Erwin Maier

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PROFILO BIOGRAFICO  
Scritto di Gino GRILLO in «Tischlbongara piachlan – Quaderni di Cultura Timavese», n. 4, dicembre 2000, p. 6.

 

     Erwin Maier nasce a Casteons di Paluzza il 30 maggio 1971.

     Inizia a lavorare come meccanico, ma il suo vero amore è lo sport. Comincia con lo sci, poi passa all’atletica e all’alpinismo, quindi decide di entrare nell’esercito. Viene scelto dai Carabinieri e si reca a Bologna alle dipendenze del Gruppo sportivo dell’Arma. Entra nel Soccorso Alpino dei Carabinieri di Cortina d’Ampezzo, facendo dapprima soccorso piste sulle Tofane e sul Cristallo, quindi operando per tutto l’arco dell’anno come soccorso in montagna.

     Amante dei monti, di tutti i monti, apre una via denominata «Nei secoli fedele» sull’Everest, dedicandosi così completamente all’alpinismo.

     Pur ancora giovane, è già molto esperto di questa pratica. Erwin apre nuove vie e ferrate e, quando il presidente della Repubblica Scalfaro fece visita a Timau, l’alpinista-carabiniere volle salutare l’evento scalando il Ganzschpiz e fissando, su una placca, il Tricolore. Erwin, con i suoi colleghi, compie escursioni in tutto il mondo, anche sul tetto del mondo, sugli ottomila dell’Everest dove, suo malgrado, trova il modo di esprimere il suo carattere altruista e deciso.

     E’ il 1995 e sull’Himalaia si scatena l’inferno. Mentre erano intenti ad aprire una nuova via sulla vetta del Lobuche Pek, nel gruppo dell’Everest, a quota 6119 metri, molti alpinisti furono sorpresi da una terribile tempesta di neve. Una cinquantina di morti; ma Erwin e i suoi commilitoni prendono in mano i soccorsi, salvando diverse vite umane, incuranti del pericolo che loro stessi correvano.

     «Al verificarsi di una grave calamità naturale, che coinvolgeva numerose persone sulla parte alta della valle del Khumbu, dapprima su sua iniziativa e poi su richiesta dell’Unità di crisi del Ministero degli Affari esteri italiano, si prodigava in condizioni ambientali estremamente difficili, con spiccato coraggio e singolare perizia in estenuanti attività di ricerca, soccorso ed assistenza alle popolazioni colpite dalla tragedia, anche a rischio della propria incolumità personale, ricevendo lusinghieri apprezzamenti, che contribuivano ad elevare anche all’estero il prestigio dell’Arma dei Carabinieri».

     Erwin, con due colleghi di cordata, Walter Nones e Nicola Cemin, era stato insignito della medaglia d’argento al valore dell’esercito e l’encomio solenne.

     Il primo agosto del 2000, sulla parete nord dell’Eiger in Svizzera, una scarica di sassi tronca improvvisamente il suo volo.

UNA GIORNATA IN PIENEZZA 
Inedito di Don Floriano Pellegrini, membro della Società Europea di Cultura, Belluno.

 

     Pomeriggio del 2 settembre 2001; la gara di corsa in montagna «Il Volo dell’Aquila-Memorial Maier Erwin» era terminata da alcune ore.

     Sceso da Pramosio, leggermente stordito dal cumulo dei sentimenti, me ne stavo davanti al Bar «Cin Cin» di Paluzza, con un gruppo di giovani carabinieri di Cortina d’Ampezzo, colleghi di Erwin. «Tutto mi piace di qui, anche se magari non tutto è bello», pensavo tra me e me, vagando con la mente tra riflessioni e osservazioni, anticamera delle prime.

     Due carabinieri erano seduti sul gradino dell’atrio del caseggiato, in cui s’apre il Bar, e uno m’invito al suo fianco; ero un po’ perplesso, avevo l’impressione di concedermi un’eccessiva confidenza, ma la stanchezza ebbe la meglio sulla ritrosia. La posizione da seduti era piuttosto scomoda; ma stare lì, affiancati, offriva la piacevole sensazione di una protezione reciproca. Invogliava a confidarsi. Da prima parlammo dei piatti tipici della Carnia, in un tentativo poco riuscito di cultura culinaria. Fra una considerazione e l’altra sorseggiavamo dell’ottimo vino, offerto ora dall’uno ora dall’altro dei presenti; al bicchiere di Fragolino, che non era il primo, fece sèguito un secondo, un terzo; qualche altro, diciamo così, per non recar scandalo.

