La casata dei Moro di Ligosullo
prima "cramârs" e poi industriali

di Paolo Moro

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Tempo fa, abbiamo affidato un interessantissimo "ex voto" conservato nella chiesa di Ligosullo al restauratore DalIa Valle di Tolmezzo. Tale ex voto è una preziosa testimonianza storica della vita nella nostra Carnia nel secolo XVIII e ritrae tre "cramârs" di Ligosullo mentre ringraziano S. Antonio e S. Nicolò per uno scampato pericolo.

In occasione del suo restauro, pubblichiamo (in tre puntate) un articolo già apparso sulla rivista friulana "Sot la Nape " (luglio ’93 n. 2 e 3, pagg. 79 89), frutto di una accurata ricerca di Paolo Moro da Priola di Sutrio, che già abbiamo conosciuto per un suo precedente studio sulla pala di S. Nicolò della stessa chiesa.

È da notare che i tre personaggi del quadro, appartengono alla famiglia Moro dalla quale è uscito l’antenato del nostro Paolo, emigrato a Priola nel 1660.

Questo lavoro dunque è anche un atto di omaggio a una famiglia che ha una storia della quale la comunità di Ligosullo può essere orgogliosa.

Gli abitanti di Ligosullo, come quelli di tanti altri piccoli centri alpini, hanno una storia di emigrazione che probabilmente risale alle origini del borgo, ma che sicuramente trova il momento di massima espansione a partire dalla metà del secolo XVI. Si tratta, come è noto, di un fenomeno che ha una direttrice privilegiata verso i paesi del nord della catena alpina, come la Carinzia e la Baviera, ma che non ricusa neppure talvolta mete molto più vicine, a patto che garantiscano benefici consortili e libero utilizzi dei beni comunali. Questi ultimi sono indubbiamente casi isolati visto che tra le ville con maggior numero di assenti primeggiano proprio quelle che si dichiarano disposte a ricevere questo tipo di accoliti. Naturalmente le cause generali di questo fenomeno migratorio sia stagionale che permanente, sono svariate: si evidenziano la pressione demografica, l’impoverimento delle risorse locali, i fenomeni congiunturali dovuti alle stagioni inclementi e ai raccolti scarsi, o la concomitanza di tutti questi fattori.

Nel caso di Ligosullo non furono certamente favorevoli gli sviluppi della causa intentata nel 1644 dal conte Orazio di Coloredo che provocò, nel 1656 la perdita da parte della vicinia di ben 981 ettari di pascoli del monte Dimon, molto importanti per l’economia del paese. Ad aggravare la qualità della vita degli abitanti e a logorare le loro già precarie condizioni ci fu nel 1650 un furioso incendio che distrusse l’intero paese, formato da case con basse murature e tetti di paglia.

Ligosullo nel 1679 conta ben 30 merciaioli, emigranti in diversi paesi: 17 in Franconia, 6 in Slesia, 4 in Carinzia e 3 in Stiria, e siccome le famiglie prevalenti a Ligosullo sono soltanto tre, i Craighero, i Moro e i Morocutti, questi appunto erano i nomi dei primi merciai ambulanti, pionieri di una inedita ricerca di progresso e di civiltà che, soprattutto nel corso del ‘700 alimentano nuove speranze per la propria famiglia e il borgo d’origine.

Una di queste famiglia, per merito di un suo componente, un certo Giacomo Moro, (di un omonimo Jacobus di Ligosullo si ha notizia addirittura in una pergamena del 25 aprile 1403), dopo un avvio in graduale ascesa con il commercio stagionale avrà un enorme successo in campo industriale con la produzione di stoffe nella vicina Carinzia.

Bisogna partire dal 1630, quando ser Cristoforo Moro, figlio di Henrico, risulta proprietario della "Casa Moro" a Ligosullo ed è anche padre di sei figli, dei quali il primogenito Pietro, nato a Ligosullo il 1º novembre 1617, gli darà un nipote il 7 settembre 1660 che si chiamerà Giacomo, in memoria dei ben quattro fratelli con questo nome morti prematuramente.

Giacomo Moro, che muore a Ligosullo il 2 novembre 1733, viene definito "nobile" in una nota a pagina 22 del registro dei morti dell’archivio parrocchiale di Ligosullo. Lo stemma nobiliare documentato per la prima volta in un ex voto del 1729, è dunque da attribuire ai meriti e alle fortune di Giacomo, antesignano della famiglia nei commerci oltralpe.

Una versione successiva con qualche variante dello stesso soggetto araldico era raffigurata in una tela di epoca imprecisata che esisteva fino nel 1940 in casa Moro a Ligosullo e lo stesso stemma è anche descritto nel "Taschenbuchs 1905 der Adeligen Hanser Österreichs" alla voce "von Moro".

