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di Mauro Tedeschi

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13° Puntata

Quella sera di autunno Nico non riusciva proprio ad addormentarsi. Il vento fuori soffiava forte e lui si sentiva sempre meno padrone della propria vita. Herma sarebbe arrivata solo l'indomani. La gente che partecipava a quei corsi che parevano essere stati redatti da Peter Pan per “l'Isola che non c'è”, non si tratteneva mai per il fine settimana. Restava solo Andersen, il professore paffuto e un paio di assistenti, che alloggiavano al primo piano. Afra che poteva essere un ottimo cane da guardia, attenta ad ogni rumore, non dimorava mai in albergo, anche se quella sera avrebbe parteggiato per i ladri. Allarmi non ce n'erano, l'unico luogo veramente controllato, se non altro chiuso ermeticamente, era la sala di Kimera, ancora avvolta nel suo misterioso sarcofago. All'interno dell'involucro di cartone e polistirolo poteva dimorarvi qualunque cosa, Herma avrebbe dovuto fornirgli una bella spiegazione, o magari, finalmente disvelarne la forma.  Fuori, gli uomini di Dado erano pronti. Erano stipati dentro un grosso furgone e ripetevano ossessivamente le azioni da compiere mentre si impiastricciavano la faccia con il nerofumo. Non si trattava di conquistare una caverna di Tora Bora ma le procedure erano sempre le stesse. Gli incursori erano cinque, tutti massimi esperti delle perquisizioni “bianche”, ovvero quelle in cui la vittima non si sarebbe accorta di nulla, se non, più tardi, delle conseguenze. L'obiettivo era quello di fotografare la “macchina” e poi di rimettere tutto al suo posto. Il fatto che fosse ancora imballata non rappresentava un problema per loro ma un'opportunità, avrebbero così potuto fotografare l'intero contenuto, eventuali indirizzi di spedizione e manuali di utilizzo inclusi. La Password per la porta blindata se l’erano procurata per tempo, i professori sono distratti e dimenticano in giro le macchinette, simili a scatole di fiammiferi, che formulano una combinazione ogni quarto d'ora. Clonarne il software presso qualche hacker maneggione era stata solo questione di prezzo. Qualcuno l’aveva smarrita, in settimana, ma nel giro di mezza giornata era stata opportunamente ritrovata da Afra, la nonna di cappuccetto rosso.  Gli intrusi entrarono da una finestra debitamente lasciata aperta, al primo piano un bastone della misura giusta garantiva che non si richiudesse. Fare irruzione fu un gioco da ragazzi, i rilevatori per i sensori di calore, pressione e raggi ultravioletti fornirono esito negativo. Andrew si rilassò. Entrarono nella cripta utilizzando per orientarsi solo una torcia elettrica con fascio di luce ad alta intensità. Una volta digitato il PINN la porta blindatasi aprì con un debole “click”. Quei tipi sapevano lavorare in team, togliere l'imballo fu questione di un quarto d'ora. Kimera appariva un monolite nero di metallo rugoso. Al centro era impresso un simbolo che uno dei cinque, che veniva da Parigi, riconobbe come la Stige, il mostro di pietra che osserva disincantato il mondo sulla cattedrale di Notre Dame. Il rilevatore di radioattività, preso in prestito alla miniera, restituì valori nella norma. Nello stesso momento, due piani più in alto, Nico si chiese frustrato perchè non potesse aprire una piccola fessura nel cartone che avvolgevaKimera e vedere finalmente quello che c'era sotto. Chi poteva impedirglielo? Magari sul retro, dove si sarebbe notato di meno… Era curioso, assolutamente curioso, forse gli sarebbe bastato infilare la mano in qualche pertugio e cogliere la consistenza del materiale. Era un operaio metalmeccanico, un metallo, una lega, poteva coglierli al tatto. Si ritrasse deciso dal letto, infilò le ciabatte, e prese con sé la macchinetta per la formulazione della Password. Cercò di fare meno rumore possibile e si avviò quatto quatto verso la sala del seminterrato, era certo di essere l’unico, quella notte, ad avere cattive intenzioni. 

