Quando si
arriva al dunque
9° Puntata – L'assemblea
Tenere un’assemblea sindacale è tutto menché facile. Ti
incontri con quegli occhi che ti scrutano e studiano la tua postura i tuoi
movimenti, il tono della tua voce. Non sono lì ad ascoltare un concerto od
una messa cantata, sono lì perché c’è un problema, spesso molto serio,
per il quale non è detto che tu abbia la minima soluzione in tasca. Spesso
poi, dopo la tua breve relazione con la gola secca ti si accostano i più
incazzati e, visto che non hanno i coglioni di dirle in faccia al padrone,
certe cose, le dicono a te, operando un transfert odioso.
Per questo, per quella profonda frustrazione che gli arrecava
ogni assemblea sindacale Giovanni, il sindacalista di Tolmezzo si era fermato
al bar sul ponte di Sutrio ad un’ora antelucana per “prepararsi bene”.
Non teneva davanti a sé degli appunti ma un caffè corretto grappa ed un taj
di neri, per “schiarirsi le idee” diceva sempre alla barista dubbiosa.
Un’assemblea sindacale a Nevesa era un autentico avvenimento,
un indicibile salto di qualità. Per questo, come se potesse cambiare
qualcosa, gli operai più “moderati” avevano imposto le sei e mezzo del
mattino come inizio, per non “intaccare” l’orario di lavoro. La
Direzione Aziendale al semplice annuncio ne fu travolta, era un tradimento, e,
siccome tutti gli interpellati indicavano Pietro come “mandante”, si
riproposero di levarselo dai piedi il prima possibile. “I becchini in
fabbrica questo proprio no” urlava forte la moglie di Lucio in modo che,
dalla casa di Varmost, la udisse l’intero paese. Quella donna era una
cascata di capelli sopra un corpo minuto e muscoloso e, da arrabbiata faceva proprio impressione.
“Se qualcuno si azzarda a fare uno sciopero lo mando a
prendere a casa dai carabinieri, gliela faccio pagare a quello scansafatiche!
Voglio vedere se i commercianti faranno ancora credito a una manica di
delinquenti!”.
Poi ci riflettè bene. Cosa le impediva di farsi vedere
all’assemblea, senza parteciparvi, ovvio, ma semplicemente mostrando la
faccia, alle sei e mezzo del mattino, lei che non si era mai vista in giro
prima delle nove. Lucio, il marito, la sconsigliò, avevano già abbastanza
problemi senza bisogno di ulteriori polemiche ma quella continuava a ripetere
come in una cantilena:
“Ci hanno tradito, ci hanno tradito, Bestie!”.
I sindacalisti si muovevano sempre in tre, foss’anche
per un artigiano in ritardo con i pagamenti del suo unico dipendente. Ciò
aveva del paradossale ma le rigide differenze ideologiche di quel tempo
imponevano la presenza di tre sindacati Confederali ( non che adesso le cose
siano cambiate ). Giovanni osservò l’alba rosseggiare di là dei monti.
L’orario era desueto per gli altri sindacalisti che lo attendevano davanti
alla pesa ( dove venivano misurati i camion ), anche se era estate faceva
freddo e gli altri due si limitarono a un saluto veloce come a chiedere
“facciamo presto”.
I lavoratori
stavano quasi tutti sul piazzale, ormai il Rubicone era passato e occorreva
prendere una decisione sul futuro. C’era da capire se c’era ancora spazio
per una speranza o occorreva chiamare i cugini d’oltralpe ( soprattutto
Svizzera, Belgio e Lussemburgo ) per arrangiarsi un lavoro. Giovanni salutò
Pietro con tono gioviale poi tutti fecero
per spostarsi all’interno del capannone.
Qualcuno trasalì e qualcun altro rampognò quando vide la
macchina di Lucio solcare il cortile e rimasero tutti stupefatti del fatto che
anziché il Paron vi scendesse la di lei moglie Franca, che, con uno
sguardo che avrebbe tagliato i blocchi di marmo da solo, li scrutò tutti ad
uno ad uno. Poi si avvicinò ai
sindacalisti, che aveva individuato per esclusione, tese la mano al primo che
si trovò di fronte e cinguettò:
“Spero che la visita della fabbrica vi rimanga bene impressa
nella mente perché non avrete altra occasione…"
“Grazie signora, ma lei chi è?” Chiese Giovanni fintamente
ingenuo.
“Il vostro comitato di accoglienza” detto questo girò i
tacchi e si diresse verso gli uffici, teneva la chiave nella mano destra.
Allora Pietro, che oramai non sapeva più stare zitto la
apostrofò:
“Sono arrivati gli stipendi?”
Quella si voltò di scatto e con gli occhi che fiammeggiavano
di rabbia gli rispose:
“Non si guadagnano gli stipendi con le asseblee sindacali”
Qualcuno sussurrò…
“Stronza.”
Ma lei non si voltò più, sapeva chi c’era all’assemblea,
tutti meno Gabriele e un paio di operai, suoi dirimpettai. L’avevano
sentita, allora!
I sindacalisti si presentarono.
La parola toccava a Giovanni che era titolare della tessera
dell’unico iscritto di quella fabbrica, gli occhi verde acqua si
assottigliarono sull’uditorio, una trentacinquina di persone. Aveva fatto
delle indagini, sentito qualche amico negli ambienti bancari ed i suoi
sospetti erano stati confermati. La fabbrica era condannata, un pesce più
grosso aveva adocchiato il pesciolino ed era solo questione di tempo.
