Sulle rive della Dardagna "Di là dal
Bût un piccol rio si lagna,
Prefazione dell'autore. Questo lavoro,scritto nel 1997,è nato dall'aver ritrovato, in una vecchia casa di Caneva di Tolmezzo,una raccolta di carte che mi hanno svelato delle curiose notizie sul passato di Caneva,della sua gente e dei miei antenati vissuti lì. Oltre ai documenti,mi sono basato anche su alcuni racconti che avevo sentito da vari parenti,o amici. I fatti narrati a parte qualche "coloritura " cinematografica sono in gran parte veri;molti nomi però sono stati cambiati per impedire una piena identificazione dei personaggi qui descritti. Francesco Rinoldi 21 ottobre 2003 Una roggia come il Giordano
La Dardagna è un torrentello- meglio, una roggia- che scaturisce a Caneva di Tolmezzo alle falde del monte Dobis, da una polla d'acqua esistente tra la roccia e che si riempie in misura maggiore o minore a seconda dell'intensità delle piogge. Di per sè questo fiumicello limpido e in certi punti a suo tempo ricco di gamberi, che misura alla sorgente la larghezza di un tronco di quercia, non avrebbe niente di eccezionale, se non che a Caneva, dall'inizio dell'800, alcuni paesani si diedero industriosamente da fare per costruire in loco alcuni opifici ( concerie, filature, attività artigianali ) sfruttanti la forza dell'acqua; e quindi assicurarsi presso il Comune l'utilizzo di quella roggia- o di qualche sua derivazione- era non necessario, ma indispensabile a chi avesse voluto portare avanti una sua sia pur microscopica attività. L'acqua faceva muovere le turbine, le ruote dei mulini,- a Caneva ce n'erano tre- serviva per lavare i panni, per risciacquare le pelli, a volte per eliminare i rifiuti della lavorazione di qualche prodotto. La Dardagna assumeva così, in quel paese ricco di abitanti ingegnosi- od anche a volte semplicemente furbi- lo stesso peso che in proporzione, possiamo dire, assume in Palestina il Giordano: da unico corso d'acqua che l'attraversa, è- benchè esiguo- per i suoi abitanti di importanza vitale. Caneva era un paesino laborioso e animato, pieno di campi ma dal nucleo non molto esteso, popolato da artigiani e villici, tutti comunque in genere piuttosto poveri e attenti a migliorare le proprie condizioni di vita. Alcuni cognomi- spiccanti numericamente su altri- saltano all'occhio rovistando tra vecchie carte: Candotti; Mazzolini; Corradina; Cacitti; Cassetti. Le donne si chiamavano Maddalena, Marianna, Letizia, e infinite volte Maria; erano modeste e dimesse, vestivano preferibilmente di scuro, si rassegnavano comprensibilmente ad una vita non poco faticosa e operosa. Gli uomini erano sbracati e un po' sporchi,qualche volta litigiosi, ogni tanto ubriaconi- si chiamavano anch'essi con nomi semplici, spesso tratti dalle Sacre Scritture o dal santo locale: Giovanni; Antonio; Floriano; Dionisio; Cristoforo; Nicodemo. Le case del paese rispecchiavano appieno la fisionomia dei loro abitanti: dimesse, povere, prive di orpelli, edificate con il massimo del risparmio: marroni o grigie come le vesti dei tanti Giovanni Battista, Antonio o Maria che le popolavano. Tutto il paese aveva l'aria di una fucina silenziosa e operosa dove si emigrava forse meno che in altri luoghi, lottando comunque costantemente per il miglioramento delle proprie condizioni di vita, se non per la vita stessa, e ingegnandosi a far fruttare al meglio il poco spazio esistente; e, come già detto, un rigagnolo d'acqua, un solaio o un metro quadro di terra potevano scatenare, presso avvocati e notai, le più venefiche liti. In questo clima di litigi, di povertà, di espedienti, di malumori, ma anche di operosità, di inventiva, di fede religiosa e di spirito di sopportazione, spiccò sugli altri un personaggio che, per onomastica o per sentito dire, possiamo immaginare dalle lontane origini nordiche, forse norvegesi o scandinave; o forse- il che non è molto diverso- discendente da qualcuno di quei guerrieri armati di " lunghe alabarde " che un giorno, nel loro travagliato cammino, si fermarono- oltre che in altri paesi- anche qui. Carlo Rinoldo nacque nel 1750 a Caneva, da tale Giovanni, " quondam Zuanne " secondo la dizione del tempo. Sappiamo che dovette essere un uomo dotato di responsabilità, dati gli incarichi di una certa fiducia che riuscì a conquistarsi negli anni. Tuttavia, come vedremo, il destino gli fu poi avverso- Carlo- in qualità di mediatore- era in stretto contatto con la ditta Micoli-Toscano di Gorto, una fabbrica di legname con la quale aveva in corso parecchi affari. Inoltre era fiduciario del nobile Lorenzo Mangilli, che dopo l'intervento della Repubblica Veneta reggeva, dal 1777, il Marchesato di S. Gallo, ex abbazia di Moggio. Nel 1786 Carlo aveva stipulato un contratto con la ditta Micoli-Toscano, alla quale garantiva, evidentemente fidandosi dei suoi compaesani, per l'allora Comune di Caneva il pagamento di una certa somma, dovuta probabilmente all'impresa per forniture di legname. Il paese però si trovò improvvisamente nell'impossibiltà di saldare il debito, e Carlo fu chiamato in giudizio dal proprietario della ditta. In base a ciò, al pover'uomo fu sequestrato il " bene bearzo dietro la di lui casa dominicale, arativo e prativo con pomari, per l'equivalente di Lire Venete 1000 ". Possiamo immaginare che si trattasse di tutte o quasi le sue proprietà, e considerare come il povero Carlo dovette sentirsi. Caneva- nel frattempo scaduta al ruolo di frazione- si ricordò comunque di risarcirlo. La Deputazione Comunale di Tolmezzo stabilì, qualche tempo dopo, che ogni anno gli venisse versato un mandato di " Lire Venete 50 ", fino ad esaurire la somma. Carlo percepì questa cifra fino alla morte- avvenuta nel 1820-, e con un documento del 1825 i suoi figli, Nicolò e Giovanni, vengono chiamati ad accettare l'eredità del padre, " che nulla ha lasciato se non questa annuale scossione ". Così, quasi drammaticamente, e con tono laconico e perentorio, l'amaro documento, assieme alla vita terrena di Carlo, si conclude. Nicolò e Giovanni, nonostante questo lascito che sarebbe presto finito, riuscirono a crearsi delle condizioni di vita soddisfacenti, con un certo ingegno e operosità che possiamo supporre prerogative della famiglia. Nicolò viene menzionato alcuni decenni più tardi in una causa da lui intestata, e vinta, contro i nipoti Giovanni e Leonardo, per l'utilizzo di una parte della casa paterna; di lui abbandoneremo qui le tracce. Giovanni sposò certa Maria Cassetti, cognome frequentissimo nel paese, che gli diede sei figli: Giovanni, Leonardo, Floriano, Antonio, Domenica e Carlo. Giovanni junior ( 1820-1891 ) riuscì ad ottenere, nel 1869, in concessione " l'uso di una derivazione del Rio Dardagna ", e qui impiantò un opificio " ad uso pistone e follatura della lana ", ossia un rudimentale, piccolo lanificio, adibito in parte anche a conceria. Una tradizione- o il caso?- voleva che il nome " Giovanni " in famiglia fosse perpetuato di padre in figlio, e così anche un figlio di questo bravo artigiano si chiamò immancabilmente come lui. Giovanni III°- nato nel 1856- fu mandato durante la giovinezza a imparare il mestiere di conciatore presso Kirchberg am Walde, un paese della Bassa Austria. In una lettera datata 1875, il diciannovenne, che si definisce " Gesel Waisgärber " dà notizie del cugino Giambattista, che si trovava con lui, e rivela sentimenti di profonda pietà e fede religiosa, oltre alla seria intenzione di imparare il lavoro. Il ragazzo si duole di non poter presenziare alla prima messa del fratello Leonardo, che proprio in quell'anno veniva ordinato sacerdote. Rientrato in patria cominciò come il padre a fare il conciatore di pelli, apportando- in virtù dell'esperienza acquisita a Kirchberg- delle migliorie al piccolo stabilimento paterno. Giovanni era un uomo prestante, di media statura, occhi chiari e una gran barba sotto i lineamenti sottili. Nel 1884 sposò Maddalena Mazzolini, sua compaesana e coetanea. Anche i Mazzolini erano numerosi, ed erano una delle famiglie più in vista di Caneva. Leonardo, il fratello, nato nel 1849 era un uomo dai lineamenti grossolani, tarchiato e precocemente calvo; il suo sguardo rivelava però dolcezza ed una certa bontà d'animo. Il suo esordio come sacerdote fu nella parrocchia di Rivo, dove entrò come cappellano appena dopo l'ordinazione. Maddalena Mazzolini era una donna mite e riservata, laboriosa e dimessa, sempre dedita alla casa e ai campi. Ogni sabato, nel rustico cortile della casa settecentesca nella " Contrade dai Pulz " ( detta così forse per le scarse condizioni igieniche del posto ), preparava una marmitta di polenta, che distribuiva poi ai più bisognosi del paese. Giovanni e Maddalena dal 1884 al 1906 ebbero ben nove figli: Luigia, Marietta, Teresa, Maria, Federico, Maddalena, Giovanni, Letizia e Cirillo. Le gravidanze si susseguivano con grande rapidità, e capitava che la povera Mazzolini a volte si trovasse nuovamente incinta appena dopo aver partorito. Nonostante ciò era sempre al lavoro, essendo una fibra forte e robusta. Aveva un viso dolce e malinconico, dai lineamenti morbidi e con occhi neri e commiserevoli. Vestiva sempre di scuro, anche se le sue condizioni- ora che la conceria lavorava bene- potevano permetterle ben altre fogge. Ma Maddalena amava rimanere nell'ombra; i suoi grembiali neri, la sua vita silenziosa e dimessa sembravano invitare inconsapevolmente a porre l'occhio sulla vanità del mondo, sulla transitorietà dell'esistere. I nove figli- otto dopo che Marietta era morta di pochissimi mesi- crescevano. Le ragazze erano ben fatte, sane, e dotate di una certa grazia. Maddalena junior aveva biondi capelli raccolti a crocchia e occhi celesti; Teresa un viso rotondo e dolce; Luigia una bella fronte alta e occhi intensi. Federico era un ragazzino sveglio dai lineamenti sottili e decisi; Giovanni un bambino dal volto ovale e dallo sguardo aperto e sereno, dotato di una certa raffinatezza di modi. La vita di Giovanni e Maddalena trascorse laboriosa, tra i campi, la gestione della casa, la conceria e la cura dei figli. Il nuovo secolo fu per l'intera famiglia ricco di novità. Nel 1901 Giovanni fece costruire una nuova casa per sè e i parenti. La casa- un palazzo a tre piani- si trovava in posizione splendida, vicino al corso del Bût, in uno spazio ampio e luminoso provvisto di giardino e frutteto. Un'altra novità fu, essendo riusciti a rinnovare la " concessione per l'utilizzo del Rio Dardagna ", l'impianto, nel 1904, della prima centrale elettrica del paese. Così, accanto alla " Conceria Giovanni Rinoldo fu Giovanni, fabbricatore corami e pellami, negoziante articoli di calzoleria " si aggiunse, sulle sponde di quel microscopico ma vitale rigagnolo, l'impianto di " un opificio per la produzione di energia elettrica per l'illuminazione privata e pubblica ". Giovanni e don Leonardo erano molto uniti, e spesso questi, più colto, si faceva braccio destro del fratello nella lettura di alcune carte o nella stesura di certi documenti. Leonardo, abbandonata la parrocchia di Rivo, dal 1890 era stato nominato pievano di Invillino. I Rinoldo cominciarono per imprecisati motivi a firmarsi Rinoldi; forse perchè erano in tanti, o più probabilmente per distinguerli da altri rami- forse indesiderati- della famiglia. In anni di duro lavoro si erano conquistate delle condizioni di vita che si potevano definire agiate, e la prima preoccupazione fu quella di far studiare i figli. Federico fu mandato a frequentare il liceo classico a Udine; Giovanni, nato tre anni dopo di lui, nel 1893, scelse un istituto per ragionieri. Alcune delle ragazze si erano già fidanzate, o lo stavano facendo. Nel 1906, ultimo dono del destino a quelle forti tempre, nacque Cirillo, soprannominato " Cinquantin " perchè al momento in cui venne al mondo Giovanni e Maddalena avevano entrambi cinquant'anni esatti. Anche Cirillo, un esile e intelligente bambino dagli occhi azzurri, cresceva bene; al di là di questo, cupe ombre- che avrebbero raggiunto anche quel piccolo angolino della terra- si addensavano ormai, gravide di conseguenze, sull'Europa e sul mondo.