Dunque esisteva! Andrew accarezzò ammirato il marchio della Stige con la mano e si rese conto che era in rilievo. Adesso doveva aprirla, ma non sembrava un compito facile. Togliere l'imballo era stata un’azione di routine, l'avevano tagliato ai quattro lati con uno stiletto sottile e liberato con molta cura, ricollocare il tutto non sarebbe costato loro più di mezz’ora. Ma come si apriva quel cubo di metallo nero che sembrava uscito dal back stage di un film di Stanley Kubrick? Nessuna serratura, nessun pannello di controllo visibile alla luce delle torce. Un telecomando? Forse, ma non si vedeva traccia di maniglie o fessure particolari. Lo girarono a fatica, sul proprio asse, pesava parecchio, poi lo esaminarono da ogni lato, niente da fare, sembrava un pezzo unico. Alzarono Kimera facendo leva con i piedi di porco che si erano portati e puntarono le torce di sotto, niente. Per un attimo il capo della spedizione ebbe la tentazione di portarsela via. Non c'erano telecamere, almeno in apparenza, potevano addirittura passare dal portone principale. Poi desistette, avrebbe dovuto lasciare a piedi i suoi compagni o potuto sporcare per terra, un’azzardo che Dado gli aveva intimato di evitare. C'era troppo buio per un esame più approfondito, quella “cosa” non era troppo sorvegliata perchè, evidentemente, si sorvegliava da sola!

Uno degli intrusi aveva il compito di sentinella e si era nascosto all’ingresso del seminterrato. Comunicò la presenza di un pericolo potenziale con un beep sulla radio appena percettibile, accompagnato da un segnale luminoso. La squadra era sperimentata, ogni tipo di comunicazione possedeva un proprio significato e quella stava a significare: “uomo solo non armato”. Il caposquadra si risentì un poco, scattò l’ultima fotografia e fece segno a tutti di prepararsi ad uscire e sguainare le armi. Era inutile ricomporre il pacco, se il visitatore era diretto nella ‘cripta’ era solo questione di secondi. Fuori, le luci delle scale vennero accese, ciascuno trovò una nicchia dove nascondersi, la porta era stata richiusa per impedire la vista dall’esterno, quel tipo doveva essere un nottambulo impiccione. Non capì subito, Nico, perché il ‘sarcofago’ fosse stato rimosso, anzi ne rimase estasiato, poi accese la luce, per un attimo, perché un cazzottone, preso in pieno viso, gliela spense.

La notizia che Kimera, o un simulacro di essa, esistesse veramente, fece presto il giro dei piani alti della Corporation ‘Geenna’. La frustrazione divenne palpabile quando fu chiaro che i professionisti inviati ad accertarsene non erano stati in grado di scendere nei particolari. La foto della Stige era passata di mano in mano, se qualcuno avesse voluto costruirne il mito quello era il modo più efficace. La paura più grande degli alti papaveri della ‘Ditta’, più ancora ditrovarsi di fronte alla realizzazione pratica del processo di fusione fredda, era la pubblicità e l’attesa mediatica che il progetto Kimera aveva generato nel popolo dei blog, dei media specializzati e in una parte della comunità scientifica. Se Chron e gli altri avessero dimostrato che funzionava, apriti cielo, ma questo era il meno, sapevano da anni che era possibile. Non conveniva ai padroni di questo mondo che l’homo consumens sapesse, perciò quella ‘aspettativa’ era stata abrasa dalla storia, per il momento.

Gli esperti consultati, fisici, chimici, matematici apparivano assai dubbiosi, non avevano mai visto qualcosa di simile, ma il fatto che non potessero smentire o confermare fu interpretato come un segnale di verosimiglianza. C’era poco da fare, ci si doveva infiltrare più a fondo nella rete del professor Chron, e, nonostante le insistenze di Marius, il capo della sicurezza, l’incarico fu assegnato a Dado quello che, notoriamente, sapeva: “aprire ogni porta.”

