PROFILO
BIOGRAFICO
Erwin
Maier nasce a Casteons di Paluzza il 30 maggio 1971.
Inizia a lavorare come meccanico, ma il suo vero amore è lo sport.
Comincia con lo sci, poi passa all’atletica e all’alpinismo, quindi decide
di entrare nell’esercito. Viene scelto dai Carabinieri e si reca a Bologna
alle dipendenze del Gruppo sportivo dell’Arma. Entra nel Soccorso Alpino dei
Carabinieri di Cortina d’Ampezzo, facendo dapprima soccorso piste sulle Tofane
e sul Cristallo, quindi operando per tutto l’arco dell’anno come soccorso in
montagna.
Amante dei monti, di tutti i monti, apre una via denominata «Nei secoli
fedele» sull’Everest, dedicandosi così completamente all’alpinismo.
Pur ancora giovane, è già molto esperto di questa pratica. Erwin apre
nuove vie e ferrate e, quando il presidente della Repubblica Scalfaro fece
visita a Timau, l’alpinista-carabiniere volle salutare l’evento scalando il
Ganzschpiz e fissando, su una placca, il Tricolore. Erwin, con i suoi colleghi,
compie escursioni in tutto il mondo, anche sul tetto del mondo, sugli ottomila
dell’Everest dove, suo malgrado, trova il modo di esprimere il suo carattere
altruista e deciso.
E’ il 1995 e sull’Himalaia si scatena l’inferno. Mentre erano
intenti ad aprire una nuova via sulla vetta del Lobuche Pek, nel gruppo
dell’Everest, a quota 6119 metri, molti alpinisti furono sorpresi da una
terribile tempesta di neve. Una cinquantina di morti; ma Erwin e i suoi
commilitoni prendono in mano i soccorsi, salvando diverse vite umane, incuranti
del pericolo che loro stessi correvano.
«Al verificarsi di una grave calamità naturale, che coinvolgeva
numerose persone sulla parte alta della valle del Khumbu, dapprima su sua
iniziativa e poi su richiesta dell’Unità di crisi del Ministero degli Affari
esteri italiano, si prodigava in condizioni ambientali estremamente difficili,
con spiccato coraggio e singolare perizia in estenuanti attività di ricerca,
soccorso ed assistenza alle popolazioni colpite dalla tragedia, anche a rischio
della propria incolumità personale, ricevendo lusinghieri apprezzamenti, che
contribuivano ad elevare anche all’estero il prestigio dell’Arma dei
Carabinieri».
Erwin, con due colleghi di cordata, Walter Nones e Nicola Cemin, era
stato insignito della medaglia d’argento al valore dell’esercito e
l’encomio solenne.
Il primo agosto del 2000, sulla parete nord dell’Eiger in Svizzera, una
scarica di sassi tronca improvvisamente il suo volo. UNA
GIORNATA IN PIENEZZA Pomeriggio del 2 settembre 2001; la gara di corsa in montagna «Il Volo dell’Aquila-Memorial Maier Erwin» era terminata da alcune ore.
Sceso da Pramosio, leggermente stordito dal cumulo dei sentimenti, me ne
stavo davanti al Bar «Cin Cin» di Paluzza, con un gruppo di giovani
carabinieri di Cortina d’Ampezzo, colleghi di Erwin. «Tutto mi piace di qui,
anche se magari non tutto è bello», pensavo tra me e me, vagando con la mente
tra riflessioni e osservazioni, anticamera delle prime.
Due carabinieri erano seduti sul gradino dell’atrio del caseggiato, in
cui s’apre il Bar, e uno m’invito al suo fianco; ero un po’ perplesso,
avevo l’impressione di concedermi un’eccessiva confidenza, ma la stanchezza
ebbe la meglio sulla ritrosia. La posizione da seduti era piuttosto scomoda; ma
stare lì, affiancati, offriva la piacevole sensazione di una protezione
reciproca. Invogliava a confidarsi. Da prima parlammo dei piatti tipici della
Carnia, in un tentativo poco riuscito di cultura culinaria. Fra una
considerazione e l’altra sorseggiavamo dell’ottimo vino, offerto ora
dall’uno ora dall’altro dei presenti; al bicchiere di Fragolino, che non era
il primo, fece sèguito un secondo, un terzo; qualche altro, diciamo così, per
non recar scandalo.
E intanto, dentro di noi, c’era un accumulo fitto di nuvolaglia
tempestosa, una mano pesante e cattiva tentava di toglierci il respiro.