Quiete tra due tempeste Sul tavolo di Federico, laureatosi ingegnere al Politecnico di Torino, piovevano in continuazione rèclames di nuove turbine, di materiali da costruzione, di tinture per pellami, isolatori e tiranti, ed inoltre appalti, cambiali e registri di tutte le specie. La Ia guerra mondiale era da poco finita, lasciando scie di sangue. Ventimila persone erano rientrate in Carnia, trovando spesso le case devastate, le donne incinte del nemico, i beni spariti. La conceria era stata distrutta, i macchinari in gran parte dispersi; tuttavia qualche lavoro di conciatura si faceva ancora. Giovanni e Maddalena Rinoldi erano ormai anziani. Erano stanchi, e non solo a causa della guerra. Avevano molto lavorato, e dolcemente si stavano avviando al tramonto dell'esistenza. Rico, che aveva preso parte alla guerra uscendone con il grado di Tenente del Genio, aveva iniziato a esercitare la sua professione. Il carattere si era col tempo profilato: era un uomo un po' freddo, tutto precisione e esattezza, animato da un kantiano senso della responsabilità e del dovere. Uno dei suoi problemi, del resto- oltre a fare l'ingegnere- era tentare di riabilitare la conceria, dare nuovo impulso alla centrale, ammodernarne i macchinari, ormai superati dallo sviluppo industriale, e rafforzare in sintesi il progresso e la prosperità della famiglia. Federico richiedeva frequentissimamente, per la centrale, depliants di ditte estere, in particolare tedesche ( la Moenus di Francoforte, la Osram, ecc. ), che nel campo della siderurgia erano insuperabili, e che avevano delle filiali in Italia. L'ingegnere si stava facendo onore. Gli incarichi, le richieste di collaudo, gli appalti per progetti di acquedotti o tramvie cominciarono a moltiplicarsi sulla sua scrivania. Di conseguenza all'uomo- che si era guadagnato la fama di persona posata- fu proposto di diventare consigliere comunale. Fu la prima di una lunga serie di cariche ( che a Federico parevano non dispiacere ), dovute anche all'enorme numero di enti, associazioni e comitati che in quel periodo si stava venendo a creare. Cirillo scrisse da Padova, dove era stato messo in collegio, lamentandosi del cattivo vitto, dello scarso spazio a disposizione, della severità con cui era trattato. Il fratello promise che sarebbe venuto presto a trovarlo, ben sapendo- oberato da impegni com'era- che quel " presto " sarebbe significato come minimo di lì a un mese. Il capofamiglia era lui, ora che i vecchi se ne stavano andando e le sorelle si erano quasi tutte sposate. Giovanni faceva il ragioniere a Tolmezzo, dove aveva trovato diciottenne un impiego presso una banca; era simpatico, e si stava facendo conoscere proprio in virtù di quel carattere allegro, aperto e gioviale che gli rendeva facili i rapporti col prossimo. Nel 1923 Federico sposò una giovane veronese, nobile per parte di madre, che aveva conosciuto durante il suo periodo come tenente in quella città. Maria Bevilacqua era una donna di grande bellezza e classe: esile e diafana, con un lungo collo da cigno, occhiaie scure e carnagione d'avorio. Nonostante questo aspetto etereo, aveva un carattere battagliero e, in certe circostanze, come rivelò, molto autoritario e testardo. Zaira, la madre di Maria, era una donna dalle pose dannunziane ed enfatiche, che- secondo una moda ottocentesca- sveniva o si lasciava cadere al suolo nel caso di eventi emotivamente degni di nota, sperando- com'era auspicabile- che qualche gentiluomo venisse a soccorrerla prima che stramazzasse, magari agitando sotto il suo naso un ventaglio o un po' di melissa per farla rinvenire. Maria aveva una sorella, Domenica, detta Nika, moglie di un capitano chiamato Dario Arani, la quale scriveva una volta alla settimana dando notizie di sè e degli eventi culturali e politici del tempo, nonchè un rigoroso resoconto riguardo a una palazzina di Verona di cui era comproprietaria assieme alla sorella, popolata a suo dire " di veri balordi ". Delle cinque sorelle Rinoldi, oltre alla già citata Luigia, Maddalena aveva sposato tale Emilio Capellaro, friulano, anch'esso emigrato a Passau, splendida cittadina bavarese alla confluenza del Danubio con l'Inn; Teresa e Maria erano andate spose a Gemona; Letizia, una bella fanciulla alta e mora, si era fidanzata con un giovane del paese, e con lui si sarebbe presto sposata. Nei primi anni '30 Tolmezzo era una cittadina simpatica e luminosa, racchiusa quasi esclusivamente entro il perimetro delle sue medievali mura, che si andava tuttavia sempre più sviluppando ed estendendo in larghezza. Una Cooperativa, il Duomo, alcuni alberghi, l'ufficio postale, un servizio tramviario, qualche fabbrica erano i suoi nuclei fondamentali. Quello che maggiormente avrebbe colpito un eventuale visitatore era forse tuttavia la luce: una luce intensa, dorata in molti mesi dell'anno, che si refletteva sulle facciate pastello della via centrale o sul neoclassico fronte del Duomo, creando al suolo forti e contrastanti ombre, riscaldando l'aria e rendendo visibile il frastagliato orizzonte. Una luce strana, insolitamente calda per una città di montagna, ma non inspiegabile se si tiene conto che Tolmezzo è collocata al centro di una grande ed assolata conca, con montagne alte e incombenti ma un po' discoste, e quindi facilmente raggiungibili dai raggi del sole. Giovanni Rinoldi, ormai uomo fatto e ragioniere da vari anni, attraversava dunque la via centale sotto la luce di cui abbiamo detto, con un'aria professionale e da rubacuori allo stesso tempo. Immaginiamo l'ombra della sua figura- elegantemente vestita- profilarsi al suolo mentre, fermo all'ingresso della Cooperativa Carnica, discute con qualcuno,- forse un gestore della Cooperativa stessa- o mentre si reca nel vicino tabacchino a comperare le sigarette Giovanni, a differenza di Rico, era un uomo piacente, dal volto aperto e regolare, e dalla figura sportiva e squadrata. Il locale che a Tolmezzo frequentava più volentieri era il " Carnia ", pensione con trattoria, un po' periferico. I piatti locali e l'atmosfera viva del luogo non erano tuttavia l'unico motivo per cui il direttore della Banca Cattolica si attardasse lì: l'albergo era condotto da Rosina, figlia del proprietario Giovanni Monai, e da qualche tempo la donna era la sua fidanzata ufficiale. Rosina era un tipo minuto, dal bel viso di taglio ungherese o polacco, dai capelli biondo miele pettinati alla Virginia Woolf e gli occhi intensi e un po' languidi. Era intelligente, e a differenza di molte donne di allora sapeva ottimamente leggere e scrivere. La famiglia Monai- del vicino paese di Amaro, arroccato su un ripiano alle pendici di un alto monte- era stimata. Gli zii- uomini robusti e dotati di vistosi baffi alla Stalin- erano costruttori all'estero; un altro era arciprete a Gemona. I Monai erano facoltosi, anche se avevano sofferto durante la guerra. Erano stati profughi, fuggendo precipitosamente da Amaro alle prime avvisaglie dell'avanzata nemica. Viaggiando al chiuso su una tradotta di munizioni, erano giunti in Calabria; di qui si erano trasferiti a Montecompadri, sui Colli Albani, dove le figlie erano state mandate in collegio; e qui la madre, Orsola, era spirata di infarto, probabilmente a causa delle terribili emozioni del viaggio. Rosina aveva quattro sorelle e due fratelli. Le sorelle- Lucia, Giovanna, Maddalena e Maria- erano graziose e sveglie, dotate di una certa caratteristica attitudine al protagonismo e al litigio. Famose erano le scenate tra loro per il possesso di un vestito, di un pettine, di un prelibato boccone che avevano adocchiato a tavola. Tutto comunque, nella grande casa posta in cima al paese, a parte queste scemenze filava liscio. La famiglia era unita, anche a causa dei dolori subiti che, anzichè dividerla, l'avevano rafforzata, e se non altro per la terribile autorità del padre, che con uno sguardo era capace di cambiare l'atmosfera del luogo dove entrava, appianando così qualsiasi contrasto. Correva ad ogni modo voce che tutti i Monai- nessuno escluso- avessero, per quanto riguardava i rapporti con l'esterno, caratteri terribili, e soprattutto una vena di latente follia che si manifestava spesso in età avanzata. I due fratelli di Rosina si chiamavano Giuseppe e Vittorio. Giuseppe studiava da geometra e si sarebbe potuto definire alsaziano o gitano, con occhi azzurri dalle palpebre spioventi e un'enorme massa di capelli neri e arruffati che gli ricopriva il viso. Vestiva da dandy, con strane ghette ed eccentrici cravattini che avrebbero fatto invidia a Isadora Duncan Vittorio, l'ultimogenito, era un tipo meditabondo, con un'espressione malinconica e una fisionomia che si sarebbe detta alla Majakowskij, lo sguardo triste che si perdeva lontano quando il ragazzo guardava, dalla terrazza di Amaro, verso il Fella o verso le Alpi Giulie, o giù giù, verso le ghiaie che, attraverso il Tagliamento, conducevano al Friuli. Cirillo Rinoldi era diventato un venticinquenne alto e simpatico, attraente, gioviale. Era ragioniere, e anche lui, come il fratello, lavorava alla Banca Cattolica. Aveva una vena di lieve, simpatica follia. In gioventù era stato colpito da una strana varietà di febbre che aveva reso lievemente strabici i suoi magnifici occhi