Cosa c’era nelle foto che avevano portato il prete di Acciarino verso la morte?

Era verso la fine della guerra, il giovane Celestino abitava, assieme alla sua numerosa famiglia, in una casa di Luminaria. La professoressa del tavolo diciannove gli dedicava scampoli del suo tempo, dato che era l’unico bambino disposto a giocare con suo figlio, un tipetto assai difficile, viziato perché trascurato e ricompensato della sua frustrazione da regali costosi quanto futili. Si era maritata troppo giovane, la professoressa sua madre. Rimasta vedova con un bambino piccolo a zavorrarla, aveva scoperto la vita grazie ai soldi del marito. L’amichetto di Celeste, futuro padre di Dado, era un bambino chiuso ed irascibile. Sua madre ripeteva sovente “Non voglio che il giovane Giulio faccia vita d’albergo”, perciò passava una piccola retta a una brava donna del paese, parente di Celestino e se ne disinteressava per inseguire le sue improbabili storie decadenti. I tedeschi ed i loro alleati repubblichini erano in ritirata ma, sebbene la guerra sarebbe finita di lì a pochi giorni, gli eccidi si perpetuavano, specialmente nella fascia pedemontana, dove operavano diversi gruppi partigiani. Per decenni, poi, le varie fazioni in campo si sarebbero rimbalzate la responsabilità di attacchi e rappresaglie e molti avrebbero formulato, a posteriori, giudizi più o meno feroci. La guerra non ha regole cavalleresche, la guerra è guerra e non guarda in faccia a nessuno. Se uno ti aveva ucciso un fratello o una figlia, quando era al potere, magari carico di livore e arroganza, nella situazione di interregno che si sarebbe venuta a determinare, la vendetta era l’unico, e rozzo, strumento di giustizia sommaria.

Per un certo periodo, durante l’ultimo periodo della guerra, la ferriera era diventata anche un campo di detenzione e tortura. Il padre di Celestino, da quel momento, era stato licenziato e campava grazie a qualche lavoro a giornata. La mamma recitava novene tutti i giorni per i figli più grandi, prigionieri in Germania. Per qualche tempo, nell’inverno del 1944, in famiglia accudirono e sfamarono due piloti britannici, che erano stati abbattuti sull’altipiano, condotti fin lì dai partigiani rossi. Il fatto era gravissimo e al bambino fu intimato di non farne parola con nessuno. I due inglesi erano socievoli, anche se uscivano dalla cantina non più di un’ora al giorno. Gli avevano insegnato poche parole tipo “Thank You”, o “Bye Bye”.

La notizia dei due piloti in fuga era passata di bocca in bocca, qualunque indizio doveva essere segnalato ai fascisti del luogo, c’era un premio in denaro di mille lire per chi li avesse fatti catturare. Una domenica il bambino non credette ai propri occhi nel vedere la professoressa venirli a prendere a casa della parente per portarli entrambi a passeggio. La zia di Celestino, grazie alla retta del piccolo Giulio, gli assicurava un ricco piatto di minestra ogni volta che l’andava a trovare. In fondo, il giovinetto sopportava quel ragazzino arrogante e dispettoso solo per quello, do ut des.

Parlarono del più e del meno, il piccolo Celeste era affascinato da quella donna così conturbante. Occhi neri, profondi, lo sguardo sempre svagato, i vestiti dai colori vivi, sgargianti. La scuola era chiusa, ripassarono le tabelline poi lessero un brano di una favola, un tale Pollicino che i genitori non volevano tenere più. Celestino singhiozzò di nascosto.

“Giulio mi ha detto che conosci l’inglese.” Celestino si stizzì, si era pavoneggiato, solo una volta, quando l’altro aveva esibito il suo smozzicato frasario tedesco, appreso dai cinegiornali di propaganda proiettati alla casa del fascio e da qualche amico occasionale della madre.

“Solo qualche parola.” Il futuro prete aveva implorato l’amichetto di tenersi il segreto. Il bimbo non comprese il motivo del cambio di tono di voce della donna.