Andrea Moro, figlio di Giacomo, nasce a Ligosullo nel 1700, sposa Domenica Morocutti nel 1737 e muore sempre a Ligosullo nel 1779. Anche lui verosimilmente percorrerà la strada dell’emigrazione stagionale. Dal matrimonio con Domenica nasceranno quattro figli, Giacomo, Cristoforo, Giovanni e Pietro. Giacomo il primogenito nato il 30 gennaio 1738 sarà il solo tra i fratelli a rimanere a Ligosullo fino ad età avanzata, quando si trasferirà a Karback, vicino a Viktring in Carinzia, presso il figlio maggiore Andrea, nato dal matrimonio con Maria Morocutti.

Pietro, nato a Ligosullo nel 1751 e rimasto celibe, esercita la sua attività mercantile a Lubiana, e rientra a Viktring in seguito a una malattia che lo porta alla morte all’età di 54 anni. I due fratelli Cristoforo e Giovanni invece decidono di emigrare in Austria, come avevano fatto il nonno e il padre, ma questa volta convinti di poter fare meglio, di poter applicare il loro mestiere di tessitori, che nel paese d’origine non poteva essere valorizzato, per assicurarsi un avvenire meno precario. Sono gli anni fiorenti dell’impresa Linussio e un numero sempre crescente di giovani vengono attratti dal miraggio dei facili e immediati guadagni. Ma così non è per i fratelli Moro che sono a Klagenfurt nel 1785. Con idee chiare sul da farsi iniziano a spron battuto la fabbricazione di stoffe. Appena tre anni dopo, nel 1788, Cristoforo e Giovanni, che hanno rispettivamente quarantacinque e trentacinque anni, acquistano per quasi 10.000 corone una parte del convento cistercense di Viktring, vicino a Klagenfurt, già soppresso da Giuseppe II, e vi costruiscono una fabbrica tessile sottola ragione sociale "Gebruder Moro". La fabbrica prese il nome di "Morosche Tuchfabrikation" e rimase di proprietà della famiglia fino al 1899, quando edificio e ditta passarono alle famiglie Aichelburg-Zossenegge e Dreihann-Ho-lenia. Dopo il fallimento della nuova gestione nel 1967 la repubblica austriaca acquistò l'edificio, lo restaurò e nei locali istituì un liceo musicale.

Il successo dell’impresa Moro viene suggellato nel 1816, quando i soci fondatori vengono insigniti della nobiltà austriaca con stemma di riconoscimento e col titolo di indigenato o di incolato della Carinzia nella condizione di cavaliere, e nel 1819 con l’ulteriore onorificenza del cavalierato ereditario austriaco con miglioramento di stemma. Nella loro residenza di Viktring i Moro richiamano importanti pittori paesaggisti come Markus Pernhart e Lwdvig Willroider. Anni più tardi, nel 1888, la "Klagenfurt Zeitung" scriveva che la tessitura dei Moro impiegava 800 operai con un fatturato di 500.000 ducati all’anno. L’imperatore Francesco Giuseppe in seguito ad una visita alla tessitura di Viktring disse che era "magnificamente guidata", a riprova che la dimensione degli utili e la strategia aziendale della fabbrica era funzionale alla politica imprenditoriale del governo. Ma torniamo a Cristoforo che aveva sposato Josefa Foregger, vedova Greifenthurn nel 1779, quindi prima di emigrare a Klagenfurt. Questo matrimonio celebrato nella Schloskapelle a Weruberg il 24 maggio del 1779 ci dimostra che a partire da quest’anno egli già frequenta la Carinzia. Il 1785 è pertanto l’anno in cui alla periferia di Klagenfurt avvia assieme al fratello Giovanni la prima piccola tessitura.

Dei suoi sei figli nati a partire dal 1780, Andrea diventa socio della ditta assieme a Francesco; Antonio dirige la fabbrica di stoffe della "Walk an der galn" presso Klagenfurt, Giuseppe e Tomaso amministrano la signoria statale di Viktring e la signoria di Mageregg e Ehrenhausen acquistata dalla ditta nel 1840.

Tomaso inoltre fondò, e diresse la "Landwirtschaft Gesellschaft fur Kirten" e anche la Cassa di Risparmio della Carinzia. Francesco, Antonio e Tomaso avranno altri figli e nipoti che continueranno nella conduzione aziendale fino all’estinzione del casato. I cugini invece, figli di Giacomo, si erano stabiliti in Carinzia, impiegandosi nella ditta "Gebruder Moro" come Andrea, o fondando a Klagenfurt una fabbrica di tessuti di seta come Cristoforo, oppure diventando amministratore e giudice della signoria statale di Viktring, come Pier Antonio.

