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di Mauro Tedeschi

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2° Puntata

 

Quel sabato mattina doveva aprirsi per Nico un week end all’insegna dello svago e della spensieratezza. La primavera era alle porte, perciò niente di meglio che una bella passeggiata verso l’antica Ferriera, luogo della fantasia e della distensione. Durante la settimana il lavoro in fabbrica non era certo appagante, le sere, tra i programmi spazzatura della televisione e i discorsi rimasticati con la consorte, filavano via senza costrutto. Da alcuni anni non frequentava più i bar del paese, chi non beveva vino non era un uomo, ma lui ci aveva impiegato troppo tempo a liberarsi da quella schiavitù. L’unica attività sociale che si concedeva era il sindacato, verso il quale nutriva sentimenti contrastanti di odio e amore. Amore, poiché, in passato, aveva rappresentato la sponda per la sua voglia di protagonismo, odio perché aveva capito che i compromessi, più si saliva nella scala gerarchica, più divenivano insostenibili. Dunque un uomo in bilico, un equilibrio interiore garantito solo dalle fughe nella boscaglia.

Quel giorno, nella piazza del municipio, era apparsa l’automobile esagerata di suo cognato. Una HUMMER grigia, la versione civile dei mezzi di trasporto americani durante la guerra del Golfo. Usava quella macchina, anziché la consueta berlina superaccessoriata, alla stregua di un esoscheletro, quando affrontava un viaggio “lontano dalla civiltà”. Lui era diventato dirigente di una multinazionale dell’energia praticamente dal nulla e al paese ci tornava solo per i funerali.

Incamminato verso la Ferriera, Nico aveva ricevuto la telefonata della sorella che lo avvisava del loro arrivo, così, ottenendone una rispostaccia, aveva chiesto subito chi fosse morto. Una bella seccatura, il cognato, un amico di infanzia che aveva trovato il successo e non si faceva pena di esibirlo davanti agli indigeni.

Da quando avevano cessato di essere ragazzini, l’uno dominante, l’altro gregario, Nico aveva provato per l’altro un freddo senso di inferiorità.

Dopo circa un’ora di cammino il nostro si trovò al cospetto della vecchia ferriera diroccata. Un vasto complesso, circa due chilometri quadrati, di archeologia industriale che occupava tutto l’altopiano. Grazie ad un giro di orizzonte un occhio allenato poteva distinguere gli antri e le caverne delle antiche miniere. Al centro dell‘insediamento il buco nero dell’enorme deposito a cielo aperto del carbone. Solo fuliggine, visto che i valligiani avevano provveduto a ripulirlo per alimentare i propri camini già nel primo dopoguerra, quando la fabbrica aveva cessato l’attività. Solitamente l’altipiano era vuoto, squassato dal vento, invaso da mille piante rampicanti e rari sempreverdi. L’operaio conosceva la strada che portava all’“ufficio”, il laboratorio improvvisato dove teneva un paio di canoe e un gommone con la relativa attrezzeria.

“Desidera?!” La voce era forte, decisa e provocò il risveglio doloroso di Nico dalla fantasia fanciulla, a lungo coltivata, di essere l’unico padrone di quel mondo perduto.

“Questa è proprietà privata!” Il tono era sferzante. Il tizio vestiva una tuta da operaio ma si vedeva lontano un chilometro che il suo mestiere doveva essere un altro. Altri si fecero avanti

Nico si mise a balbettare: “Bla Bla.”

Il tizio, capelli a spazzola e sguardo duro, fece un cenno di commiserazione agli altri, che sorrisero. Evidentemente avevano appena incontrato lo scemo del paese.

“Te…tengo le canoe” gli sembrava di tornare indietro di trent’anni, era come un bambino sorpreso con le mani nel barattolo della marmellata. Si faceva pena da solo.

“Sì, le abbiamo viste le canoe e tutto il resto. Lei non ha alcun permesso di tenere oggetti all’interno della fabbrica…”

Nico non sapeva cosa dire, fino a due minuti prima a nessuno al mondo fregava meno di niente di quel luogo desolato.

“In ogni caso, visto che non vogliamo problemi con i valligiani, le permettiamo di sgomberare le sue cose entro e non oltre una settimana.”

Nico si fece coraggio, a quelle canoe fatte praticamente a mano teneva moltissimo: ”ha idea di quanto tempo ci ho messo a portare la mia roba fin qui? Non c’è strada praticabile…”

“Non si preoccupi, stiamo aprendo la vecchia carreggiabile con un Bulldozer. Una settimana, ho detto, non un minuto di più.” Ciascuno tornò alle sue occupazioni e nessuno si preoccupò più di lui.