azzurri. Cirillo- che come tutti i fratelli Rinoldi amava molto bere- morosava con una ragazza di Caneva, Lina. Accadde però un fatto strano. Lina aveva una sorella, Maria, e Cirillo cominciò ad attaccare bottone anche con lei. Un giorno improvvisamente si trovarono soli; Maria rimase incinta, ma ebbe una bambina che morì poco dopo il parto. Successivamente rimase incinta anche Lina, che invece partorì un maschietto,- a lei somigliantissimo- che però Cirillo non volle riconoscere, anche dal momento che lui e Lina non erano ancora sposati. Dante- così venne chiamato il bimbo- fu perciò allevato fino ai sette anni in un orfanotrofio, con un cognome fittizio, diverso da quello del padre. Più tardi Lina e Cirillo si sposarono, e Dante potè finalmente uscire allo scoperto; ma la cosa suscitò nel paese un certo scalpore, la moglie non venne mai completamente accettata dalla famiglia, e così Cirillo, Lina, Dante ed anche Maria ( con la quale l'uomo non aveva smesso di trafficare ) vivevano tutti assieme un po' discosti in una piccola casa in fondo al paese. Lina e Maria uscivano poco, camminando spesso radente i muri per cercare di non farsi troppo notare. Nonostante Giovanni fosse fidanzato ufficialmente con Rosina Monai, qualche anno prima anche a lui era successo un increscioso incidente. I fratelli Rinoldi, possedendo un piccolo esercizio pubblico, ordinavano le loro forniture di birra presso la Dormisch di Udine, allora molto fiorente. Inoltre, disponendo di alcuni campi e stalle, vendevano a clienti sceltissimi i loro prodotti caseari. Un giorno Genoveffa Dormisch, figlia del proprietario della ditta, conobbe Giovanni mentre era venuto a discorrere di affari col padre, e se ne innamorò. Da allora cominciò a ordinare da lui birra e formaggio in grandissime quantità, che poi- non sapendo che farsene- regalava alla cugina o alle cognate. Due volte al mese arrivavano a Caneva delle lettere molto private indirizzate " al signor Giovannino " il cui contenuto cominciò un po' alla volta ad andare ben oltre la consueta richiesta di latticini. Genoveffa era una fanciulla languida e romantica, con grandi occhi celesti, amante del cinema e totalmente astratta dalla realtà. Naturalmente sapeva benissimo che Giovanni era in procinto di sposarsi, ma nel suo orgoglio di figlia di industriale e nella sua ansia di sognare a tutti i costi come nei film, non se ne curava. Giovanni dal canto suo non si preoccupò di interrompere il carteggio in tempo, nè di trattare a un certo punto gli affari direttamente col padre. Rosina frugando di nascosto nelle tasche del fidanzato trovò una lettera di Genoveffa e scatenò un putiferio. Il giorno dopo si recò a Udine e, sapendo che la rivale sarebbe passata tutta in ghingheri a una certa ora per via Gemona, la aspettò e la affrontò a viso aperto, dicendo tra l'altro peste e corna della birra del padre. La scena- osservata da alcuni passanti- finì a ombrellate. Tornata a Tolmezzo, Rosina fece quindi una terribile scena a Giovanni, simulando un attacco di cuore e minacciando di rompere il fidanzamento e di uccidersi se egli non avesse immediatamente interrotto i contatti con i Dormisch; il che venne immediatamente eseguito. Federico e Maria avevano avuto due figli: Gianandrea e Margherita. Erano bambini diafani, custoditi sotto una campana di vetro, dalla salute più che mai delicata. Venivano educati con serietà e rigore, forse un po' isolati dagli altri. Uno dei pochissimi svaghi che avevano erano le lezioni di musica. Gianni era sempre ammalato, e spesso risultava difficile distinguerlo dalla sorella, dato che si somigliavano e dato che veniva spesso inspiegabilmente vestito da bambina, con fiocchettini, trine e cascami che ben poco avevano di funzionale e di logico; unica eccezione in quella casa regolata per il resto dalla precisione, dalla funzionalità e dal sentimento prussiano della praticità e del dovere. Il matrimonio tra Giovanni e Rosina avvenne nel 1933, e fu una kermesse semplice ma significativa, con una grande quantità di invitati. Al pranzo, la sposa fece portare il " vitello tonnè ", che aveva personalmente preparato da abile cuoca qual'era. Il viaggio di nozze fu a Roma, con brevi puntate in Abruzzo e in Toscana. Rosina- che era rimasta colpita in particolare da Volterra- era raggiante sotto il suo cappellino di seta. Giovanni era altresì sereno e disteso. Al ritorno avevano promesso di passare a salutare il suocero e padre. Giovanni Monai aveva raccomandato loro caldamente questo impegno. Tuttavia al rientro da Roma si sentirono stanchi, e così, invece di passare ad Amaro, rincasarono direttamente a Tolmezzo. Il vecchio- offeso nella sua dignità di patriarca- rivelò a questo punto, in un curioso " exploit ", quella vena di latente ed esibizionistica follia per la quale i Monai erano famosi. Giunto all'Albergo Roma di Tolmezzo, irritatissimo per non essere stato ossequiato, si sedette a un tavolo. Qui si fece portare, su un vassoio, ventiquattro uova crude, che ruppe e inghiottì, con aria da giocoliere, una dietro l'altra, sotto lo sguardo attonito dei presenti. Giovanni e Rosina erano felici, anche se ogni tanto Giovanni si attardava troppo in qualche osteria, e Rosina era costretta a venire a riprenderselo, spesso attendendo di fuori, non essendo decoroso per lei inoltrarsi in quei locali densi di chiacchiere, di effluvi di vino, di colpi di briscola, di rumori e di fumo. Era un febbraio del 1935. L'inverno era rigidissimo, era molto nevicato, e a Tolmezzo- come in altre località d'Italia- la temperatura era di dieci gradi sotto zero. Da Verona, Nika e Dario avevano scritto lamentandosi dell'enorme quantità di carbone consumata per riscaldare la casa. Giovanni si alzò come tutte le mattine, fece colazione, poi si vestì come suo solito per andare in banca. Rosina aveva un lampo di timore negli occhi. " Non è prudente che tu vada " gli sussurrò preoccupata. L'uomo era di salute cagionevole; ultimamente aveva tirato tardi, ed appariva perciò più indebolito del solito. " Dì che sei ammalato, chiedi qualche giorno di riposo " lo supplicò la moglie fermandolo per un braccio. Giovanni si liberò dalla stretta. Voleva compiere il suo dovere, e pazienza se la notte prima era rientrato a casa piuttosto alticcio, e senza mangiare nulla si era buttato direttamente sul letto. Forse aveva qualche linea di febbre, infatti non si sentiva per la verità piuttosto bene, ma la banca non poteva aspettare. L'uomo indossò il cappello e uscì. Il freddo era veramente polare, gli sembrò che il sangue gelasse. Di ritorno da Tolmezzo, esattamente a metà del ponte, Giovanni si sentì male. Tra i fiocchi di neve che gli imbiancavano la tesa del cappello, si accasciò su se stesso, afferrandosi dolcemente al parapetto di ferro. La bicicletta cadde senza un rumore sulla soffice coltre del suolo. Due passanti lo trasportarono immediatamente a casa, di peso. Arrivò il medico. Giovanni rantolava. " Broncopolmonite fulminante " fu il verdetto. Rosina si torse le mani, chiamò la donna di servizio, preparò un cataplasma. Il bambino, di cinque mesi, fu mandato in una stanza con la balia. Improvvisamente le grida della moglie invasero la casa. Ne imbevevano le spesse mura, raggiungevano e ristagnavano nelle stanze come una cascata d'acqua cui fosse stato tolto il portello. Si capiva che non c'era più niente da fare, e Giovanni spirò qualche ora dopo. Dario e Nika continuavano, da Verona, a scrivere. Nika si lamentava sempre della gente che popolava il condominio. A suo dire erano tutti troppo vecchi, o portavano con sè mobili troppo fuori moda, o non erano mai puntuali nel pagare l'affitto; il che era vero, perchè in Italia nel 1933 la miseria e la disoccupazione avevano toccato il fondo. Per fortuna la situazione si stava ristabilendo. Un giorno ci fu a Verona una scossa di terremoto. Nika scrisse una cosa che non potè non suscitare l'ilarità di tutti: a casa sua e di Dario era caduto un pezzo di soffitto, ma per fortuna non aveva danneggiato un servizio di ceramica umbra che si trovava sul tavolo. Nel '36 scoppiò un'epidemia d'influenza. Dario morì. Nika continuò freddamente a mandare le sue lettere, dense di numeri e di simboli matematici, dove più che parlare della Battaglia del Grano o della Guerra di Libia, o dell'ultimo spettacolo dato all'Arena, si diceva che c'era una ringhiera da riparare o che la signorina Ferroni non teneva bene il suo appartamento. Nika era bravissima nel prendere informazioni sugli inquilini che popolavano il condominio, saggiando a fondo le loro generalità, anche se lo faceva con un certo fastidio, da figlia della buona società veronese quale era o si considerava, che come tale non doveva mescolarsi troppo con le fasce sociali " inferiori ". Giovannino Rinoldi era un bambino intelligente, un po' triste. La madre- invecchiata di dieci anni dopo quel lutto- cominciò a curarlo morbosamente. Nelle fotografie appariva spesso vestito alla marinara, e con la pomata Rosina gli disegnava un artificioso ricciolo sulla fronte. Il nonno materno aveva sostituito per quanto possibile il padre. " Papanonno "- così lo chiamava il bimbo- aveva perso un occhio a causa di un cancro, ma aveva affrontato l'operazione con spirito, come si addiceva a un