Sentivamo il bisogno, insistente, di non cedere al rimpianto, di pensare a tutto
fuorché a lui; ma era lui, Erwin, nel pensiero di tutti noi, avvolto e in
qualche modo abbracciato da una dolcissima nostalgia. Pochi passi più avanti,
sulla piazza, suonava la banda di Forni Avoltri, la seguivamo con sbadata
indifferenza e qualche applauso rassegnato, tutto intenti al canto della voce di
lui nell’eco del cuore, incapaci di ammettere il silenzio delle sue labbra.
Annottava, e ce ne stavamo ancora lì, timorosi di staccarci.
Oh, le tenebre della notte: quelle, quelle non mordono qui, alla gola!
L’animo dilaniato dal buio della sua assenza, i ricordi farsi fragili e forti
come fiammelle, che ci consentivano di ritrovarci attorno ad essi e ad esse,
focolare di ciò che parlava di lui, unico spazio in cui sentire un po’ di
calore e la sua mano carezzevole, sul cuore, sulla gola, sugli occhi, come a
suggerirci: «Suvvia, non piangete!».
E intanto era silenzio, attorno a noi, infinito silenzio! La piazza
centrale di Paluzza veniva attraversata dalle prime brezze di una notte di luna
piena, pur affascinante, e si faceva deserta. E noi, sempre lì, sempre più
avvolti di solitudine, seduti sul gradino di un atrio sconosciuto, incerti se
chinare il volto a terra o levarlo, speranzosi, al chiarore celeste,
attraversato dal riflessi di misteriose quanto indifferenti armonie, che
andavano perdendosi lontano.
Avvertii il bisogno, brusco, di interrompere quell’incantata tristezza.
Con un balzo fui in piedi e presi a gironzolare per la piazza, senza impazienza
e senza interessi. Ora più discoste, ora più vicine, mi giungevano le voci
della conversazione scherzosa dei giovani carabinieri; essi sembravano dire: «Erwin
ci vorrebbe così». L’aria fresca della sera era attraversata dalle loro
divertenti e nitide trovate umoristiche, nei caldi termini della bella gioventù.
Ci sentivamo rapportati da una profonda sintonia, da una specie di fraternità
spirituale; gli amici, del resto, sono i fratelli che nascono nel grembo del
cuore.
Un’intuizione m’attraversò la mente e mi volsi ad osservarli, quasi
per confermarla: «Sì, stanno dando a sé stessi e a me, a questa comunità,
un’altissima testimonianza di amicizia. Continuano a posticipare il momento
della partenza, quasi vinti da un ineffabile bisogno di restare nel paese dello
stimato amico comune!»:
Alla spicciolata, sembrò giungere il momento scherzoso e mesto del
saluto finale e dell’arrivederci a Cortina o a Paluzza. Ma ci fu chi avanzò
l’ennesima proposta: «Perché non andiamo a prendere un trancio di pizza?»,
e il gruppo, anziché sciogliersi o sfilacciarsi, si trasferì di peso qualche
metro più sotto, nella prima pizzeria a portata di scarpe da ginnastica e, per
quanti non trovarono posto, in quella sùbito dopo. Con noi c’era papà Marino
e Thomas, il caro e sensibile nipotino.
Servì un bonario comando, l’uno all’altro, per partire: «Ragazzi,
è tardi, dobbiamo andare!». Allora, ci si salutò veramente e, inattesa, dalle
labbra di molti udii la parola: «Grazie!». Eppure, non avevo fatto nulla di
speciale per essi, anzi nulla di nulla, se non restare in loro compagnia, sulla
panca attorno al focolare d’amicizia che ci lega a Erwin. Da parte mia,
ringraziavo lui, invisibile ma più che mai presente nello spirito. Avevo ed ho
la certezza che, quanto avevo potuto vivere, era stato un suo dono. Egli, che
ormai vede le cose nella verità, senza il velo delle apparenze, sa che nel mio
piccolo gli ho voluto un gran bene, e che esso è andato via via irrobustendosi
e rivestendosi di nuova luce.
Ultimissimi tra gli ultimi, Peter Nicola Cemin, Walter Nones ed io
riprendemmo la strada di Casteons.
Un atleta, poco più che un ragazzo, dal fisico prestante e dallo sguardo
luminoso, ci aveva salutati ed era andato avanti, per la sua strada; ora fa
dietrofront e torna verso di noi. Con quel borsone, è scherzosamente scambiato
da Walter per un venditore ambulante extracomunitario. Desidera salutarlo,
ancora una volta e: «Ritorna, ho bisogno di te!», gli dice, non proprio
sottovoce, abbracciandolo. «E’ stupendo!», esclamavo tra me e me, ammirato
per l’intuibile sforzo di simile confessione, «questo sconosciuto ci ha
regalato un brivido caldo di paradiso, non c’è dubbio».