L’operaio con la vocazione del canottaggio guardò in alto, verso la teleferica a mano che gli consentiva di trascinare la barca fino al punto di attracco. L’aveva modificata assieme ad alcuni amici, sperò che non gliela mettessero in conto.

Dunque, era finita. Per qualche strano motivo che gli sfuggiva qualcuno aveva deciso di rioccupare la fabbrica. L’unica cosa che gli restava da fare era chiedere perché ma il caposquadra pareva un tipo scostante e di poche parole. Si avvicinò così al più giovane del gruppo che stava fotografando ogni cosa con precisione certosina.

“Cosa farete della fabbrica?”

“Non si preoccupi”, rispose il giovanotto, “Tutta roba lecita.” Nessuno lo aveva messo in dubbio. E il discorso finì lì.

Dunque la mattinata di svago terminò ancor prima di cominciare. Nico discese caracollando per l’antica strada resa impraticabile da frane ed intemperie. I lavori erano in corso. Muso lungo, nella stessa giornata era arrivato suo cognato e avevano occupato la Ferriera.

Nico, detto Acquamen per via del suo passato di alcolista, ad Acciarino non aveva amici, fatta eccezione per Erbavoglio.Questi era il figlio ribelle del farmacista del paese, dedito agli intrugli da erborista ed alla medicina olistica. Suo padre lo aveva dispensato dall’attività di alchimista dopo che aveva avvelenato un paio di clienti con una pozione contro la “depressione da dormitorio” che si doveva patire ad Acciarino. Malattia non rara, per la verità.

L’apprendista stregone viveva in un mondo tutto suo. Ogni qualvolta la farmacia chiudeva o nelle lunghe nottate di turno festivo, trascorreva il suo tempo appiccicato ad internet per cercare nuove soluzioni ai mali di questo mondo. Al vice farmacista Nico doveva molto, lo aveva raccolto lui una sera in cui era completamente ubriaco, e la sua cura, per quanto si trattasse di un intruglio vomitevole, lo aveva certamente aiutato ad uscirne. Più di tutto però, erano stati i lunghi dialoghi su qualsivoglia argomento, il reciproco sostegno, l’amicizia virile. La moglie di Acquamen ne era un po’ gelosa, dato che le voci su Erbavoglio e la sua misoginia si sprecavano. Per l’emaciato professionista Nico era l’unico amico, o forse, l’unica cura “personalizzata” che gli fosse mai completamente riuscita.

“Quanti erano?”

“Cinque o sei, vestiti da operai.”

“Vestiti?”

“Tute troppo pulite, capelli a spazzola, scarponi tirati a lucido. A pensarci bene, sembravano militari.”

“Cosa ci fanno dei tipi del genere alla vecchia fabbrica? I filoni sono esauriti da almeno cinquant’anni. Magari vogliono farne un uso improprio.”

“Nel senso?”

“Che so, una base militare, un centro radar, un poligono di tiro…”

“Sì, un areoporto per dischi volanti…” Nico tendeva a tenere i piedi per terra.

“Qualunque cosa sia, domani farò un salto dal Sindaco, nessuno mi ha parlato di questa cosa!” Erbavoglio si riteneva un’autorità. Era il presidente degli Ambientalisti del paese, la cui assemblea generale si componeva di lui, delle sue tre zie anziane che pagavano la quota in cambio dei suoi elisir e della indomabile figlia del sindaco. Ad ogni tornata elettorale egli si presentava, speranzoso di sedere in consiglio comunale, ma i voti non arrivavano mai alle dita di una mano.

Nico scrollò le spalle “Se è proprietà privata possono fare quello che vogliono…”

“Ma ci sono le leggi!”

“I padroni le leggi le fanno, non le rispettano!” fu il lapidario e populista commento di Acquamen.

Giornata di merda, nel pomeriggio avrebbe dovuto incontrare il suo supponente cognato. Sua madre gli teneva il muso per un mese se non si faceva vedere e poi c’era il problema delle canoe. L’albergo non serviva a niente ma poteva rappresentare un’opportunità.

Sua moglie Alessia era invece contenta di incontrare i parenti, la sua vita sociale era circoscritta ai corsi di ginnastica, alla parrucchiera, ed al cicaleccio sugli assenti che avevano sempre torto. Nico sapeva che, in un lontano passato, la consorte era stata tra le numerose spasimanti di Enrico. Quando l’avvenente stronzo aveva scelto sua sorella, metà del paese si era vestita a lutto.