     E intanto, dentro di noi, c’era un accumulo fitto di nuvolaglia tempestosa, una mano pesante e cattiva tentava di toglierci il respiro. Sentivamo il bisogno, insistente, di non cedere al rimpianto, di pensare a tutto fuorché a lui; ma era lui, Erwin, nel pensiero di tutti noi, avvolto e in qualche modo abbracciato da una dolcissima nostalgia. Pochi passi più avanti, sulla piazza, suonava la banda di Forni Avoltri, la seguivamo con sbadata indifferenza e qualche applauso rassegnato, tutto intenti al canto della voce di lui nell’eco del cuore, incapaci di ammettere il silenzio delle sue labbra.

     Annottava, e ce ne stavamo ancora lì, timorosi di staccarci.

     Oh, le tenebre della notte: quelle, quelle non mordono qui, alla gola! L’animo dilaniato dal buio della sua assenza, i ricordi farsi fragili e forti come fiammelle, che ci consentivano di ritrovarci attorno ad essi e ad esse, focolare di ciò che parlava di lui, unico spazio in cui sentire un po’ di calore e la sua mano carezzevole, sul cuore, sulla gola, sugli occhi, come a suggerirci: «Suvvia, non piangete!».

     E intanto era silenzio, attorno a noi, infinito silenzio! La piazza centrale di Paluzza veniva attraversata dalle prime brezze di una notte di luna piena, pur affascinante, e si faceva deserta. E noi, sempre lì, sempre più avvolti di solitudine, seduti sul gradino di un atrio sconosciuto, incerti se chinare il volto a terra o levarlo, speranzosi, al chiarore celeste, attraversato dal riflessi di misteriose quanto indifferenti armonie, che andavano perdendosi lontano.

     Avvertii il bisogno, brusco, di interrompere quell’incantata tristezza. Con un balzo fui in piedi e presi a gironzolare per la piazza, senza impazienza e senza interessi. Ora più discoste, ora più vicine, mi giungevano le voci della conversazione scherzosa dei giovani carabinieri; essi sembravano dire: «Erwin ci vorrebbe così». L’aria fresca della sera era attraversata dalle loro divertenti e nitide trovate umoristiche, nei caldi termini della bella gioventù. Ci sentivamo rapportati da una profonda sintonia, da una specie di fraternità spirituale; gli amici, del resto, sono i fratelli che nascono nel grembo del cuore.

     Un’intuizione m’attraversò la mente e mi volsi ad osservarli, quasi per confermarla: «Sì, stanno dando a sé stessi e a me, a questa comunità, un’altissima testimonianza di amicizia. Continuano a posticipare il momento della partenza, quasi vinti da un ineffabile bisogno di restare nel paese dello stimato amico comune!»:

     Alla spicciolata, sembrò giungere il momento scherzoso e mesto del saluto finale e dell’arrivederci a Cortina o a Paluzza. Ma ci fu chi avanzò l’ennesima proposta: «Perché non andiamo a prendere un trancio di pizza?», e il gruppo, anziché sciogliersi o sfilacciarsi, si trasferì di peso qualche metro più sotto, nella prima pizzeria a portata di scarpe da ginnastica e, per quanti non trovarono posto, in quella sùbito dopo. Con noi c’era papà Marino e Thomas, il caro e sensibile nipotino.

     Servì un bonario comando, l’uno all’altro, per partire: «Ragazzi, è tardi, dobbiamo andare!». Allora, ci si salutò veramente e, inattesa, dalle labbra di molti udii la parola: «Grazie!». Eppure, non avevo fatto nulla di speciale per essi, anzi nulla di nulla, se non restare in loro compagnia, sulla panca attorno al focolare d’amicizia che ci lega a Erwin. Da parte mia, ringraziavo lui, invisibile ma più che mai presente nello spirito. Avevo ed ho la certezza che, quanto avevo potuto vivere, era stato un suo dono. Egli, che ormai vede le cose nella verità, senza il velo delle apparenze, sa che nel mio piccolo gli ho voluto un gran bene, e che esso è andato via via irrobustendosi e rivestendosi di nuova luce.