Eppure, dovevamo partire.
Eccoci, dunque, alla casa della famiglia Maier: c’è mamma Lina, papà
Marino, il cognato Fabio; la sorella Monica completa le pulizie del Bar e ci
raggiunge; Annika e Thomas sono coricati, ma è da scommettere che non dormano;
c’è un amico di famiglia. Una rete televisiva locale trasmette
un’intervista a Erwin, del 1977; un ulteriore, prezioso e inatteso regalo di
lui: della sua immagine viva e amabile, del suo parlare calmo e competente,
nella conferma della sua squisita personalità.
Stavamo chiudendo una giornata vissuta in pienezza; «magna», avrebbero
forse detto gli antichi latini, cioè «grande», autentica; sono rare nella
vita le giornate così colme di significato. Ma giornata che Paluzza e la Carnia avranno la gioia di rivivere finché, per doveroso senso di responsabilità collettiva e per intimo senso dell’onore personale, di ognuno, non smarrirà la consapevolezza, già presente, di aver avuto in Erwin Maier un dono prezioso, che ben trascende i ristretti confini locali; e, nella gratitudine, nel rimpianto e nella legittima fierezza, educherà le nuove generazioni ad approfondire e imitare la ricca lezione di umanità che egli ha offerto e, ahimè, troppo presto lasciato come sua eredità morale.
AMICIZIA
OLTRE LA MORTE
Ho qui davanti, sulla
scrivania, la fotografia di Erwin in giacca a vento bianca e azzurra, quale
hanno scelto i suoi familiari, per consegnarlo al nostro ricordo e alla nostra
preghiera.
Un giovane, quasi un ragazzo, dallo sguardo penetrante e dal sorriso
buono. I capelli biondicci, in simpatico disordine. Sulla Marmolada, in un
soleggiato giorno d’estate; però fa freddo e la giacca a vento è
indispensabile lassù. Laggiù? Laggiù c’è la parete nord della Civetta, in
tutto il suo splendore, ci sono le tre Torri che l’affiancano, il Coldai e, più
oltre, la cima avvolta dalla nuvolaglia, il Pelmo. Poi c’è il Cadore con il
verde Comelico, che a Sappada cede il passo alla sua Carnia, c’è l’amata
Paluzza.
Va bene, diciamo pure che è un caso, come materialmente lo è, ma tra
Civetta e Pelmo c’è Zoldo, la mia piccola valle. L’ho compreso solamente
quando mi sono trovato sulla sua tomba, il primo agosto.
Ci sono dei momenti in cui non riesco a piangere! Mi sembra che la
persona cara, osservandomi dalla cima di quella Montagna sulla quale è giunta e
che per me resta misteriosa, mi chieda di non farlo. Sento il venticello
scivolare tra le lapidi e le croci, andarsene via, verso spazi infiniti; la mia
anima piange, grida, avvolta di terribile impotenza. La brezza continua, sembra
indifferente, mentre io non so darmi pace. Allora prego, come posso, come appena
riesco: «Signore, perché?».
«Erwin, tu eri per me un dono; lo sarai per sempre.
Ti ho amato, sai; e sappi che ti amo.
E’ bello vivere, avendoti conosciuto; perciò mi manchi:
Attendo il giorno in cui potrò abbracciarti,
sentirti esclamare: «Ce l’ho fatta!».
La destra sul cuore: te lo prometto:
farò di tutto perché tu sia ricordato, amato, onorato, Erwin! Mandi, in eterno, amico!».
UNO
STRAORDINARIO LASCITO MORALE
Erwin Maier:
fissiamoci bene a mente questo nome, esso entrerà nella coscienza collettiva
delle genti di montagna! Di quelle della nativa Carnia, del Friuli, delle
Dolomiti, oltre i ristretti confini geografici, che più di una volta e sempre
richiano di diventare sciocchi confini culturali.
Lo affermo con tutta la responsabilità di sacerdote e come studioso;
vorrei poter dire: «Come amico», come effettivamente sono, pur senza averlo
mai incontrato di persona.
Erwin: un giovane, che un osservatore superficiale avrebbe confuso con la
maggioranza dei suoi coetanei, per quei molti aspetti nei quali non poteva che
essere loro simile; ma che, nella realtà, era assai più e che, con il
trascorrere del tempo, appare sempre più come una persona squisita e, non meno,
un maestro di vita.