Monai; e ora girava con quella cavità vuota sotto la fronte, nè per questo il suo cipiglio era diventato meno duro e autorevole. La sua aria austera tuttavia scompariva quando si trattava di coccolare il nipote, per il quale si sarebbe svenato. Rosina aveva chiamato a vivere presso di sè la sfortunatissima sorella Giovanna, della quale condivideva in parte il destino. Giovanna aveva perso anch'essa il marito, e in più- in pochissimo tempo- anche l'unico figlio, morto per un appendicite curata male. Erano tempi di facile mortalità in modo particolare per i bambini. E Rosina non a torto temeva anche per il suo. Giovannino infatti si ammalò presto di paralisi infantile, una malattia terribile che di solito non lasciava scampo, o comunque lasciava minorati. La donna non sapeva più a che santo votarsi. Si ricordò di essere devota di Don Bosco. Presa dalla disperazione fece dire delle messe, pregò giorno e notte. Giovannino effettivamente guarì, ed anzi raccontò, col suo vocabolario sgrammaticato, di aver visto per un attimo il volto del Santo comparire ai piedi del letto. Il bimbo aveva avuto una balia, Nene, che aveva una storia curiosa. Molti anni prima Nene aveva avuto un figlio. Nel 1928 ci fu in Carnia una scossa di terremoto, che distrusse due o tre case a Caneva e molte nei paesi vicini. Non ci furono morti ad eccezione di questo bambino, il quale per puro caso si trovava, durante la scossa, in un vicoletto che gli crollò sopra. Nene non aveva avuto più figli, ed ora allattava a pagamento quelli degli altri, forse illudendosi così di stringere al petto in qualche modo il suo. Maria Bevilacqua Rinoldi si recava tutte le settimane al Caffè Manzoni di Tolmezzo. Andava a incontrare più o meno segretamente l'amante, un alto ufficiale trentino conosciuto durante un viaggio al mare. Vestita interamente di nero, con lunghi guanti e un bocchino d'avorio dal quale aspirava il fumo, la bellissima donna attendeva in silenzio, in un tavolino appartato del fondo, osservata con sdegno e riprovazione da altre signore più tradizionali o forse, semplicemente, meno all''avanguardia di lei. Il marito sapeva della relazione, ma da galantuomo fingeva di ignorarla, forse per non turbare la quiete domestica o scatenare inutili polveroni. Rosina aveva accettato la vedovanza, ma aveva anch'essa i suoi momenti di crisi. Diventava un uragano quando si trattava di difendere l'onore del figlio. I putiferi che scatenava erano memorabili, sconvolgevano mezza Carnia. Un giorno piantò una terribile grana perchè il direttore dei Salesiani di Tolmezzo non aveva ammesso alla funzione Giovannino ( che andava a scuola lì ), colpevole di avere una microscopica toppa sul vestito. Da quella piccola donna, sempre trafelata, si scatenava un'energia spaventosa, capace di traumatizzare con due parole. Ogni tanto parlava a Giovannino del padre, che il bimbo vedeva nel grande ritratto fatto fare a Cividale da Giuseppe Bront, posto al centro della sala da pranzo, sotto al lampadario a sei bracci di stile olandese; e glielo descriveva " tanto buono, e tanto attaccato alla sua famiglia ". Cirillo non aveva smesso le sue " malefatte ". Dalla banca di Tolmezzo era stato trasferito alla filiale di Buia. Da qui un giorno, stufo della vita piatta e monotona che conduceva, arraffata la cassa con tutti i denari, con un volo in mongolfiera scappò in Tripolitania, dove impiantò alla meglio una fabbrichetta di sale. In seguito chiamò le sue donne, il figlio e altri di Caneva a vedere l'africana " Premiata Fabbrica Cirillo Rinoldi ", descritta come una delle sette meraviglie del mondo, la quale però chiuse dopo un po' di tempo per mancanza di fondi. Più tardi aprì un ristorante, ma da generoso qual'era- e soprattutto notando che era frequentato da molti suoi compaesani- iniziò a dar da mangiare gratis. Così fu coniato il motto " Ristorante Rinoldi...si mangia senza soldi! " Ovviamente questo trattamento fece sì che anche quella pur simpatica iniziativa fallisse. La casa di Caneva era bella, circondata com'era da ippocastani, abeti e frutteti, piena di luce, alta come un castello a dominare tutta la zona. La donna di servizio era Nora, una giovane del paese, dall'animo delicato, nata dall'episodica avventura della madre con un soldato austriaco mai più rivisto. Rosina l'aveva presa in casa volentieri. La ragazza girava con un grembialino ed una cuffietta sempre nitidissimi, faceva il bucato, badava ai polli, curava l'orto, serviva a tavola nel caso di pranzi importanti o meno importanti. Appena la padrona suonava il campanello che pendeva sopra il suo letto, Nora si presentava. Rosina le voleva bene e di lei si fidava a scatola chiusa. Diceva sempre: " Nora la potete mettere nell'oro, e vedrete che non vi tradirà ", a garanzia e conferma di un'onestà e di una correttezza secondo lei eccezionali. Anche Rico si era informato per avere la sua donna di servizio, e non avendone trovate a Caneva, si rivolse ad un suo amico di Zenodis, il quale gli scrisse che " Sì, ragazze ce n'erano, ma erano da sconsigliarsi perchè troppo volubili ". Così ripiegò su Melania, una donna del paese. Melania e Nora non si potevano vedere: ambivano entrambe, come del resto le loro padrone, a signoreggiare su quel luogo, pur essendo gli appartamenti di Maria e Rosina rigorosamente divisi. Nora essendo nobile d'animo andava d'accordo con tutti, ma Melania non la poteva proprio soffrire- questa le faceva delle cattiverie, cercava di screditarla agli occhi della sua padrona. Un giorno le mise del carbone nella lisciva con cui doveva fare il bucato. Nora sopportò in silenzio; tuttavia ci fu un episodio piuttosto grave. A Rosina era sparito un tappeto, e Melania fu la prima a giurare di aver visto Nora trafugarlo di nascosto. Rosina ci credette, e sia pure a malincuore la licenziò; si accorse poi invece, con grande sgomento, che il prezioso oggetto era stato dimenticato in soffitta facendo le pulizie. Questa maldicenza costò il licenziamento anche a colei che l'aveva fatta, e così, sia Rosina che Rico si dovettero ingegnare a cercare altre donne di servizio, il che non era facile perchè in quei tempi di crisi, ed essendo la Carnia in genere povera, le persone oneste erano veramente poche. Ogni tanto Rosina si recava a Martignacco, dove aveva acquistato dei possedimenti e dove aveva una casa. Andava a controllare i coloni, o ad assistere alla nascita di un vitellino, o semplicemente a riposarsi e a prendere il fresco. Gianandrea e Margherita, quattordicenni, d'estate si dedicavano alla musica. Gianni suonava il violoncello, Margherita lo accompagnava alla spinetta. Dal giardino, Rico, Cirillo, Maria, Giovannino e Rosina ascoltavano, assieme a qualche altro, quella musica che proveniva dalla camera dei ragazzi. Con un po' di fantasia si sarebbe potuto immaginare di essere nella Venezia del '700, tra cicisbei, maschere, gondole e crinoline. Giovannino e i cugini si recavano spesso sulle rive della Dardagna, ombreggiate e boscose, a pescare i gamberi. La conceria Rinoldi non esisteva più, e la piccola centrale era stata assorbita da altre più grandi. Rico aveva tenuto duro finchè aveva potuto, ma i tempi cambiavano. Sulle rive della roggia erano rimasti la grande ruota che dava la forza motrice ai pistoni, e il casone che una volta aveva contenuto le turbine e i macchinari per il pellame. Da Passau, i parenti scrivevano; c'era qualcosa che non andava, il clima era carico di tensione, una forza nuova e violenta, che prometteva la ripresa della Germania, ma che aveva un che di sinistro, stava salendo al potere, e tutto ciò si sentiva maggiormente in quella piccola città bavarese, dagli splendidi palazzi barocchi e dalle ricche chiese, e attraversata da tre fiumi che la facevano ricordare Venezia o Amsterdam. In Italia il fascismo aveva raggiunto l'acme. Chi voleva lavorare od emergere doveva avere la tessera del partito, e così era stato per Federico. Era l'anticamera della guerra: tutti la percepivano nell'aria, e difatti, di lì a poco, scoppiò. La nuova guerra durò cinque anni, e- specie negli ultimi- scatenò in Carnia un'inenarrabile serie di massacri, sevizie, rapine, rappresaglie e scontri armati. Dovunque i tedeschi e i cosacchi seviziavano, uccidevano, deportavano. Persino Rosina una volta era stata quasi aggredita da uno di loro, ma era riuscita a scappare divincolandosi. La Carnia era stata soprannominata " Kazachen Vaterland " . Molti giovani per combattere l'oppressione erano fuggiti come partigiani sulle montagne. Alcuni venivano scoperti e uccisi. Federico fu richiamato come maggiore a Trieste. Durante una rappresaglia, i tedeschi manifestarono l'intenzione di bruciare Caneva. Maria, Gianandrea e Margherita scapparono a Udine. Rosina si rifugiò a Martignacco. Dopo qualche giorno si venne a sapere che la casa era stata presa a cannonate e bruciata. Rosina, finita la rappresaglia, fece ritorno al paese per controllare la situazione. Tenendo Giovannino per mano, dal suo giardino in fumo guardò lontano, oltre il ponte. Così, come quel ponte ora insanguinato divideva Caneva da Tolmezzo, questi ultimi anni prima della guerra non erano stati, per lei e per molti altri, che un ponte di serenità tra due abissi, un momento di quiete tra