Anche se tutti erano nati a Ligosullo, dove come si ricorderà Giacomo era rimasto fino a tarda età, solo Domenica Leonarda farà ritorno al paese natale vivendo nella "casa Moro" con suo marito Nicolò Craigher.

Ed è proprio a Ligosullo che bisogna tornare per riprendere le tracce di questa industriosa famiglia, e sono tracce che hanno un sapore di fatica e di ostinata determinazione, e che prendono l’avvio da un quadro votivo dalle insolite dimensioni per una donazione privata, datato 28 giugno 1729, conservato da quel tempo nella chiesa parrocchiale di S.Nicolò a Ligosullo.

Sulla tela è fissato l’attimo cruciale della disavventura capitata a tre appartenenti alla famiglia Moro, che hanno rischiato di perdere la vita durante un guado.

Il quadro presenta parecchi aspetti interessanti, a partire dalla identificazione dei tre devoti (che lo stemma nobiliare qualifica, al pari della didascalia, come appartenenti alla nobile famiglia liussana) e del luogo e delle circostanze del pericolo.

Non vi è dubbio che il pittore che ha dipinto l’ex voto sia locale, dato che si ispira alla pala d’altare di Giorgio Monsuro da S.Daniele che è nella chiesa parrocchiale per trovare la partizione spazio - temporale del ringraziamento, e che descrive il luogo dove si svolge l’incidente e la piccola scena del guado traendolo dal racconto diretto fattogli dai committenti.

L’efficacia di questa gustosa scenetta, con i tre devoti sorpresi dalla scena delle acque durante l’attraversamento di un fiume o di un canale, viene intensificata da alcune curiosità relative all’insolito abbigliamento, composto da larghi camicioni bianchi, cappelli piantati in testa, marsina e sottana gettate sulle spalle nel tentativo di non bagnarle.

L’apparente età dimostrata dal trio genuflesso è giovanile, attorno alla trentina d’anni, ma si sa che nella produzione votiva la somiglianza fisionomica è relativa e tutto dipende dall’estro del pittore. Si tratterebbe pertanto di personaggi nati attorno alla fine del secolo XVII. Ma dato che i "cramârs" e i loro parenti si spostavano a qualunque età e con ogni mezzo da una località all’altra delle regioni frequentate, potrebbe trattarsi anche di persone più anziane, ringiovanite dal pittore.

Chi sono dunque Pietro, Francesco e Giacomo? Consultando i registri parrocchiali di Ligosullo che ci sono rimasti, scopriamo le genealogie dialmeno tre famiglie Moro oltre a quella descritta in precedenza. C’è un Pietro figlio di Giovanni di Domenico Moro, nato nel 1651, c’è un Francesco nato a Ligosullo nel 1668 figlio di Giovanni di Odorico Moro, così come c’è Giacomo Moro figlio di Pietro, chiamato "nobile", nato nel 1660, tutti viventi all’epoca dell’episodio descritto nell’ex-voto, ma ultrassessantenni e quindi con poca probabilità di essere loro i protagonisti miracolati, che appaiono elegantemente vestiti con una marsina a falde allargate, fittamente abbottonata, e nel pieno vigore dei loro anni.

Lo sconosciuto autore del dipinto mette in bella evidenza anche altri due particolari che gli vengono commissionati: lo stemma araldico dei Moro e una fortezza con mastio lambita da un fiume.

L’arma di famiglia, composta da un’aquila bicipite con volo alzato sul fondo d’oro che si riferisce indubbiamente all’imperatore Leopoldo I d’Asburgo (1658-1705) avvalora l’ipotesi che sia stato Giacomo figlio di Pietro ad ottenere l’onorificenza, in un periodo di tempo compreso fra la fine del secolo e i primi anni del ‘700, in riconoscimento dei suoi meriti commerciali e umanitari. Sarebbe così pienamente giustificata la presenza agiata e benestante dei tre mercanti Moro all’estero nel 1729, esemplari modelli di una nuova emigrazione del benessere piuttosto che della povertà, già inseriti nell’ambiente del parente precursore che aveva avviato una florida azienda mercantile.

A completamento dello stemma, nella fascia centrale, campeggia la figura del leone illeopardito con la coda bifida e in atto di reggere una piantina di more.

L’identificazione del luogo sulla base di un paesaggio, sia pure particolare, e di una fortezza anch’essa caratteristica nelle sue forme essenziali, per di più ricostruita dal pittore mediante una descrizione orale, non è sempre operazione attendibile, ma in questo caso è suffragata da molti indizi che coincidono.

Come abbiamo visto, negli anni 1760-70 già molti componenti della famiglia Moro di Ligosullo avevano stabilito i loro commerci nei dintorni di Klagenfurt, ma altri erano andati oltre, a cercare nuovi mercati, ed erano approdati sulle rive del fiume Ràba, nella lontana Sàrvàr, storica cittadina conosciuta fin dall’epoca romana con il nome di Arrabone.