     Ultimissimi tra gli ultimi, Peter Nicola Cemin, Walter Nones ed io riprendemmo la strada di Casteons.

     Un atleta, poco più che un ragazzo, dal fisico prestante e dallo sguardo luminoso, ci aveva salutati ed era andato avanti, per la sua strada; ora fa dietrofront e torna verso di noi. Con quel borsone, è scherzosamente scambiato da Walter per un venditore ambulante extracomunitario. Desidera salutarlo, ancora una volta e: «Ritorna, ho bisogno di te!», gli dice, non proprio sottovoce, abbracciandolo. «E’ stupendo!», esclamavo tra me e me, ammirato per l’intuibile sforzo di simile confessione, «questo sconosciuto ci ha regalato un brivido caldo di paradiso, non c’è dubbio».

     Eppure, dovevamo partire.

     Eccoci, dunque, alla casa della famiglia Maier: c’è mamma Lina, papà Marino, il cognato Fabio; la sorella Monica completa le pulizie del Bar e ci raggiunge; Annika e Thomas sono coricati, ma è da scommettere che non dormano; c’è un amico di famiglia. Una rete televisiva locale trasmette un’intervista a Erwin, del 1977; un ulteriore, prezioso e inatteso regalo di lui: della sua immagine viva e amabile, del suo parlare calmo e competente, nella conferma della sua squisita personalità.

     Stavamo chiudendo una giornata vissuta in pienezza; «magna», avrebbero forse detto gli antichi latini, cioè «grande», autentica; sono rare nella vita le giornate così colme di significato.

     Ma giornata che Paluzza e la Carnia avranno la gioia di rivivere finché, per doveroso senso di responsabilità collettiva e per intimo senso dell’onore personale, di ognuno, non smarrirà la consapevolezza, già presente, di aver avuto in Erwin Maier un dono prezioso, che ben trascende i ristretti confini locali; e, nella gratitudine, nel rimpianto e nella legittima fierezza, educherà le nuove generazioni ad approfondire e imitare la ricca lezione di umanità che egli ha offerto e, ahimè, troppo presto lasciato come sua eredità morale.

 

AMICIZIA OLTRE LA MORTE 
Don Floriano Pellegrini, lettera in: «San Danêl», Bollettino parrocchiale di Paluzza, n. 13, dicembre 2001, p. 10.

 

    Ho qui davanti, sulla scrivania, la fotografia di Erwin in giacca a vento bianca e azzurra, quale hanno scelto i suoi familiari, per consegnarlo al nostro ricordo e alla nostra preghiera.

     Un giovane, quasi un ragazzo, dallo sguardo penetrante e dal sorriso buono. I capelli biondicci, in simpatico disordine. Sulla Marmolada, in un soleggiato giorno d’estate; però fa freddo e la giacca a vento è indispensabile lassù. Laggiù? Laggiù c’è la parete nord della Civetta, in tutto il suo splendore, ci sono le tre Torri che l’affiancano, il Coldai e, più oltre, la cima avvolta dalla nuvolaglia, il Pelmo. Poi c’è il Cadore con il verde Comelico, che a Sappada cede il passo alla sua Carnia, c’è l’amata Paluzza.

     Va bene, diciamo pure che è un caso, come materialmente lo è, ma tra Civetta e Pelmo c’è Zoldo, la mia piccola valle. L’ho compreso solamente quando mi sono trovato sulla sua tomba, il primo agosto.

     Ci sono dei momenti in cui non riesco a piangere! Mi sembra che la persona cara, osservandomi dalla cima di quella Montagna sulla quale è giunta e che per me resta misteriosa, mi chieda di non farlo. Sento il venticello scivolare tra le lapidi e le croci, andarsene via, verso spazi infiniti; la mia anima piange, grida, avvolta di terribile impotenza. La brezza continua, sembra indifferente, mentre io non so darmi pace. Allora prego, come posso, come appena riesco: «Signore, perché?».