due tempeste. Dopo una tempesta ne cominciava subito un'altra, questo aveva concluso. La vita non era che un alternarsi di tempeste, ed oltre alle tempeste individuali di ciascuno, ora c'era stata anche la guerra. La vita era questa, chissà cosa ci sarebbe stato ancora. E così- secondo la sua ottica- bisognava vivere giorno per giorno, pregare, ringraziare Dio per ogni momento in più che ci concedeva, senza illudersi che la quiete sarebbe durata a lungo. La normalità erano i guai, le disavventure e la morte. Trovarsi vivi, godere buona salute, poter mangiare erano un privilegio, come lo era camminare sull'erba nel giardino di casa o il fatto stesso di avere una casa, quella casa che lei aveva tanto amato e di cui ora era rimasto un troncone fumante. Era un privilegio che Giovannino non fosse morto di paralisi infantile, o che lei stessa non fosse stata uccisa sul ponte durante lo scontro a fuoco tra partigiani e tedeschi, come era successo a una donna che lei conosceva. Se non si moriva per la guerra si moriva per qualcos'altro, bastava un colpo di vento o una nevicata improvvisa. Rosina osservò un'immagine sacra che aveva riposto nel taccuino, e che ogni tanto tirava fuori, assieme a una ciocca di capelli- neri come il carbone- di quel bellissimo uomo che Giovanni Rinoldi era stato. Si morse le labbra, decise che anche stavolta ce l'avrebbe fatta, che la vita sarebbe continuata, oltre che per sè stessa, per il bambino. Ma grosse lacrime le scendevano giù per le guance, il pianto le arrossava il viso, e il cuore le faceva disperatamente male. Anni di speranza Il 1954 fu per Giovannino Rinoldi l'anno dell'iscrizione all'Università. A Milano, Rosina gli aveva trovato una camera presso una signora, non molto distante dall'ateneo. La signora era gentile, e la camera gli piaceva. L'impatto con l'ambiente universitario fu meno freddo del previsto. Ma allo stesso tempo si sentiva disorientato, come ci si sente quando un mondo completamente nuovo ci si apre davanti. Nei primi giorni Giovanni conobbe un ragazzo svizzero chiamato Giancarlo. Veniva da Lugano, e si era iscritto anch'egli a Giurisprudenza. Scambiavano qualche parola. Appariva intelligente ed equilibrato, ma come si poteve dire? Giovanni l'aveva appena conosciuto. Lucianino era invece un minuto studente anche lui friulano, anche lui al primo anno di corso; uno sportivo agile e dinamico, sempre pieno di iniziative e di idee. Giovanni dalle prime osservazioni concluse che Lucianino era uno spirito pratico; in lui prevaleva il senso dell'azione più che della riflessione; il suo pensiero era sempre diretto e subordinato a qualcosa di concreto: un esame, un viaggio, il conseguimento insomma di un risultato visibile. Giancarlo rivelava rispetto a lui un temperamento più filosofico e incline alla meditazione, volto ad esaminare tutte le sfumature e i casi particolari dell'esistenza. Lo svizzero era meditativo e paziente quanto Lucianino era rapido e sintetico, a volte brusco. Forse proprio in virtù di questa contrapposizione, anche Giancarlo e Lucianino socializzarono tra di loro. Peter frequentava invece Lettere e Scienze Politiche. Era un ragazzo chiassoso e un po' megalomane, incerto su quello che avrebbe voluto fare della propria esistenza, ma convinto che sarebbe diventato qualcuno di estremamente importante. Sembrava capitato lì come per caso, e dava l'idea di oscillare tra un certo idealismo mistico e l'aspirazione al successo, un successo di stampo sicuramente politico. Magari intendeva diventare presidente degli Stati Uniti o qualcosa del genere, ma- pareva- nelle sue ambizioni c'era una vena di autentico, genuino spirito umanitario. Megalomania, ambizione, indecisione, idealismo, frenesia ed estro si mischiavano in Peter in un cocktail che- notò Giovanni- qualunque cosa lui avesse fatto, col tempo si sarebbe rivelato curioso. Era nata da poco la DC, la quale stava facendo di tutto per scongiurare l'avvento del Comunismo in Italia. Giovanni sapeva che in altre università, in altri atenei, c'erano giovani- atei e materialisti, marxisti e rivoluzionari- che la pensavano in maniera piuttosto opposta alla sua. Tra due anni- nel '56- ci sarebbero state le elezioni. Il pericolo comunista era stato segnalato dalla DC come un terribile spettro, ma la vittoria- si diceva- era piuttosto scontata, date le circostanze sociali del momento. L'Italia era cattolica; i comunisti c'erano, ma erano tuttavia una minoranza rispetto ai democristiani, e gran parte della gente non avrebbe voluto qui una seconda Russia. Giovanni si specchiò nel vetro della bacheca. Piccolo di statura, con lineamenti da furetto, un naso lungo ed aguzzo era la sua principale caratteristica. Aveva però belle mani, bei capelli neri pettinati all'indietro, uno sguardo vivace ed indagatore. Sarebbe piaciuto a una milanese? A Tolmezzo non aveva finora trovato molte ragazze che gli piacessero; più che altro non si sentiva in armonia intellettuale con loro. Eppoi, Rosina ne era gelosa: leggeva tutte le lettere o i biglietti che quelle gli mandavano. Ma forse a Milano ce ne sarebbero state di altre che gli sarebbero piaciute, e alle quali sarebbe piaciuto lui. Si sedette a un tavolino e ordinò un aperitivo. Bere gli piaceva, e lo poteva fare meglio ora che sua madre non lo controllava. Pensò che gli sarebbe piaciuto possedere una macchina, magari una 600 come quelle che vedeva girare lì attorno; quando l'avesse avuta, sarebbe potuto venire a Milano- e rientrare- da solo, e non con il treno, che a volte lo stressava un po'. Rosina era diventata allo stesso tempo una
madre e un padre; si era fatta forte negli anni, ed era diventata dura, a tratti
quasi mascolina. Non aveva più pensato a risposarsi. Almeno nel viso, si poteva
dire anziana. Dispiaceri, fatiche, la guerra, la ricostruzione della casa, e un
naturale processo di decadimento avevano sortito questo effetto. Tuttavia- a
parte qualche artrite lombare- era ancora attivissima, dotata di energia e
spirito pratico eccezionali. Inoltre si teneva bene e faceva la sua figura. La
casa, assieme al cognato, l'aveva ricostruita recuperando più che poteva i
materiali, indebitandosi fino al collo. E ora la teneva come uno specchio-
foderava i cassetti, dappertutto metteva la canfora contro le tarme, dava e
ridava la cera sul pavimento di legno. Tornò dalla signora Comaschi- la sua affittuaria- e trovò una cartolina di lei. Sarebbe arrivata entro una settimana. Mise le sue cose a posto, si fece la barba, depose il programma sul tavolo, si accese una sigaretta. Fuori tramontava, e si sentì solo. Milano era immensa attraverso i vetri, e chissà in quale punto della città lui si trovava. Si sentì smarrito in quella stanzetta che, anche se vi abitava ormai da parecchi giorni, per il momento non riusciva ancora a sentirla sua. Rico e Maria per ragioni di lavoro si erano trasferiti a Udine, e venivano a Caneva solo d'estate. La loro vita si svolgeva tranquilla, lontano dalla mondanità e dai clamori. Rico aveva moltissimi impegni. Nel bel palazzo dove abitavano tutto era come sempre regolato dalla precisione e dall'esattezza. Giovanni ci pensò e si sentì sgomento. A lui quello stile di vita non piaceva, o- meglio-, si sentiva combattuto tra forze opposte, tra il desiderio dell'ordine, metodo e razionalità che Rico possedeva, e quello di essere anticonformista, disordinato, di spezzare le regole, le barriere e certi schemi come aveva fatto Cirillo. Quale delle due tendenze avrebbe prevalso? Si sarebbero conciliate armonicamente o avrebbero continuato a lottare all'infinito dentro di lui? " Il nostro Giovannino è diventato più luminoso " osservò zia Anita servendo un vassoio di melone e prosciutto. " Già, da quando sta a Milano ha in parte una vita sua ", pensò zio Bepi. Rosina e il figlio si erano recati in visita a Cividale, dal fratello geometra. Bepi non assomigliava più ora a un gitano, bensì ad Albert Einstein; i suoi capelli si erano fatti grigi, a tratti bianchi. Non metteva più quelle ghette e quegli eccentrici cravattini; più che a un artista, assomigliava ora a uno scienziato pazzo, e aveva uno sguardo che inceneriva come quello del padre. Tra i vari fratelli e sorelle, era quello con cui Rosina si trovava di più, al quale si rivolgeva più frequentemente per un consiglio o un aiuto. Con le sorelle- a parte Giovanna che ormai aveva quasi subordinato alle sue direttive- Rosina andava d'accordo molto saltuariamente. A volte- soprattutto con Lucia e Maria- non ne sopportava la semplice presenza, e quando c'era da mantenere vivi i contatti famigliari preferiva accogliere in casa le nipoti, o utilizzarle come intermediarie fra lei e " quelle rebecche ". Margherita si era fatta una bella ragazza. Aveva i lineamenti diafani ed aristocratici della madre e la volontà di ferro del padre. Si era da poco sposata con un avvocato più anziano di lei. Gianandrea, diventato geometra, lavorava col padre; era un carattere morbido; gli sarebbe bastato vedere un passerotto per intenerirsi; tutto sommato era più influenzabile e condiscendente della sorella. Nella casa di Caneva erano arrivate delle novità: il telefono, la televisione. Erano stati fra i primi ad averli. Rosina mise in cantina la radio e si dedicò al piccolo