Al museo carnico delle arti e tradizioni popolari di Tolmezzo, facenti parte della cospicua raccolta donata dalla generosità della prof.ssa Andreina Ciceri, sono conservati i ritratti di Leonardo Moro figlio di Domenico di Paluzza e di sua moglie Maria Anna Vanino, figlia terzogenita del signor Pietro di Naunina, nata nel 1728 e andata sposa a Leonardo nel 1750, che ci confermano la loro presenza a Sàrvàr fra il sesto e settimo decennio del ‘700. Il grande stemma o "Arma del Moro" che spicca sul fondo scuro del ritratto ci testimonia della appartenenza di Leonardo al casato liussano. La sua età è leggermente più avanzata di quella dei parenti emigrati a Viktring, a Klagenfurt e a Lubiana e lui stesso assieme alla moglie trasferirà la residenza in Ungheria subito dopo il matrimonio, nel corso degli anni cinquanta.

La cittadina di Sàrvàr nell’età rinascimentale era un centro fortificato in funzione antiturca, anello di una catena a protezione del confine occidentale. Pochi anni prima che vi arrivassero i coniugi Moro-Vanino a piantare i loro commerci si erano svolte furibonde battaglie fra i ribelli ungheresi e gli Asburgo, che nel 1705 furono ricacciati fino alla città di Sopron. Dopo questa battaglia di liberazione cessò il ruolo militare di Sàrvàr, ma la sua immagine si identificò sempre con il mastio a tre piani, le mura e i bastioni in pietra della fortezza, collegata a quel tempo da un ponte di legno che correva sul fossato e che verso la fine funzionava come porta basculante archivoltata. L’immagine della fortezza sull’ex-voto di Ligosullo ci mostra con sufficiente chiarezza il grande portale voltato e i bastioni della fortificazione pentagonale. Fra la realtà e l’immagine dipinta della fortezza esiste coincidenza anche per quanto riguarda la situazione idrologica, con un fiume Ràba che compie una grande ansa lungo il perimetro orientale del forte, e le acque del fiume Gyongyos incanalate verso il fossato sotto le mura.

È documentato inoltre che in questa zona, frequentemente invasa dalle acque, le alluvioni non erano eventi eccezionali, così come è straordinariamente forte anche la somiglianza fra i rilievi montuosi che chiudono in alto a destra il quadro e quelli che le stampe dell’epoca ci descrivono dallo stesso punto di osservazione, tanto da non permettere ragionevoli dubbi che si tratti della località ungherese.

Così la tela della parrocchiale di Ligosullo, oltraggiata da maldestri tentativi di ravvivarne i colori e da qualche anno in attesa di un restauro definitivo, si propone, oltre che come documento religioso, etnografico e storico, anche come depositaria di un interessante intreccio di motivicontestuali legati alle vicende economiche e alla realtà produttiva della Carnia settecentesca.

La storia suggestiva della famiglia mercantile dei Moro non si esaurisce certo nelle tre località citate, ma si allarga a macchia d’olio in Baviera.

Dal ramo che nel 1660 si era spostato a Priola, discende Nicolò Moro, nato nel 1745, del quale sappiamo che nel 1755 era a contatto con diversi "cramârs carnici operanti in Baviera e che commerciò in tale periodo in fazzoletti di mussola e di seta damascata, nonchè in pezze di bambagia, di mezza seta, di rigatino e berretti di Salisburgo, contando molti clienti tra medici, osti, vasai, mugnai e sellai della Franconia.

Sarebbe quanto mai interessante, oggi, approfondire le ricerche su di loro, soprattutto in Ungheria, dove ancora non conosciamo i "segni" di riconoscimento caratterizzanti la particolare attività commerciale, ma anche nella Baviera e nella vicina Austria, dove i "segni" ci sono ma non sempre compiutamente illuminati, come nel caso dei lini grezzi lavorati in Carinzia, considerati di qualità superiore, che giungevano direttamente agli opifici mosacensi e tolmezzini del Linussio. Forse ci troveremmo nuovamente di fronte agli industriosi Moro di Ligosullo.

E così potremmo avere un’idea più precisa sulla dimensione degli utili, sulle strategie aziendali e finanziarie, sulla politica imprenditoriale, il sistema delle alleanze e l’organizzazione familiare di una delle più grosse realtà economiche gestita da carnici in tempi moderni, con commerci fra carnici residenti in Carnia e carnici emigrati nelle regioni vicine.

 

(Estratto dalla rivista "Sot la Nape" della Società filologica Friulana n. 2-3 1993 pagg.79-85) Fine

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