     «Erwin, tu eri per me un dono; lo sarai per sempre.

     Ti ho amato, sai; e sappi che ti amo.

     E’ bello vivere, avendoti conosciuto; perciò mi manchi:

     Attendo il giorno in cui potrò abbracciarti,

     sentirti esclamare: «Ce l’ho fatta!».

     La destra sul cuore: te lo prometto:

     farò di tutto perché tu sia ricordato, amato, onorato,

     Erwin! Mandi, in eterno, amico!».

 

UNO STRAORDINARIO LASCITO MORALE 
 Don Floriano Pellegrini, Erwin Maier, un maestro, in: «Il Gazzettino», 7 settembre 2001, p. delle «Lettere dal Nordest».

 

     Erwin Maier: fissiamoci bene a mente questo nome, esso entrerà nella coscienza collettiva delle genti di montagna! Di quelle della nativa Carnia, del Friuli, delle Dolomiti, oltre i ristretti confini geografici, che più di una volta e sempre richiano di diventare sciocchi confini culturali.

     Lo affermo con tutta la responsabilità di sacerdote e come studioso; vorrei poter dire: «Come amico», come effettivamente sono, pur senza averlo mai incontrato di persona.

     Erwin: un giovane, che un osservatore superficiale avrebbe confuso con la maggioranza dei suoi coetanei, per quei molti aspetti nei quali non poteva che essere loro simile; ma che, nella realtà, era assai più e che, con il trascorrere del tempo, appare sempre più come una persona squisita e, non meno, un maestro di vita.

     Il primo agosto 2000 un incidente di montagna ci ha privati, purtroppo, della sua presenza fisica, della sua esistenza terrena. Ed è stato un pianto lungo, di popolo, a Paluzza. Poi, lentamente e con un crescendo ininterrotto, si è presa coscienza dello straordinario lascito morale di questo giovane grande uomo, costituito essenzialmente da due elementi: la qualità delle doti umane e lo spessore delle proposte di vita.

     Tra le prime l’entusiasmo, per tutto ciò che rappresenta un bene da raggiungere, e che si concretizzava in tenacia di impegno nella professione (faceva parte dell’Arma dei Carabinieri), in generosità (aveva ottenuto una medaglia d’argento al valore dell’esercito, per una impresa di salvataggio in Nepal), in agonismo sportivo (abile scalatore, aveva aperto alcune vie). Entrambi questi aspetti in Erwin si fondevano, oltre che in alto grado, in un perfetto equilibrio, che si manifestava in una costante padronanza di sé, unita a un profondo rispetto per tutti e a un caratteristico, affascinante buonumore.

     Maier non era un asceta disincarnato ed asociale: le sue qualità umane non potevano non richiamare l’attenzione di quanti lo frequentavano o ammiravano, soprattutto dei giovani, che trovavano in lui un modello. Con la forza spontanea dei fatti, egli era diventato un punto di riferimento, nella difesa e nella promozione entusiasta di alcuni valori: l’amore per la montagna, intesa come territorio di vita e come roccia; l’amore all’impegno e al sacrificio, per raggiungere un traguardo sportivo, e come valore in sé, gioia in sé e, poi, per forgiare il proprio carattere a superare le difficoltà dell’esistenza; il senso dell’amicizia, intesa come un trovarsi insieme per camminare, anzi correre gioiosamente verso una meta.

     Paluzza: il primo e il due settembre 2001: una partecipazione corale, intima, gioiosa e sofferta, ha accompagnato la prima edizione della garanon competitiva di Corsa in montagna «Il Volo dell’Aquila-Memorial Maier Erwin».

     Riascolteremo questo Maestro di ventinove anni. Questa è una primissima voce di quanti, come me, intuiscono che è giusto impegnarsi ad onorarlo, come ha meritato; ad approfondirne l’insegnamento, come è un onore per noi.