schermo. Dalla sua poltrona seguiva " Lascia o Raddoppia? ", e ne scriveva a Giovannino. Questi la sconsigliava di " seguire una trasmissione così frivola e sciocca ", che però, al bar Magenta di Milano, seguiva anche lui. Zio Cirillo continuava la sua vita eccentrica e apparentemente astratta dalla realtà. Beveva sempre, aveva donato un asilo a Caneva, e, visto che teneva alla vita paesana, ora si dedicava alle sagre di beneficenza, escogitando nuovi metodi per far divertire la gente. Da un po' aveva inventato il sistema dei palloncini: lui ed altri lanciavano dalla piazza del paese, in occasione della festa di S. Bartolomeo, dei palloncini colorati pompati con gas, con appesi spiritosi messaggi. Alcuni trovavano il biglietto e rispondevano: dalla Polonia, dalla Romania, dalla Norvegia; una volta ne arrivò uno persino dalla Russia. Cirillo- diceva la gente- era così, come uno di quei palloncini: inconsistente, leggero, aereo, staccato dalla terra e dalla realtà. Era come se avesse sempre vent'anni, e faceva sempre spiritose battute. Gli amici di Giovannino l'avevano trovato impagabile, e nelle lettere mandavano sempre i saluti per lui. Rosina non lo apprezzava; per lei questa eccentricità, quel pensare così spesso alle sagre, quei palloncini ripieni di gas erano fuori luogo, una frivolezza, un capriccio, un insulto alla praticità e alla serietà della vita, che era fatta per lavorare e stancarsi, magari facendosi i calli, e non per perdere tempo nelle piazze o sulle mongolfiere forse mangiando anche lo zucchero filato come gli americani. In un impeto di irritazione aveva detto al figlio:" Se continui così, diventerai come zio Cirillo ": voleva dire un pagliaccio, uno stravagante che perdeva i suoi anni in cerca di nuove trovate per stupire la gente, senza tutte le cariche e gli avanzamenti nel tempo che invece erano toccati a Federico, all' " ingignîr ", del quale ella aveva al tempo stesso soggezione e stima. La donna desiderava in realtà che il figlio intensificasse il ritmo di studi. Federico ogni tanto mandava delle lettere in cui dava delle direttive per la manutenzione della casa o del giardino; ma siccome la cognata a volte gli rispondeva picche, o contestava spese a suo dire inutili, l'uomo passò a scrivere al nipote, che, ormai ultraventenne, poteva dirsi responsabilizzato. Il giardino- diviso in due da un sentiero di piastrelle ottagonali- era il vanto di " Siore Rosine ", che lo curava anche per conto dei cognati. Da una ditta aveva fatto arrivare un cedro del Libano, che aveva trapiantato lì. Le aiuole erano ornate da dalie e gladioli, ma soprattutto- grande passione della donna- da cespi di ortensie. In un angolo c'era un piccolo gazebo piastrellato, con tavolini e poltrone in vimini. Un ruscello gorgogliava sul fondo, circondato da siepi, e attraversato da un piccolo ponte, che poteva far pensare all'Oriente. Il giardino era delimitato da grandi abeti e da qualche ippocastano che sovrastava la casa. Una scaletta di pietra conduceva nell'acqua. Alle piante coltivate si aggiungevano quelle spontanee: violette, ranuncoli, primule e pratoline sparse qua e là. Ragni crociati tessevano la tela tra un ramo d'edera e il calicanthus. Rosina dedicava alla cura del giardino molte ore. Quando non faceva ciò, o non doveva badare alla casa, o non era a Milano dal figlio, inforcava la bicicletta e si recava a Martignacco dai coloni, controllava le rendite, dava aria alle stanze. Alla toelette " Jugendstil " che
aveva a Caneva, si truccava come una diva nel camerino. La crema, il cerone, la
cipria, un filo di rossetto. Maria Bevilacqua si aggirava invece spettrale, in palandrana nera, reggendosi con un bastone per via di un'artrite che l'aveva resa leggermente zoppa. Superati i sessanta, aveva quasi tutti i capelli bianchi; il volto si era ridotto a una specie di elegante teschio, nel quale gli occhi risaltavano più che mai aggressivi e insolenti. Non aveva perso la sua tempra di ferro, e ogni tanto, picchiando per terra con il bastone, sparava una battuta in veronese, talmente esplosiva e raggelante che perfino Rosina stessa non la comprendeva del tutto. Zia Letizia era anch'essa ormai quasi anziana. Era l'unica delle cinque sorelle di Rico, Cirillo e Giovanni che fosse rimasta in Carnia. Era un donnone dalle guance cascanti che la facevano assomigliare quasi, vagamente a un soufflè. Faceva vita ritirata e appartata; ogni tanto- quando le forze glielo permettevano- dava una zappata all'orto. In cucina, una fiammella artificiale ardeva giorno e notte dinanzi all'immagine del Sacro Cuore. Viveva col marito e i tre figli, prossimi a sposarsi. Di poche pretese, sempre modesta, Letizia era fervorosa nel seguire le pratiche religiose: non perdeva mai una funzione, il venerdì si guardava bene dal mangiare carne, onorava volentieri la memoria dei morti. A maggio recitava il Rosario, e quando non era in casa era sempre in chiesa di fronte al Tabernacolo, o inginocchiata suun banco. Lina e Maria, le " donne di Cirillo ", dopo tanti anni non si facevano più problemi in merito a quello che avrebbe potuto dire la gente. Dante si era fatto un giovanottino roseo e pacioccone, senza però la " verve " e lo spirito anticonformista del padre. Le due microscopiche donne,dall'immenso naso ( che assieme al fratello Tòful potevano ricordare senza offesa una famigliola di gnomi ) quasi per un senso di lieve espiazione si davano da fare giorno e notte per pulire la chiesa, svuotare i vasi, lustrare il Santissimo, tirare a lucido il pavimento di marmo. Nel fare quei lavori erano infaticabili, e la chiesa risplendeva per merito loro. Giovanni studiava spesso e volentieri di notte; a suo dire si concentrava meglio. Si faceva legare alla sedia da Lucianino, il quale dormiva in stanza con lui e la mattina veniva a slegarlo. Studiava con frenesia, leggendo e rileggendo più volte, tra lattine di Coca-Cola e pacchi di sigarette, destrosio e qualche pastiglia di corroborante. Gli amici gli passavano libri e dispense, lo tenevano informato su scadenze ed appelli, ma insistevano perchè studiasse di più. La materia gli piaceva- era stato lui a scegliere Giurisprudenza- ma spesso i testi erano difficili, le lezioni pesanti, e a volte era costretto a passare e ripassare ossessivamente su un concetto, un'espressione giuridica, il paragrafo di un trattato, per capirne pienamente il senso. Per l'esame di Diritto Coloniale si preparò studiando per quaranta notti di fila. Aveva periodi di grande attività ed altri in cui non faceva niente, avrebbe voluto solo bere, o fare chiasso con gli amici, o visitare la Fiera o lasciar perdere tutto. Lui e Lucianino si erano scoperti la passione per la montagna. D'estate si recavano sulle Dolomiti. Stazionavano in qualche rifugio, arrampicavano su campanili e pareti, transitavano sui canaloni. Lucianino era diventato un rocciatore provetto, e gli insegnava tutte le tecniche alpinistiche. Un giorno aprirono con le picozze un sentiero in Val Montanaia. Quei periodi nei rifugi- dove comunque si portava i libri- lo beneficavano.; si concentrava e meditava. Il silenzio, l'imperiosità e la quiete senza tempo delle montagne, lontane dalla frenesia della città, lo rilassavano e lo avvicinavano a qualcosa che, genericamente, si sarebbe potuto definire " soprannaturale ". Rosina gli aveva comperato la tanto sospirata 600, che però " Gjovanin " utilizzava preferibilmente per girare quando tornava in Carnia. Giancarlo si era comperato una Lambretta, con la quale venne un giorno a trovarlo da Lugano, ricambiando la visita che l'altro gli aveva fatto tempo prima, quando assieme erano stati in barca sul lago ( Giancarlo era un ottimo rematore ). Lucianino conobbe una ragazza che cominciò ad adorare morbosamente, aspetto curioso dato i suoi ordinari senso critico e razionalità. Giovanni era corteggiato da Cristina, una bionda studentessa di Lingue, di ottima famiglia, che Giancarlo definì " un angelo ". Cristina gli scriveva spessissimo, anche dai viaggi che- per motivi di studio- faceva all'estero. Rimproverava affettuosamente Giovanni per la sua attitudine al bere, che lei aveva scoperto e che la addolorava moltissimo. Gli amici le raccontavano delle sue sbronze. Una volta era saltato fuori da un cinema talmente marcio che non ce la fece a tornare a casa, e dovette passare la notte su una panchina. Cristina soffrì indicibilmente di ciò. La DC aveva vinto le elezioni. Il clima generale era piuttosto sereno, disteso; c'era molto benessere, e Lambrette o Giuliette dalla linea sempre nuova spuntavano ovunque. In giro si respirava serenità e voglia di vivere. Giovannino si accorse che gli sarebbe piaciuto
fare politica. Ne aveva parlato a Giancarlo, a Lucianino e ad altri, i " La politica è una cosa sporca "
gli scrisse Giancarlo da Lugano. Margherita aveva divorziato, non si sapeva bene in base a quale procedimento ma non con troppa difficoltà- malignò Rosina- visto che aveva sposato un legale. " I legali sanno trovare tutti i cavilli " pensò Giovannino " e anch'io diventerò come loro: un trafficone ". Il matrimonio era fallito clamorosamente. La ragazza- che aveva avuto un bambino- era rientrata a Udine dai suoi, mogia mogia. Si era iscritta anche lei all'Università.