Il primo agosto 2000 un incidente di montagna ci ha privati, purtroppo,
della sua presenza fisica, della sua esistenza terrena. Ed è stato un pianto
lungo, di popolo, a Paluzza. Poi, lentamente e con un crescendo ininterrotto, si
è presa coscienza dello straordinario lascito morale di questo giovane grande
uomo, costituito essenzialmente da due elementi: la qualità delle doti umane e
lo spessore delle proposte di vita.
Tra le prime l’entusiasmo, per tutto ciò che rappresenta un bene da
raggiungere, e che si concretizzava in tenacia di impegno nella professione
(faceva parte dell’Arma dei Carabinieri), in generosità (aveva ottenuto una
medaglia d’argento al valore dell’esercito, per una impresa di salvataggio
in Nepal), in agonismo sportivo (abile scalatore, aveva aperto alcune vie).
Entrambi questi aspetti in Erwin si fondevano, oltre che in alto grado, in un
perfetto equilibrio, che si manifestava in una costante padronanza di sé, unita
a un profondo rispetto per tutti e a un caratteristico, affascinante buonumore.
Maier non era un asceta disincarnato ed asociale: le sue qualità umane
non potevano non richiamare l’attenzione di quanti lo frequentavano o
ammiravano, soprattutto dei giovani, che trovavano in lui un modello. Con la
forza spontanea dei fatti, egli era diventato un punto di riferimento, nella
difesa e nella promozione entusiasta di alcuni valori: l’amore per la
montagna, intesa come territorio di vita e come roccia; l’amore all’impegno
e al sacrificio, per raggiungere un traguardo sportivo, e come valore in sé,
gioia in sé e, poi, per forgiare il proprio carattere a superare le difficoltà
dell’esistenza; il senso dell’amicizia, intesa come un trovarsi insieme per
camminare, anzi correre gioiosamente verso una meta.
Paluzza: il primo e il due settembre 2001: una partecipazione corale,
intima, gioiosa e sofferta, ha accompagnato la prima edizione della garanon
competitiva di Corsa in montagna «Il Volo dell’Aquila-Memorial Maier Erwin». Riascolteremo questo Maestro di ventinove anni. Questa è una primissima voce di quanti, come me, intuiscono che è giusto impegnarsi ad onorarlo, come ha meritato; ad approfondirne l’insegnamento, come è un onore per noi.
Erwin, due anni dopo Prima scena: il 27 luglio, a Cortina d'Ampezzo: in
mattinata avevo benedetto una lapide in ricordo di Erwin Maier, il "nostro
maestro" di 28 anni. Nella suggestiva grotta, Cappella della Memoria, ai
piedi delle Cinque Torri. Al pomeriggio, al momento di ridiscendere, ero salito
sulla jeep di due carabinieri, colleghi di Erwin. E vidi, con un po' di sorpresa
e tanta commozione, che uno di loro aveva raccolto e conservato il ramoscello di
larice con il quale avevo fatto la benedizione. Piccolo, quel ramoscello,
incapace di reggere il peso di una vita e pur capace di benedire, nel nome
dell'Onnipotente; e pur capace di raccogliere un "sì" d'amicizia,
oltre la morte!
Nella luce di
Erwin Come l'ho conosciuto La prima volta che sentii parlare di Erwin fu nel 1995.
Da "Il Gazzettino" di Bellu-no appresi della salita e dell'impresa di
salvataggio compiuta, con i colleghi Peter Nicola Cemin e Walter Nones e la
guida ampezzana Guido Salton sul Lobuche Peach Est, nella catena montuosa dell'Himalaya,
a 6119 metri di altitudine. La volontà di onorarne l'amicizia Nei giorni del silenzio abissale, della dura
accettazione del frantumarsi del deside-rio dell'incontro, della capacità di
rispondere compiutamente alle legittime attese che l'amicizia - premio a sé
stessa, gioia a sé stessa - promette e sa donare, tra i rossi fiotti del
dolore, sgorgò in me un impegno; il desiderio di incontro si mutò in volontà
di impegno. Una riflessione Mi inchino davanti alla volontà di Dio, come un figlio
che, senza comprendere l'itinerario e le ragioni, si lasci guidare dalla mano
del padre. Gli chiedo di dilatare il mio cuore, affinché i pensieri e i
sentimenti palpitino di maggiore luce, e la mia volontà sia ras-serenata, con
l'accettazione delle cose che non posso cambiare.
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