Erwin Maier sulla Marmolada

Erwin, due anni dopo

Prima scena: il 27 luglio, a Cortina d'Ampezzo: in mattinata avevo benedetto una lapide in ricordo di Erwin Maier, il "nostro maestro" di 28 anni. Nella suggestiva grotta, Cappella della Memoria, ai piedi delle Cinque Torri. Al pomeriggio, al momento di ridiscendere, ero salito sulla jeep di due carabinieri, colleghi di Erwin. E vidi, con un po' di sorpresa e tanta commozione, che uno di loro aveva raccolto e conservato il ramoscello di larice con il quale avevo fatto la benedizione. Piccolo, quel ramoscello, incapace di reggere il peso di una vita e pur capace di benedire, nel nome dell'Onnipotente; e pur capace di raccogliere un "sì" d'amicizia, oltre la morte!
Seconda scena: il 1° settembre, a Paluzza, alle ore 21.30, alla calda tavola di una pizzeria: in mattinata si era svolta la seconda edizione della gara "Il volo dell'Aquila - Memorial Maier Erwin". Noi, "suoi discepoli", non potevamo che essere lì e facevamo fatica a non restare lì. Alla mia destra il papà di Paolo Migliorini, alla sinistra Giovanni Vizzardi, e poi, su un lato e sull'altro, tutti gli altri, visi amati, uno ad uno. Ed ecco una sensazione inattesa, mai provata; mi volsi a Giovanni, per comunicargliela, sottovoce: "E' come fossimo un corpo solo". Un attimo per guardarsi attorno, e confermarlo: "E' vero". C'era tra noi una intesa perfetta, totale; un identico parlare, scherzare, il medesimo percepirci, che, quale unico sangue, attraversava tutti noi, senza caduta di intensità. La fiaccola d'amicizia per Erwin brillava tra noi, d'animo in animo, senza altra ombra che quella di un dolcissimo rimpianto.
Terza scena: ancora il 1° settembre, tra Paluzza e Cortina d'Ampezzo: in auto con tre carabinieri, nel buio della notte, come se all'improvviso tutto si fosse spento. Viene messo un CD; "E' una musica un po' malinconica", c'è chi commenta; e un altro: "Sì, ma fa sognare". Prolungato silenzio. Ascoltiamo le parole del cantante: "Credo nel cielo". "Puttana, perché sei andato a morire", c'è chi esclama ed è un grido nella notte; noi lo sentiamo e piangiamo, feriti dentro. Il cantante continua: "Non sai quanto gli amici pensano a te…". Il pianto dentro continua, fuori il silenzio. Allora, bisogna far a finta di dormire, o di parlare.
No, morire non è un allontanarsi lieve!
"Caro Erwin, sei salito in alto, molto in alto, come quando, tredicenne, salivi da solo sul palo della cuccagna, senza badare alla fatica, né scoraggiarti. Che ne è ora di te? La parola di Gesù mi dà alcune risposte, ma io - se devo essere sincero, e con te voglio esserlo - non so raffigurami la tua vita oltre la morte. E' bello vivere, avendoti conosciuto; perciò ci manchi. Attendiamo il giorno in cui potremo riabbracciarti, sentirti esclamare: "Ce l'ho fatta!". Mandi, in eterno, amico!".

 