“Quali parole?”

“Thank You, Bye Bye, Hallo…” Giulio lo precedette, era un martello.

Un breve silenzio, poi arrivò la domanda che avrebbe cambiato la vita sua e di molte altre persone.

“E dove le hai imparate, ascolti Radio Londra? Lo sai che è proibito, rischi di mandare i tuoi genitori in galera...” Il tono questa volta era imperioso e non ammetteva divagazioni. Celestino stava per cedere, gli occhi di Giulio si chiusero in una fessura malvagia, le mille lire erano a portata di mano. Tale padre…

Herma arrivò ad Acciarino pochi minuti dopo che Nico era stato trovato riverso nella stanza di Kimera. Apparve subito chiaro al professor Andersen ed ai suoi assistenti che qualcuno aveva profanato la ‘cripta’. Il professore si preoccupò più della Stige che del ferito. Gli altri chiamarono un’ambulanza. Il monolite fu subito ricoperto.

“Nico!” la donna era molto agitata. “Nico che ti è successo?”

Acquamen si risvegliò al timbro suadente e familiare della sua voce.

“C’era qualcuno qui!” Era ancora disteso per terra.

Lei prese il volto di lui tra le braccia, l’occhio era irrimediabilmente annerito dall’ematoma. “Come stai, chi ti ha aggredito così, amore?”

“Herma cara, una parola che vale ben di più di un occhio pesto, che bello, amore…”,sorrise per quello che gli riusciva.

Il professor Andersen, verificato l’integrità di Kimera, si occupò finalmente di lui: “Quanti erano?”

“Almeno uno, quello che mi ha steso.”

“Come hanno fatto ad ottenere la password?”

Tutti si voltarono verso Afra che si era tenuta in disparte, schifata per la scena così intima tra suo figlio e la straniera.

“Stupido…”pensava “Sei solo uno della collezione, e neanche il migliore.”

L’anziana direttrice si strinse nelle spalle e finse di non capire, certo che Dado poteva risparmiarsi tutto quel rumore, in ogni caso aveva mantenuto la parola sulla pulizia. Su, nella stanza al primo piano dove aveva lasciato la finestra aperta non c’era la minima traccia di orme.

Nico dopo essere stato sommariamente medicato dagli infermieri del pronto intervento rifiutò il ricovero e fu accompagnato nella sua stanza, la numero trentadue, dove Herma rimase sola con lui. L’ex operaio era disteso sul letto.

“Niente da dirmi, Herma?”

“In che senso?”

“Che guaio mi avete portato in casa? E’ pericolosa quella cosa là sotto?”

“In un certo senso, sì.” Lo accarezzò affettuosamente sulla guancia.

“Non era prevista dal contratto, mia madre è molto preoccupata.”

“Tua madre si preoccupa solo di sé stessa.” Herma fu sorpresa dalla durezza del proprio tono di voce.

“Esigo di sapere da te perché qualcuno è entrato nell’albergo e non ha esitato a colpirmi solo per vederla!”

Herma tacque per un momento, parve incerta sul da farsi. Si affacciò alla finestra poila richiuse. Dalla borsetta tirò fuori un piccolo apparecchio nero, dotato di antenna e si mosse per tutta la stanza.

“In questa camera nessuno può ascoltare.” Sentenziò.

Nico rimase esterrefatto: “Cosa vuol dire in questa camera? E cos’è quell’apparecchio che stringi nella mano?”

“E’ un rilevatore di microspie.”

“E tu sei veramente un architetto?”

Lei lo guardò con un mezzo sorriso e un velo di tristezza parve attraversarla.

“Ti ripeto, Herma, non hai niente da dirmi?”

“Sono mortificata per quello che ti è successo, non era previsto.”

“Mentre dei ladri che entrano in albergo in piena notte sì, vero?”

“Non mi crederai, ma noi li aspettavamo.”

Nicò si tirò su dal letto, adesso il dolore alla testa si era fatto pulsante, ma sopportabile. I pensieri che lo attanagliavano erano tetri. Diede voce ai suoi peggiori sospetti: “Voi non siete l’esercito della salvezza, vero?”