Quando era tornata a vivere con loro, i genitori le avevano detto una frase che
era rimasta storica: Un'estate Giovannino, Giancarlo, Peter e Dante si recarono in macchina a trovare i parenti bavaresi. Passau era splendida, adagiata com'era sui suoi tre fiumi e con la sua profusione di stilemi medievali e barocchi. I parenti furono come sempre molto gentili. Il cugino Daniel portò Giovanni e gli amici a visitare lo splendido Duomo, metà gotico e metà barocco, che racchiudeva l'impianto organistico- si diceva- più grande del mondo. Le vecchie zie Rinoldi- Maddalena e Luigia- erano morte, ed ora rimaneva una schiera di loro figli e nipoti, cinque o sei in tutto. I cugini possedevano una fabbrica di tabacchi, che negli anni si era sempre più estesa. Peter fu deliziato nel provare le nuove e stranissime qualità di sigari che Daniel gli presentava; li fumava dandosi un tono più gangsteristico e americano che mai. Fece ridere tutti con la sua imitazione di Humphrey Bogart. Giancarlo era affascinato dalla bellezza della città, e spesso, per ammirarne i monumenti, rimaneva indietro rispetto alla comitiva. Giovanni non si era mai sentito così felice. Fecero una gita sul Danubio, in battello. Il cugino Gianfilippo, che, più anziano di Giovanni, si era laureato da poco ed ora insegnava in un liceo della città, illustrò nel suo buon italiano, mentre il battello ci passava a fianco, l'immenso palazzo vescovile di Passau, a picco sul fiume, dove- pareva- tanti secoli prima era stato vescovo un carnico. La famiglia di Peter per motivi di lavoro si dovette improvvisamente trasferire a Los Angeles, e il ragazzo dovette seguirla. La cosa dispiacque a tutti. Nelle prime lettere dall'America il giovane scrisse che non aveva intenzione di continuare gli studi- per i quali del resto non era mai stato particolarmente portato-, anche se non si capiva bene cosa stesse facendo o cosa avesse intenzione di fare. Dopo un po' Lucianino scoprì cosa faceva: aveva trovato un posto come rivenditore presso un mercato ortofrutticolo di pessimo ordine; più che altro si trattava di spiattellare ai clienti vini di infima qualità e fare passare per buoni prodotti in realtà destinati al macero. Lui stesso diceva che era un imbroglio, e infatti si firmava " Peter the cheater ". Si era fidanzato con una irlandese volgare e truccatissima di cui aveva mandato la fotografia. Giancarlo, cui le donne piacevano molto, la definì " orribile ". Diceva di stare bene, col tono entusiasta ed energico che aveva anche prima della partenza, ma tutti capivano che non era così. Inoltre non aveva perso la speranza di diventare un giorno importante, magari governatore o " Presidente degli Stati Uniti ", come sottolineò Lucianino reprimendo un sorriso. Giovanni pensò che se un giorno lo fosse diventato realmente, lui e Peter avrebbero avuto la loro rivincita- quantomeno, lui sarebbe stato nominato primo ministro. E avrebbero mandato in mona gli altri. Giovanni aveva un nuovo amico: Pieralberto. Era figlio di un industriale del vino emigrato a Milano negli anni '20. Un ragazzo educato, ma eccessivamente aggressivo e dinamico nello stile di vita, tutto velocità, denaro, macchine e donne. Il suo modo di parlare era brusco e scattante. Faceva finta di lavorare nell'azienda del padre, che in realtà impoveriva. Vero playboy, cambiava macchina e fidanzata ad ogni stagione, ed oltre alle fidanzate ufficiali ne aveva un certo numero di clandestine, che avevano a loro volta le loro esigenze. Rosina da che lo conobbe manifestò simpatia per lui, e non vedeva l'ora di invitarlo a pranzo o di averlo in casa, forse anche in virtù di una specie di " nome "- dovuto più che altro a buoni comportamenti dei genitori- che la sua famiglia si era costruita nel tempo. Rosina, se da un lato era felicissima che il figlio si fosse " milanesizzato ", superando gelosie e possessività varie, dall'altro soffriva e si tormentava di quella sua incostanza negli studi. Quel figlio per cui aveva fatto- e stava facendo- di tutto, non la ripagava a dovere, non si impegnava sul serio, aveva mille appuntamenti e distrazioni, e chissà che grilli gli passavano per la testa. In fondo Giovannino era un po' strano, contorto, come gli altri nella famiglia ( e non solo in quella paterna ); eppure tutti dicevano che era intelligente, che grazie alle sue qualità e alla sua signorilità avrebbe fatto senz'altro strada. A Tolmezzo molte persone lo ammiravano e lo tenevano in palmo di mano. Un giorno la madre gli trovò in tasca un biglietto della morosa. C'era scritto: " Inseguire una palla che rotola per una strada di montagna, e non riuscire a prenderla, dà almeno la soddisfazione di fare del moto; ma cercare di seguire le tue idee e non capirti mai, è deludente per chi tenta. Chi ti capisce è bravo. Baci, tua Cris ". Cristina le era davvero piaciuta, un giorno che " Donna Rosa " ( così la chiamavano gli amici del figlio ) era venuta a Milano; e non le sarebbe dispiaciuto se prima o poi " Giovanin " l'avesse sposata. In fondo un buon matrimonio era quel che ci voleva dopo la laurea. E Cristina- oltre a piacerle per la sua spontaneità ed educazione- aveva tutti i requisiti per essere un buon matrimonio. Era educata, fine e gentile, ed inoltre un po' sottomessa come dovevano essere secondo lei le mogli. D'accordo, non era la principessa di Svezia. ma a questo mondo ci si doveva accontentare. In ogni caso era di buona famiglia, e con lei Giovannino avrebbe fatto la sua figura. Pieralberto era di casa a Caneva. Sempre in giacca e cravatta, profumato di dopobarba, capelli irti tagliati a spazzola, le mani spatolate che rispecchiavano il suo carattere aggressivo e squadrato, la voce metallica ricordante il suono di una tipografia, lodava le trippe, elogiava il brillio del " parquet ", lo splendore dei bronzini e dei vasi di rame, colpendo così il punto debole di Rosina oltre al figlio: la casa. Giovanni pur continuando a studiare, a rinnovare sia pure discontinuamente la camera a Milano e le iscrizioni agli esami, si annoiò a un certo punto della frenesia e della meccanicità di Milano, che ormai erano parte integrante della sua esistenza. Per quell'anno disdisse la camera e tornò in Carnia. Era un po' in crisi, non sapeva più esattamente cosa voleva, si sentiva a volte preso dall'abbattimento, dal desiderio di lasciare, di fare qualcosa di diverso. Fece amicizia con un assessore della sua città, uomo stimato e ricco di interessi, che si dedicava ad attività culturali. Assieme ipotizzarono di organizzare un circolo che in quella città mancava. Gli era nata la passione del cinema, soprattutto da quando aveva visto a Milano certi films di Resnais o Pasolini, e così si abbonò alla migliore rivista cinematografica in circolazione. Pensò che sarebbe stato bello organizzare nella sua città uno di quei Cineforum che si tenevano a Milano, con films impegnati alla Bresson o alla Bergman, autentici eventi che facevano discutere il pubblico, e dopo i quali si teneva sempre un dibattito. Venivano a presentarli critici o persone di alta cultura, e qualche volta persino il regista stesso. Accennò ai suoi progetti anche a zio Federico, che, essendo stato eletto sindaco, era tornato per un po' a vivere nel suo paese natale. Sulla scrivania trovava spesso lettere di Lucianino e Giancarlo, e moltissime ne arrivarono da Cristina. Erano tutti affettuosi; Cristina appariva dispiaciuta di non vederlo più, si augurava un prossimo ritorno a Milano, e anche- un po''- tentava di ingelosirlo raccontandogli di altri ragazzi che la stavano corteggiando. Giovanni si accorse improvvisamente di non amarla, come " quell'angelo " avrebbe esattamente voluto. C'erano degli aspetti della vita che in quel momento lo coinvolgevano maggiormente, interessi, letture, ambizioni, talenti da sviluppare; ed inoltre al momento era troppo inquieto , per quanto Cristina fosse effettivamente affettuosa. Momenti di perfetta serenità- si rese conto- erano quando si recava con Lucianino nei rifugi, contemplando all'alba la creazione e le bellezze della sua terra. Iniziò a fare delle supplenze di latino e italiano- preferiva insegnare-; si accorse che lo entusiasmava. A tratti riprendeva comunque lo studio del diritto, chiudendosi in camera oppure facendovisi chiudere da zia Giovanna, la quale depistava eventuali visitatori. Rosina era di nuovo a Salsomaggiore. Un giorno sentì dei sassi sul vetro: era Pieralberto, al quale come al solito la zia aveva detto che lui non c'era. Salì per la grondaia, si fece aprire. Come al solito veniva a chiedergli denaro, " per finanziare il lancio di un nuovo tipo di vino che avrebbe avuto certamente un successo strepitoso ". Tra un viaggio a Martignacco per controllare la nascita di un vitello e una zappata al giardino, " Siore Rosine " organizzò un pranzo per il figlio del senatore G., che Giovanni aveva ritrovato a Milano. A tavola si sforzò di capire cosa il figlio del senatore- già perfetto politicante come il padre- dicesse tra una forchettata di riso alla barcaiola e una presina di salsa verde. Quando non capiva ( e cioè sempre ) annuiva, oppure rivolgeva lo sguardo al figlio, che, certamente, da intellettuale quale era, se la sarebbe presto sbrogliata. In ogni caso tutto quel parlare era per lei un onore: quel nome era altisonante, e nel caso lei avesse dei dubbi, glielo confermava Giovannino. Rosina il giorno dopo ripetè quel nome- ed altri- alla parrucchiera:" Il figlio di G....nipote del ministro T....un pranzo importante...no, non li stiri...