Nella luce di Erwin

Come l'ho conosciuto

La prima volta che sentii parlare di Erwin fu nel 1995. Da "Il Gazzettino" di Bellu-no appresi della salita e dell'impresa di salvataggio compiuta, con i colleghi Peter Nicola Cemin e Walter Nones e la guida ampezzana Guido Salton sul Lobuche Peach Est, nella catena montuosa dell'Himalaya, a 6119 metri di altitudine.
Mosso da ammirazione, desiderai rivolgermi a Erwin, scelto istintivamente ad inter-locutore, per porgere loro le mie umanissime felicitarmi. Volli dare un po' di risalto ai complimenti e li scrissi su un biglietto intestato a mio nome quale "membre de la Société Eu-ropéenne de Culture". Erwin mi ringraziò e, in qualche modo, il nostro rapporto finì.
Di tanto in tanto, però, gli telefonavo a Cortina d'Ampezzo, alla caserma dei carabi-nieri, per un breve saluto; due volte su tre, i suoi colleghi mi informavano che era fuori, per servizio o impegnato in qualche attività agonistica. E' molto probabile che in quei pri-mi colloqui telefonici non si fosse reso conto della stima che gli portavo: era cortesissimo ma - sinceramente - un po' distaccato; ero pur sempre uno sconosciuto.
Nel 1997 Erwin, Peter Nicola e Walter ricevettero una medaglia d'argento al valore dell'esercito. Allora scrissi A Erwin una nuova lettera, assicurandogli il ricordo e la stima.
Questo messaggio gli fu caro e sentì il desiderio di conoscermi e venne all'ospedale di Belluno, dove allora ero assistente religioso. Era assieme ad un amico, che non è stato possibile identificare. Probabilmente erano "reduci" da qualche esercitazione sportiva, perché al mio collega del Servizio religioso, al quale non si erano presentati, parvero "due scalmanati". Quel pomeriggio, purtroppo, io ero assente!
"Hanno portato questo pacchetto per te", mi disse, quando rientrai. Andato in ca-mera, lo scartai e vidi che si trattava di un diploma con la fotografia del Lobuche Peach Est e, in un riquadro, quelle di Erwin e dei compagni di scalata; e, a mano, era scritto: "Un grazie di cuore a Don Floriano - Mandi - Erwin Maier".
Particolarmente orgoglioso di quell'attestato di amicizia, lo conservai dietro la scri-vania fin verso la metà del luglio 2000, quando decisi di donarlo alla Biblioteca civica di Zoldo Alto, mio comune di nascita, per una mostra permanente di diplomi.
Pur con molta discrezione, cresceva in me il desiderio di conoscerlo. Egli si era af-facciato all'alba della mia esistenza e io lo cercavo, come i garofani alle finestre della mia camera di montagna vanno protendendosi verso il sole; mai avrei potuto immaginare che, di lì a poche settimane, una mano invisibile e crudele avrebbe oscurato il mio sogno!
Era la sera del due agosto. Ero in cucina, in attesa di iniziare la cena.
Non accendo mai la televisione, non amo farlo; per quanto dipende da me, desidero parlare con le persone che mi stanno accanto e la televisione disturba questo nostro dialo-gare. Erano circa le 19 e trenta, quando, preso il telecomando, mi sintonizzai su "Tele Bel-luno Dolomiti"; in quel preciso momento stava trasmettendo le notizie di testa e, tra que-ste, quella incredibile della morte del caro Erwin, avvenuta il giorno prima.
Ero seduto, ma sentii le forze che mi abbandonavano e forse impallidivo. Mia ma-dre, sul divano, mi guardava sorpresa. Mi sforzai di dire qualcosa; avevo la bocca impasta-ta; come spiegarmi? Scosso com'ero, non appena mi fu possibile salii in camera.
Nei giorni seguenti il mio pensiero era fisso a Paluzza; l'anima, raminga, sembrava vagare in un'aria dovunque, d'attorno, svuotata e impregnata di sola solitudine. Divoravo le notizie dai giornali e dalla televisione locali.
Poiché mi era impossibile partecipare ai funerali (chi conosceva la nostra amicizia? A chi rivolgermi?), cercai di farmi presente con una lettera su "Il Gazzettino": "Nel momento del dolore per la sua morte, così imprevedibile nel fiore della giovinezza, sento la necessità di raccogliermi in preghiera. E, assieme, l'obbligo di esprimere una parola di ammirazione e gratitudine a Erwin Maier. La stima per l'immensa generosità, di cui era capace; la gratitudine per i gesti di amicizia, in particolare una visita all'ospedale, senza che ne avesse alcun obbligo, solo per amicizia. Un proverbio dice che i migliori ci lasciano presto; non è sempre vero, per fortuna, ma Erwin era certamente "uno dei migliori", una di quelle persone di cui abbiamo bisogno. E sono insostituibili. Mandi, in eterno, amico!".