“Le nostre intenzioni sono buone, Nico. Il punto è che l’invenzione del professor Chron ci è sfuggita di mano.”

“In che senso?”

“Beh, all’inizio era solo un’ipotesi di lavoro, una pura dissertazione universitaria.”

“Quella sull’energia inesauribile?”

“Esatto. Ci siamo chiesti, in una delle riunioni della ‘scuola’ quale fosse la fonte più valida che potesse sostenere il progresso dell’umanità per l’intero millennio. Abbiamo lanciato un concorso di idee che ha coinvolto decine di colleghi. Sono arrivati diversi progetti ma uno ha prevalso su tutti, il più economico, il più geniale, il più assurdo.”

“Chron?”

“Proprio quello coordinato da lui.”

“E i soldi? E’ vero che un riccone vi ha regalato un fiume di denaro?”

“Sì, è vero. Quando si viene a sapere che un focus, un trust di cervelli di levatura internazionale si mette insieme per sviscerare un determinato argomento economicamente sensibile, quelli dell’ambiente sollevano le antenne.”

“Perché l’avete portata qui?” Nico era sempre più turbato.

“Loro pensano che abbiamo la pietra filosofale e in un certo senso, questo è vero.”

“Cosa vuol dire?”

“Vuol dire che vogliamo si convincano che è vero, ci siamo sempre rifiutati di mostrar loro i nostri progetti, ma è giunta l’ora di trovare un compromesso.”

“Compromesso? Con quei serpenti?”

“Ci siamo resi conto che noi non possiederemo mai i mezzi per portare a termine una realizzazione sulla fusione fredda, e, a dirti la verità, fino ad oggi non ci abbiamo nemmeno provato.”

“E allora?”

“Allora abbiamo messo in piedi un teatro, gli abbiamo rifilato la Stige sotto il naso. Come il cavallo di legno ai piedi delle mura di Troia.”

“Ma è solo un cubo di metallo.”

“No, è molto di più, è un autentico sogno.”

“Un sogno?”

“Sai cosa dice il professor Chron, Nico? Che la vera forza che ha fatto scendere gli uomini dagli alberi, che li ha fatti solcare gli oceani e lo spazio profondo è la forza del sogno. E’ la capacità di immaginare cose che non esistono ancora e poi affrontarle. Chron, uno dei più grandi esperti di comunicazione a livello mondiale, ha creato il mito, l’aspettativa di Kimera, ed ora è disposto a venderla.”

“Se ho capito bene voi volete vendere loro un sogno, e questa notte, gli avete permesso di osservare la merce.”

Herma sorrise: “Pensano di essere furbissimi, abbiamo monitorato tutte le loro mosse, a partire dai comportamenti di tua madre.”

“Lo fate solo per i soldi?”

“No, nei fatti non è mai esistito un progetto, ma solo il suo simulacro. Kimera, appunto e il nome non è stato scelto a caso. Chron applicando le regole più moderne della pubblicità, dell’inganno mediatico, l’ha resa reale.”

Prese fiato poi, di fronte alla sua espressione incredula lo sfidò: “Esiste Plutone Nico?”

Acquamen, malgrado fosse decisamente frastornato rispose: “Certo che esiste!”

“E tu ci sei stato? L’ho hai visto?”

“No, ma ne ho letto, l’ho visto alla televisione.”

“Appunto. Una cosa esiste perché lo dicono gli altri e, più ancora della sua materialità, fondamentale è insinuare nel consumatore la sua necessità, il suo bisogno. Se mai il consumatore ottiene la piena soddisfazione, il consumatore è morto. Il nostro scopo è sempre stato quello di trarre dalle stesse Corporation che deturpano l’ambiente, l’energia per cambiarlo. Attraverso il progetto Kimera abbiamo aperto un fronte ed una speranza che loro, in tutti i modi, vogliono cancellare.”

“E secondo te, loro se la bevono? Senza una prova? E’ come vendere la fontana di Trevi!”

