente tutto.

Nico continuò: “Non sono la persona adatta a sobillare il popolo.”

“Perché no?”

“Lo sa bene, sono un ex alcolizzato, poi, quando mi emoziono, comincio a balbettare.”

“Neanche Mosè era veloce di parola, però ha portato il suo popolo fino alla terra promessa.”

“Mosè?”

“Nell’Esodo, ragazzo mio, si dice a chiare lettere che fosse ‘pesante di bocca e di lingua’, che suo fratello Aronne parlasse in vece sua.”

Questa poi! Nico non l’aveva mai sentita, ma la religione cristiana era piena di pietre scartate.

“Ti ricordi ragazzo, i tuoi amici e compagni di giochi? Come vi chiamavo, ‘la banda del buco’?”

“Si, perché il nostro passatempo preferito era esplorare caverne e nasconderci dentro qualche rudere. Chissà dove sono finiti, l’unico che incontro è mio cognato, che le assicuro…”

“Sì, lo so.” Divagava.

“Beh, dicevamo della Ferriera…”

“C’era quella ragazza, come si chiamava, quella seria…”

“Gloria, adesso è direttrice alla scuole elementari, ma torniamo a noi.”

“Gloria, dicevi, era l’unica a preoccuparsi della vostra integrità, che mi veniva a chiamare quando vi cacciavate in un guaio.”

“Si Don, ma parliamo della Ferriera!” Cominciava a spazientirsi.

Celestino sorrise, ma lo sguardo trasmetteva fierezza.

“Tu non puoi sobillare il popolo, Nico, ma puoi toccare il cuore di quelli che hanno radici profonde in questa valle, anche se non lo sanno.”

“Facile a dirsi, Fabio si vuole trasferire, Erbavoglio beh, insomma, sappiamo che tipo è, il sindaco non ha il polso per dire di no…”

“Gloria, dicevamo, Nico.”

“Senta, sarà anche una brava persona, però si conoscono le sue simpatie politiche, lei vota a destra, destra destra” fece un gesto eloquente con la mano “e poi è così altera che non mi riceverebbe nemmeno.”

“Destra, sinistra, uffa…. Pensiamo oltre! Comincia da Gloria, lei sarà il nostro Aronne e tu il nostro Mosè.”

“Anche lei sarebbe della partita, padre? E che parte si è assegnata?”

“Quella di Giobbe. Perdiana. ‘Così a me sono toccati in sorte mesi di illusione e notti d’affanno mi sono state assegnate’. Fatevi trovare nella cappella, domenica mattina, e ascoltate bene le mie parole.”

“Non sono sicuro padre, di avere la forza di affrontare una cosa del genere. Mi hanno minacciato anche in fabbrica.”

“Io invece sì. Quando ti ho visto entrare da quella porta, mi sono chiesto perché mai lo Spirito Santo si fosse servito di te. Con tutte le persone istruite, praticanti ed operose che vivono nelle valle, poi mi sono risposto.”

“Cosa?”

“Che, nonostante tutti i miei studi, non avevo ancora capito niente.”

Dado aveva un compito, portare a termine i lavori. La sua multinazionale aveva spinto per Acciarino grazie al suo decisivo intervento. In primo luogo quel paese, isolato in una valletta marginale, non aveva le caratteristiche di coesione sociale e vitalità politica che avrebbero potuto creare una forte mobilitazione sociale. In secondo luogo, gli antri delle miniere si prestavano a qualche ‘operazione speciale’ ben occultata da uno smottamento oppure un crollo provocato ad altre. Tonnellate di rifiuti impresentabili giravano il mondo su navi dei veleni. Non per niente, assieme alla concessione della Ferriera avevano ereditato anche quella delle miniere. Si poteva cominciare a guadagnare fin da subito.

“Tra due mesi inizieremo i lavori, che si prolungheranno per alcuni anni. Nel frattempo abbiamo già in gestione una buona parte degli anfratti di Acciarino.”

I due componentiil consiglio di amministrazione fecero un breve cenno di assenso.

“E’ il tuo paese.”

“Il paese dei miei nonni.”

“E non ti vergogni?” l’americano, colletto inamidato e capelli unti di gel lo indagò con lo sguardo.

“Se noi ci accorgessimo di possedere una coscienza”, rispose Enrico, “o se per caso ci capitasse di frequentare qualcuno che la possiede, dovremmo immediatamente decontaminarci.”Fece una pausa ad effetto…

“Ed è per questo che noi facciamo questo mestiere, bruciamo, nascondiamo, riutilizziamo, la cattiva coscienza della gente.”

“Perché, la coscienza è cattiva?” chiese l’altro, il Francese.

“No, è un costo, un figlio costa meno di una coscienza.”

“Dunque noi bruciamo le coscienze.” L’Americano fu colpito da quel ragionamento.

“E’ per questo che, in giro per il mondo, hanno preso a soprannominarci ‘la Geenna’.” Dado sorrise, si compiacque della sua profondità, e passò oltre.

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