è un bel giovane...sì, la solita tinta mattone...tanto amico di Giovanni...ecc.". La casa di Caneva acquisiva sempre più tono, importanza. Giovanni ormai conosceva un'infinità di persone. Poco mancava che venissero il sindaco di Milano, o Padre Turoldo o il rettore dell'Università Cattolica in persona. Peter? E chi se lo ricordava? Ah, sì, era stato lì tempo prima. E ora che faceva? Il balordo, a giudicare dall'insieme. E Giancarlo? Chi erano di fronte al figlio del senatore, che si stava impegnando, come il padre, " per un sensibile miglioramento dello stato generale dei problemi amministrativi all'interno dell'organigramma italiano? " Rosina in quei momenti dimenticava per un attimo la sua maggiore preoccupazione, e cioè che Giovanni si trovava ancora piuttosto lontano dal conseguire un risultato che tutti gli altri avevano già raggiunto. I suoi amici si erano ormai laureati, ed ora esercitavano presso studi legali; forse di lì a poco ne avrebbero aperto uno in proprio. E Cristina? Perchè non si sentivano più? Non si erano mica lasciati? La situazione, se confrontata alle altre, appariva in netto svantaggio. " Crede di poter vivere all'infinito senza mai lavorare di suo " pensò invelenita Rosina. Era troppo stanca in quel momento per prendere un treno e recarsi a parlare col rettore dell'Università, così attraversò il ponte e si recò dal direttore dei Salesiani- quello stesso cui tanti anni prima aveva fatto una scenata per la toppa sul vestito di Giovannino ( ma ora chi se ne ricordava più? Era passato tanto tempo! ). Fece dire due messe, versò un'offerta all'Istituto, e chissà che anche questa volta Don Bosco non l'avesse esaudita. Giovannino aveva ritardato consapevolmente il momento della laurea perchè come molti studenti aveva chiarissimo un concetto: questa avrebbe coinciso con la fine di un certo periodo- il più spensierato, disimpegnato e libero della sua vita- e l'inizio delle responsabilità; responsabilità infinitamente maggiori di quelle che aveva avuto finora. Anche per questo ( o forse inconsciamente solo per questo! ) aveva tirato così per le lunghe. Sapeva che molti studenti, anche dopo la laurea, rimanevano a Milano, trovavano lavoro, continuavano a gravitare attorno alla Cattolica e a fare i goliardi, ridendo e bevendo con le matricole ai primi anni di corso. Era un modo, oltre che per sfuggire alle responsabilità, anche per sentirsi magari più giovani, ma tutto ciò non era da lui. Sarebbe stato patetico. Pensò agli amici. Erano loro che dovevano aspettarlo, o era lui che doveva raggiungere loro? Propese per la seconda ipotesi. Peter scrisse: aveva cambiato nuovamente lavoro, ora bazzicava in una compagnia di investimenti, anche lì truffe, denaro sporco, diceva che l'America era tutta una truffa e che anche lui si sentiva un ladro. Giovanni provò una stretta, non per quest'ultima affermazione ( Peter come al solito esagerava ), quanto perchè Peter era ormai lontano, irrimediabilmente, e il tono forzatamente ottimistico, da gangster vincente tutto sigari e gomma americana, che adottava nelle lettere, serviva- Giovannino lo sapeva- ad impedire che alcune lacrime sgorgassero e gli bagnassero il foglio. Un pomeriggio, girando la manopola del televisore, zia Giovanna colse al volo una notizia terribile. Una sciagura atroce era successa in una zona tra il Friuli e il bellunese, non molto distante in linea d'aria da dove abitavano loro. La cima di una montagna era caduta in un enorme bacino idrico; l'acqua, una gigantesca ondata alta un centinaio di metri, aveva varcato la diga e si era riversata sui paesi sottostanti, cancellandoli letteralmente dalla faccia della terra. Giovanni ne fu sconvolto. L'acqua- che in altri tempi e in altri luoghi, come per esempio a Caneva, era stata, per molti, fonte di sostentamento e di vita- qui aveva improvvisamente mutato volto e si era trasformata in un apocalittico, orribile strumento di devastazione e di morte. Giovannino uscì e tornò a guardare la sua Dardagna; sua e dei suoi antenati, dove questi avevano impiantato i primi opifici e dove lui, bambino, si recava con una canna o con le mani a pescare i gamberi. Eventi lieti o terribili si succedevano in varie parti del mondo; il tempo in ogni caso scorreva, e lui aveva ormai ventinove anni; la Dardagna però rimaneva sempre la stessa; così verde, trasparente, boscosa. Era vero. i bisnonni l'avevano monopolizzata, strappandola un tratto per volta ad altri forse meno bravi nel trafficare con carte e notai; ma erano tempi difficili, e bisognava lottare per sopravvivere. in fondo avevano anche aiutato il prossimo, e forse non avevano sfruttato i loro operai. Sì, Giovanni era certo che gli avi riposassero in pace, nella cappella che si erano costruiti lassù, su quel cimitero arroccato alla sommità di un monte, accanto alla chiesa che dava sulla valle del Bût, e dove ogni tanto lui andava a trovarli, portando una dalia o un ranuncolo per suo padre. Almeno loro avevano avuto una tomba, a differenza degli abitanti del Vajont, dei quali non era rimasta una tibia. Il ragazzo rabbrividì. Da quel cimiterino arroccato sulla montagna, quando ci andava, il paese gli appariva piccolissimo, e da lì era più facile accorgersi della rapidità con cui gli anni passavano, le generazioni si susseguivano. Un soffio, e lui da ragazzo era diventato uomo; un altro e sarebbe stato più vecchio, forse si sarebbe sposato, e avrebbe avuto dei bambini, i quali a loro volta sarebbero cresciuti e diventati grandi; forse sarebbero andati all'Università come lui; un altro soffio e sarebbe stato anziano, a meno che qualche accidente lo portasse via prima. E la mamma ( ora la vedeva, là alla finestra, mentre fumava di nascosto la sua sigaretta ) quanto sarebbe ancora durata? Sarebbe vissuta a lungo o se ne sarebbe andata presto? Zio Cirillo era morto l'anno prima, di colpo. Giovannino si liberò da una lumaca che, arrampicandoglisi su di un braccio, gli sbavava la giacca. Si sentiva fortunato a vivere in quella zona del mondo, ad avere una casa, a poter mangiare e dormire, leggere e giocare a carte, a poter fare tante altre cose. Non riusciva però- per qualche misteriosa ragione, a lui stesso ignota- ad amare e a stimare completamente se stesso. E gli mancava un padre. Gli venne in mente che Sant'Agostino aveva detto che il tempo in realtà non esiste: è una " distensio animi ", un'illusione della nostra mente, creata per disporre le cose secondo un " prima " e un " dopo ". Tutto in realtà era sempre presente. E a tratti gli sembrò di vedere, sulla superficie liscia della Dardagna, quella ruota marcia girare, riprendere forza tra lo scroscio dell'acqua, avviare i pistoni; e tre o quattro operai, là fuori, indaffarati a portare all'interno un mucchio di pelli. Gli parve anche- era solo un sogno?- di poter vedere il futuro. Osservò tre o quattro bambini festanti- i suoi figli?- che un pomeriggio di primavera si aggiravano intorno a quelle rive cacciando le cavallette o tentando di intravedere nell'acqua i gamberi, quei famosi gamberi di cui aveva loro tanto parlato, ma che ora, da lungo tempo, non c'erano più. " Tutto è sempre presente " si disse, mentre Rosina dalla finestra gli faceva segno. " Bambino, adulto e vecchio decrepito sono in fondo la stessa persona ". Tornò a Milano. Gli mancavano due esami per raggiungere il tanto sospirato pezzo di carta. Decise che li avrebbe dati entro un mese. Diede una revisione alla tesi, che ormai aveva cominciato a preparare. Ancora un po', e sarebbe stata pronta per essere battuta e discussa. Pensò alla città dei suoi studi, quella città dove esattamente dieci anni prima, di fronte a un bicchiere di bianco, aveva festeggiato la sua èntree; tra poco, decise, avrebbe festeggiato l'uscita. Milano gli sarebbe mancata, e sarebbe rimasta nel cuore di tutti; così le sbronze, le avventure, le notti passate a studiare assieme, le scalate in montagna, i locali, la Fiera, il destrosio, e tante altre cose ancora. Ora però era il momento di abbandonarla, di prendersi delle responsabilità, di lavorare nel senso più comune del termine. Era la vita. Milano gli era stata amica, non come in certi romanzi dove, a certi personaggi, alcune città si rivelano fatali. Era stata una città seria, almeno con lui; ma ora la vita faceva il suo corso. Guardò dalla finestra accanto alla scrivania. Il Grattacielo Pirelli si ergeva, lineare e maestoso, a poche decine di metri in linea d'aria da lui; si sarebbe detto la Tour Eiffel locale, un simbolo del progresso, del dinamismo, di quegli anni che in fondo erano stati- per lui e per i suoi amici, forse anche per altri- anni di speranza, di rinascita, di fiducia nell'umanità e nel futuro; anni di spensieratezza e ideali. Anni di giovinezza, anche. Tuttavia, la vita faceva il suo corso. Aveva conosciuto una ragazza di cui si era innamorato seriamente. La cosa lo riempiva di trepidazione. " Speriamo che Cristina lo sappia il più tardi possibile ", si disse " o che non lo sappia mai ". La vita faceva il suo corso. Altre matricole, altri Giancarli, altri Giovannini sarebbero venuti a Milano, ingiacchettati e impacciati, da tutte le parti del mondo. Lui sarebbe definitivamente tornato a Caneva. Una tappa, forse la più indelebile e indimenticabile della sua vita, si era- volente o nolente- conclusa.
RINGRAZIAMENTI Zio Rico per le carte che inavvertitamente ha dimenticato in cantina, e che mi hanno aperto un inaspettato spiraglio sul passato di Caneva e degli antenati. Papà per aver dimenticato in soffitta il comò con le sue lettere del periodo universitario. Renato Muner, Michele Gortani e Pio Paschini per alcuni libri da cui ho tratto preziose notizie sul paese e sulla sua gente.z Il gatto Dido, un fornelletto elettrico, il tè " Lapsang Souchong ", la tranquillità di Caneva, lo spirito dei miei cari, e tutto ciò che mi ha tenuto compagnia nelle lunghe notti di stesura di questo lavoro. Francesco Rinoldi 4-7-1997 P.S. Un grazie particolare a
Cristiana Amadei e a mia sorella Lisa, le Che Dio me la mandi buona!
(Estratto dalla rivista "Sot la Nape" della Società filologica Friulana n. 2-3 1993 pagg.79-85)
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