“Loro non uccidono un oggetto, ma la speranza mediatica, l’attesa che esso esista. Kimera è un monoblocco di metallo, non si può aprire ma solo fondere, non ho la minima idea di cosa mai ci stia nascosto dentro, anche se ho la certezza che qualcosa ci sia. E’ una questione complessa. Noi abbiamo deciso di investire tutto in formazione su stili di vita e risparmio energetico, siamo convinti che non sarà una macchina o una tecnologia a cambiare le sorti di questo mondo ma un’elaborazione dello spirito umano. C’è chi dice che le civiltà siano figlie delle forme di energia che le muovono, noi pensiamo il contrario, ovvero che siamo noi a scegliere grazie al nostro sistema di valori, perciò venderemo Kimera ai suoi stessi nemici.”

“E il mio occhio nero?”

“Ti ripagherò subito per il disagio.” E lo baciò appassionatamente.

Il maresciallo dei carabinieri, giunto in meno di un’ora, non appariva troppo convinto. Perchè mai qualcuno doveva entrare nell'albergo nottetempo per aggredire il povero Nico, senza poi rubare niente? La faida tra comitato anti inceneritore e dirigenti locali della 'Geenna' continuava ad espandersi senza esclusione di colpi? Ad irruzione corrispondeva un'altra irruzione? Era quasi certo, il sottufficiale, che la ricostruzione che gli avevano propinato, ovvero una colluttazione avvenuta nel bar mentre Nico cercava qualcosa da bere fosse una grossa bugia. Sapeva bene che Acquamen non toccava alcol da anni ed ogni camera era fornita di frigobar per le bibite. “Abbiamo rimesso a posto” era stata la pronta risposta ottenuta dagli inservienti all'ovvia domanda “come mai non si vedono segni di colluttazione?”

Afra, dal canto suo, ripeteva di essere estranea a quella vicenda, di essere arrivata quando tutto era stato risolto, la sua risolutezza nel chiamarsi fuori mise ancora più in sospetto il militare. Nico fu molto vago, si limitò a dire che, mentre scendeva le scale, qualcuno gli aveva rifilato un gran pugno. Il militare a quel punto chiese di dare un’occhiata in giro, Andersen si offrì di accompagnarlo, e mentre lo affiancava gli spiegava finalità e scopi della scuola e della fondazione che la sosteneva. Finse di ascoltare mentre cercava di cogliere con lo sguardo il minimo particolare sospetto.

Quando il maresciallo chiese di scendere nel seminterrato il professore fu molto meno disponibile.

“Preferiremmo di no.”

“Come mai, avete qualcosa da nascondere?” e intanto scendeva.

“E’ la zona dove teniamo i progetti più segreti, le nostre regole impediscono agli estranei di accedervi.” “Perciò avete qualcosa da nascondere...”

Si trovarono davanti alla porta blindata. Fu chiaro che la passeggiata finiva lì.

Il maresciallo non aveva gradito il suo trasferimento in un paesello di provincia e si era vendicato dedicandosi con eccessivo entusiasmo alla forchetta. Mentre usciva dal ‘Paradiso’ fu colto da un sottile moto di soddisfazione. Ad Acciarino stava succedendo qualcosa, qualcosa che travalicava le solite beghe di periferia. Una volta giunto in caserma chiese al brigadiere di convocare, per una chiacchierata amichevole, i due cognati: Nico ed Enrico, detto Dado. Se intendevano proseguire nella lotta tutti e due avevano qualcosa da perdere, l’uno il cantiere, l’altro il ‘Paradiso’. Quando le forze dell’ordine si ostinano a cercare qualcosa, facilmente la trovano. In quel caso il maresciallo aveva il sospetto di sapere dove cercare, da una parte e dall’altra.