La volontà di onorarne l'amicizia

Nei giorni del silenzio abissale, della dura accettazione del frantumarsi del deside-rio dell'incontro, della capacità di rispondere compiutamente alle legittime attese che l'amicizia - premio a sé stessa, gioia a sé stessa - promette e sa donare, tra i rossi fiotti del dolore, sgorgò in me un impegno; il desiderio di incontro si mutò in volontà di impegno.
Una volontà feconda: far risuonare, come musica nella libertà dell'aria, lo spirito di Erwin, la luminosa bellezza della sua amabilità dirompente.
E volontà tenace: onorarlo; sul solido fondamento della carica di amicizia per cui, dopo averlo accolto in spirito nella gioia con la quale il tempo accoglie l'irrompere della primavera, l'avevo inscindibilmente stretto a me.
Il 12 agosto, dunque, ne feci cenno al comandante provinciale dei carabinieri di Bel-luno, il Ten. Col. Giuseppe Gasparetto: "Le scrivo per un bisogno del cuore e per cercare di onorare, se mai fosse possibile, un amico (…). Vorrei fare qualche cosa e a qualche cosa, pur semplice, avrei pensato; ma non c'è fretta, ormai. Le sarò grato se, pensando voi a qualche iniziativa, mi terrete al corrente, per poter contribuire".
Poi, con lettera del 19 dicembre, ne accennai a Mons. Elio Mario Monaco, parroco emerito di Paluzza: " (…) così l'ho conosciuto, così l'ho amato, così lo ricorderò. - E, per o-norarlo, concorrerò a quelle iniziative che venissero programmate e sono felice d'aver lega-to il mio nome a lui. - (…) Un giorno, in agosto, camminavo con mio padre, vicino a casa, nel nostro paesino di Zoldo. Gli chiesi se potevamo (noi, al fine di nascondere il mio sen-timento) fare una piccola fontana, in un angolo dell'orto e, nel volgere di poche frasi, dato che mio padre era meravigliato di simile intento, dovetti svelargli che lo facevo per mette-re una lapide con le parole "Erwin Maier". Egli fu paterno e non volle indagare sul mio dolore, non volle farmi parlare di più, ché già ero insolitamente turbato; mi disse che non è possibile perché l'orto è promiscuo con i suoi cugini, e la cosa finì lì; ma vorrei fare qualco-sa per ricordare Erwin. - Un'altra idea, che mi sembra più fattibile, è questa: mettere una piccola lapide (come sopra) su certa parete rocciosa del Civetta, dato che lì ci sono delle i-scrizioni confinarie romane (le uniche in zona), a delimitazione tra i municipii di Zuglio e di Belluno; ma forse resterà una mia fantasia…".
Tra la lettera al Tel. Col. Gasparetto e quella a Mons. Monaco era successo un fatto di capitale importanza: la famiglia Maier, pur senza conoscermi, mi aveva scritto!: "Paluzza, 6 ottobre 2000. - Carissimo Don Floriano, nelle carte che il nostro Erwin conservava, abbiamo trovato una Sua lettera, nella quale si congratulava con lui per le imprese in Nepal (…)".
Ne fui dunque felicissimo e risposi, il 19 ottobre, con una lunga lettera, nella quale tra le altre cose dicevo: " (…) è come se Erwin vi avesse raccontato la nostra amicizia e a-vesse detto a me - così la intendo - di farmi vivo con voi (…). Ho assolto questo incarico, ho sentito il suo spirito domandarmi di farmi vivo e raccontarvi tutto questo. Ed è certo che continuerò (…), perché così credo vuole il mio amico Erwin (…)".
Lo stesso 19 ottobre scrivevo al parroco di Paluzza, Don Tarcisio Puntel: " (…) mi auguro di fare qualcosa per ricordarlo (…)".
Il 19 dicembre scrissi al Capitano della Stazione Carabinieri di Cortina d'Ampezzo, presentando un progetto concreto: "Si avvicina Natale e vengono alla mente le persone ca-re; "Bella scoperta!", penserà. D'accordo, ma alcune di queste persone, come era per me Erwin, non ci sono più e, allora, è già un conforto poterle ricordare a qualcuno, che egual-mente ha voluto loro bene (…). Dopo aver pensato e strapensato, fatto nascere e morire una decina di progetti, (ecco) uno (che) mi sembra bello e fattibile; almeno così spero. Co-struire, in una piazzola di terreno, in un praticello, all'interno del Parco delle Dolomiti d'Ampezzo, un'aiuola con una stele (…)".
Il 21 dicembre, alle ore 20.20 (forse è superfluo ricordarlo, ma per me era un mo-mento importante) sentii per la prima volta, al telefono, Walter Nones.
Il primo agosto 2001, il nostro incontro diretto, davanti alla chiesa di Sedico; poi, a Paluzza, quello con la famiglia Maier; preceduto dal saluto ad Erwin… sulla sua tomba!