Sua sorella Cristina era stata una bella e florida ragazza, adesso era solo benvestita. Quella volta all’anno che calavano da Milano portavano sempre qualche regalo. La madre di Nico aveva la cucina ormai zeppa di servizi di piatti e caffettiere di ogni foggia, Alessia di grembiuli, asciuga piatti e presine multicolori.

“E questo per te…” il brizzolato signore, capigliatura fluente, fisico asciutto, occhi lucenti, perennemente abbronzato, elegante oltre il necessario gli porse una bottiglia di vino di un certo pregio. Certo non poteva non sapere che lui era astemio da almeno tre anni e quel regalo costituiva un’orrida tentazione. Lo faceva apposta, per prenderlo in giro. La madre abbassò lo sguardo, la sorella fece il sorriso ebete che l’aveva resa celebre, la moglie ricevette la bottiglia nelle sue stesse mani, togliendolo dall’imbarazzo. Lo ringraziò per lui mentre lo pregava con gli occhi di evitare commenti.

L’ospite di riguardo proseguì come se nulla fosse: “Dunque tutto bene,Afra.”

“Bene, ma i nipoti, quando me li porti?” Loro i nipoti glieli avevano dati, distanti ma esistevano. Le loro fotografie campeggiavano nel salotto, non quella di Nico.

Intervenne la sorella: “Nel fine settimana hanno le partite di calcio, i corsi di Yoga, ma tu puoi venire quando vuoi. Lo sai bene.” Quell’invito non era rivolto a tutti i presenti.

Il manager tossicchiò “Ci vedremo più spesso, prossimamente…”

“Ah sì?”, rispose Afra, “lavori da queste parti?”

“Sì, un affaruccio…”

A Nico si drizzarono le antenne.

“A proposito, Nico, spero che i miei ragazzi non ti abbiano messo paura, su, alla ferriera.” Sorrise di nuovo, quel sorriso condiscendente lo conosceva bene, lo aveva sopportato mille volte da ragazzino.

L’operaio decise che la sua misura era colma, e che, oltre ai soliti monosillabi, era il caso di adoperare qualche altra parola.

“Dunque ci sei tu dietro quei lavori.”

“La mia azienda, io faccio solo il Dirigente.” La D di dirigente era alta quasi un metro.

“Spero che non porti disgrazia.”

Il sorriso del cognato adesso era meno brillante.

“Porto lavoro e opportunità.”

“Tu non sei un uomo che può regalare qualcosa di utile” il riferimento alla bottiglia era chiaro.

“Comunque le canoe te le faccio portare dove vuoi, così ti levo il disturbo.”

Nico lanciò alla madre uno sguardo implorante.

Lei comprese: “dell’albergo non se ne parla!”

L’operaio evitò di ricordarle per la centesima volta che quella stamberga era solo una palla al piede.

Afra si fece coraggio “Piuttosto…se devi ospitare degli operai, Enrico. Non ho la licenza , ma per i primi tempi…”

Il manager allargò un ampio sorriso, “Ti ringrazio, Afra, ma al momento c’è solo una squadra di rilevazione, e arrivano in elicottero dalla città, visto che le strade non sono ancora del tutto praticabili.”

“Arriveranno molti lavoratori, no?...”

“Non lo so, siamo ancora in fase preliminare.”

“Ma di cosa si tratta?” chiese Alessia, ingenuamente.

Enrico, detto in paese Dado per un’antica inclinazione al gioco d’azzardo non rispose a quella domanda, e, ad osservarlo bene, un velo di preoccupazione parve attraversare il suo viso.

Nico, come faceva di solito, prese la porta quasi subito, “Tolgo il disturbo.”

Enrico, cosa che non faceva mai, lo accompagnò all’uscio, e, con fare meno arrogante gli richiese: “Dove te le faccio portare le canoe?”

“Bruciale, adesso non so più cosa farmene.”

“Le faccio scaricare nel vecchio magazzino dei miei, poi vedi tu.”

“Come mai mi usi tale gentilezza? Coscienza sporca?”

“Non rompermi i coglioni, Nico, lasciami perdere. Pensa alla salute.”

“E’ a quella che sto pensando. Ogni volta che arrivi tu muore qualcuno. Cosa farai morire questa volta?”

Dado, rabbuiato, bestemmiò.

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