Dado si era dotato di un suo personale gruppo di professionisti della “sicurezza”. Era sicuro che Marius, il capo delle guardie della Corporation, si sarebbe mangiato le mani nello scoprire che la prima foto ufficiale dello strano macchinario chiamato Kimera, favoleggiato su Internet e dalla stampa specializzata, l’aveva in mano lui. Enrico non era diventato dirigente per caso, una delle sue regole fondamentali era che si doveva osare sempre, improvvisando se necessario. C’era quella Herma, la tizia piena di sè che ronzava intorno a suo cognato. Bella, grintosa, mezza età ben portata, poteva essere occasione di una tripla soddisfazione. La prima per la ‘Geenna’, dato che avrebbe potuto strapparle informazioni importanti, la seconda per rifilare un’ulteriore umiliazione a quell’ostinato di Nico, la terza per sé medesimo, dato che un collezionista non rinuncia mai ad un pezzo originale. Trovare il cellulare di lei fu un gioco da ragazzi, poi tutto stava nell’essere credibile, nel giocare bene le proprie carte. La libertà di movimento di Dado era conseguenza del rapporto del tutto particolare con la moglie del CEO, il capo dei capi. Marius, che gli era teoricamente superiore, almeno fino a quando la signora non aveva ripetuto stridula: “Enrico non si discute, Enrico è il migliore di tutti!”, attendeva il prossimo passo falso del rivale con fredda determinazione. Era stato messo in difficoltà alla ferriera di Acciarino, prima con i comitati, poi con la morte del prete, aveva dovuto subire la perdita di Andrew, uno dei suoi collaboratori più esperti e aveva assistito impotente alla irruzione del ‘Paradiso’. Era decisamente troppo.

Dado era già un passo avanti. Quando Herma aveva tergiversato con Nico nel rivelargli i suoi impegni della sera, il sospetto aveva incendiato il povero Acquamen. “Ho un appuntamento con la concorrenza”, si era limitata a dire e il tono della voce non ammetteva alcuna replica.

Da tempo il gruppo di Kimera attendeva che il pesce abboccasse all’amo, e, anche se il tipo che l’aveva contattata non era il numero uno, ciò stava a significare che gli squali tigre erano nei paraggi. Il passatempo di un gruppo di professori era diventato un intrigo internazionale, ed ora il simbolo che lo materializzava doveva essere cancellato prima di generare dei danni, anzi venduto, perché a tutto ciò che muove le emozioni degli esseri umani viene attribuito un prezzo.

Non si sentiva tranquilla l’architetto Herma, pensava al suo studio di S.Francisco, nei pressi della vecchia fabbrica di cioccolata Ghirardelli’s. Quando era in difficoltà si rifugiava lì con il pensiero, in quel luogo erano maturati i suoi successi, gli incontri più elettrizzanti. Si era vestita da gran sera, e, malgrado avesse fatto di tutto per evitare di incrociare il suo compagno, così adorabile, annegato in quel vestito blu troppo largo, lo sguardo innamorato, lui l’aveva aspettata alla Hall.

“Allora si può sapere dove vai così elegante?”

“Ho un appuntamento di Lavoro…”

“Qui?”

“No giù in città…”

Nico mise su il muso e l’accompagnò fuori, dove Herma era attesa da un’auto della ‘Ditta’.

Acquamen pensò, nella sua insicurezza, che se lei avesse mai incontrato Dado non sarebbe più stata la stessa cosa. Venne attraversato da una fitta di gelosia. Pensò anche, mentre l’auto si allontanava, che se lui l’avesse mai toccata lo avrebbe certamente ammazzato. Così, semplicemente. Questo proponimento gli regalò un po’ di sollievo, ma solo per qualche minuto.

Dado aspettava la donna come un caimano attende la preda. Dal punto di vista femminile era quel tipo di uomo che fa deragliare, tanto bastardo quanto attraente. Bello era bello nel suo doppiopetto, ogni capello al suo posto, il sorriso più accattivante dell’emisfero nord. Ogni particolare della saletta riservata del ristorante più alla moda era stato predisposto per compiacerla, ogni piatto studiato per stupirla. Quando si presentarono Herma comprese il perché Nico lo soffrisse tanto, si trovava davanti Dorian Gray in persona.

Inutile negarlo, ne era rimasta colpita.

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