Una riflessione

Mi inchino davanti alla volontà di Dio, come un figlio che, senza comprendere l'itinerario e le ragioni, si lasci guidare dalla mano del padre. Gli chiedo di dilatare il mio cuore, affinché i pensieri e i sentimenti palpitino di maggiore luce, e la mia volontà sia ras-serenata, con l'accettazione delle cose che non posso cambiare.
Erwin: l'ho amato, pur senza averlo incontrato! Non è frequente che le vicende della vita creino le condizioni perché ciò avvenga; a me è successo. Ed è stata un'esperienza che, da sola, ha preso i caratteri di un punto fermo. Se incontrarsi è comunicare, ci può essere comunicazione anche prima e al di là dell'incontro; l'avverarsi di una intesa preliminare, anticipatrice di ogni contatto fisico e diretto, che forse, come in questo caso, non avrà mai la fortunata occasione di manifestarsi. Sono felice, nell'intimo, di testimoniare il profondo affetto che ho nutrito e mi lega a lui; lasciarne defluire, trasformata in parole, l'energia e la dolcezza, che opera anzitutto in me, portandomi a superare sterili ripiegamenti e rimpian-ti. Affranto dal distacco, ferito nel bisogno di amarlo, ardente di immutato desiderio, al ri-cordo dei suoi occhi di giovane autentico sento il mio cuore farsi un po' meno inquieto.
Ne percepisco il valore della personalità complessiva, quale mi apparve nel 1995 ed ho avuto poi modo di confermarmi e di approfondire, pur tra le difficoltà reali dovute alla mancanza di una frequentazione diretta. Per la qualità delle sue doti, Erwin è per me un maestro in umanità.
Ne apprezzo la generosità, cioè l'abbondanza nell'amore, che si esprimeva in gioia, entusiasmo e determinazione di vivere e di far vivere, di essere partecipe di tutto ciò che la vita esprime ed offre.
La gioia generosa di amare, quale gusto per la varietà e ricchezza del mondo e l'originalità degli esseri viventi, delicatezza e cura verso ognuno, gentilezza nel tratto e personalmente in una particolare "radiosità fisica", in un "volto di conquistatore felice".
L'acuto senso del rispetto: l'amare come un autentico voler bene, oltre le vuote e-mozioni, un percepire gli altri con impegno costante al suo rispetto e, assieme, con una ca-pacità misericordiosa di sorriso e, quand'anche, di umorismo. Il rispetto per tutti, familia-ri, amici, colleghi, estranei; e per le piante, gli animali, l'ambiente.
L'onestà, come scelta spirituale di rispetto verso sé stessi e la propria ricchezza vita-le, a cominciare dal proprio corpo, con il quale star bene, esprimendone in ogni attività la bellezza primordiale. E come capacità di superarsi, imparando a risolvere da soli i propri problemi, pur apprezzando e desiderando la vicinanza e l'aiuto degli altri.
L'impegno, come concretizzazione dell'amore: alle attività sportive, al lavoro, all'ambiente montano e alle cime montane. Come scelta di fedeltà e gratitudine per il per-corso umano compiuto dai giorni dell'infanzia e dal proprio gruppo di appartenenza. Come base per ogni relazione convincente e per ogni amicizia autentica, nel rifiuto del pressappochismo e della mancanza di lealtà.
Giovani e meno giovano stanno volentieri assieme, in famiglia e fuori di essa, ma spesso non c'è vera comunione. A volte gli adulti credono di conoscere i giovani e i genito-ri i propri figli, di sapere quello che pensano e fanno; molti giovani non dialogano con gli adulti. Per molti il gruppo, anche familiare, è una soluzione di comodo; la vita, le soddi-sfazioni profonde, le scelte "abitano" altrove. Anche questo vuol dire solitudine.
Erwin ci ha insegnato, col suo modo di fare, la bellezza di intessere relazioni vere, con noi stessi e con ogni realtà, grande o piccola che sia. Nei suoi brevi giorni ci ha addita-to, facendola sua, una strada di luce: la seguiremo!

 

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