“La vostra è una fabbrica che fa un buon lavoro ma, per
arrivare al pareggio di bilancio occorre tempo e benevolenza delle banche. Il
punto è che il marmo di qui piace molto, i vostri semilavorati, invece, sono
cose ordinarie.”
“Cosa vuol dire?” chiese il gruista.
“Vuol dire che il lavoro che fate voi lo può fare chiunque
sia già specializzato e chiedere ai camionisti di arrivare sin qui a
prenderselo è un costo aggiuntivo, senza tenere conto che nessuno ha mai
pensato di fare delle strade decenti”.
“Non costa anche venire a prendersi il marmo grezzo?”
Chiese un altro.
“Chi possiede già un’azienda di trasformazione cosa ci guadagna da prendersi dei
semilavorati? Prende il marmo e lo trasforma a casa sua, senza aggiungere il
costo di questa fabbrica!”
La Renzine diede di gomito ad un’altra operaia che aveva nel
frattempo imbeccato a dovere:
“ E allora perché l’hanno fatta qui la fabbrica? Noi costiamo
poco, ci pagano stipendi da fame in confronto alla pianura”. Sembrava
un’ovvietà.
Giovanni allora lasciò la parola al compagno della CGIL che non vedeva
l’ora di dire la sua, non prima di essersi qualificato ed aver magnificato
la propria organizzazione. Alleati ma concorrenti, i confederali, mai dimenticarselo.
“Semplice, perché i Sorestants di allora, quando sono stati
dati i permessi e le concessioni avevano fatto un accordo tra gentiluomini, a
te il marmo a me i lavoratori…” ed emise una boccata di fumo quasi per
nascondere la malizia che traspariva da quelle parole.
Dandosi dell’idiota per
averla ceduta, Giovanni allora riprese la parola, prima che quella possibile
insinuazione ( marmo in cambio di assunzioni “agevolate” per gli amici
degli amici ) facesse degenerare la situazione:
“Per capirci meglio, i Sorestants di allora chiesero che la
manodopera del marmo rimanesse qui e fino adesso l’impegno è stato
mantenuto.”
“E cumò” “E
adesso?” un coro di voci si sovrastarono.
“Temiamo,
dico temiamo perché la Direzione Aziendale, come avete sentito rifiuta di
riceverci, che questo gruppo dirigente non sia in grado di reggere la
situazione”.
“Può darsi che arrivi qualcun altro” si lasciò sfuggire
la Renzine che, evidentemente la sapeva lunga “e se sono più
forti…”
Giovanni lasciò cadere la cosa, come se non volesse scoprire
le carte ma soggiunse:
“A meno che il filone del marmo si stia esaurendo…”
“Il marmo è pefetto” la voce di Pietro si udì forte e chiara, nessuno poteva
saperlo meglio di lui.
L’amica della Renzine rilanciò “Beh se ci saranno nuovi
soci, magari prendiamo anche gli stipendi arretrati…”
Allora intervenne quello della UIL.
“Non sognerei ad occhi aperti, adesso dobbiamo vedere se
riusciamo a tenere aperta la fabbrica, perciò vi chiediamo il mandato ad
interessare l’Associazione Industriali, altrimenti, con chi ci sta, apriremo
una vertenza…”.
Andare a vedere era l’unica cosa da fare, poiché alle
domande poste dai lavoratori in pubblico ed in privato ai proprietari le
risposte erano sempre state vaghe ed interlocutorie. Si lasciarono per
rivedersi entro un paio di settimane con la promessa di alcuni di iscriversi
ai sindacati secondo le loro preferenze.
Nell’ufficio dell’azzeccagarbugli, tre giorni dopo, ci fu
una tumultuosa riunione. Le sigarette si sprecavano così come il tono della
voce.
“Ragionier Giulivi, che cazzo è questa storia dei sindacati?
Non era nei patti, dovevamo guidarli ad un fallimento senza traumi!”
Il pingue Giulivi, guardò ridendo il suo interlocutore,
danaroso cliente dell’avvocato, lo chiameremo “lo Squalo”. “Senza
traumi? Sono quattro mesi che non gli paghiamo lo stipendio!”
E l’avvocato “Quelli resistono? Sanno bene che se vanno
avanti così si tirano dietro i sovversivi di mezzo Friuli!, Nooo mollano,
vedrai che mollano…”
Giulivi aggiunse “Loro vorrebbero accogliervi in società,
avevano preparato una lista di operai da riassumere, meno della metà… fuori
donne, cinquantenni e comunisti” lasciò la cosa in sospeso, ma nessuno
riprese quel discorso che non interessava.
Tare non si scompose. “Ci fa gioco, adesso sono davanti ad un
baratro, devono decidere o si vendono la casa di Milano o capitolano. I
sindacati ci fanno gioco, per questo gli ho permesso di fare l’assemblea”
“Cosa sei…” soggiunse Giulivi “Un padrino che pemmette
o non pemmette…?”
“Esattamente”, rispose l’altro senza scomporsi.
Lo Squalo squadrò tutti “L’affare va chiuso entro
l’anno, non posso mica perdere tutto questo tempo per ogni cava! O così, o
faccio saltare tutto”.
“Avrà ciò che desidera, prima di quello che pensa”
rassicurò Tare.
“Dì al tuo amico alla banca di concedergli una mesata,
Giulivi, e poi passa all’azione.”
“E se il fratello più grande, quello di Milano, decide di
dare loro una mano?”
L’avvocato incrociò
il suo sguardo e senza tradire emozioni rispose:
“Lo teniamo per le palle, nel vero senso della parola. Un
piccolo inconveniente a Cercivento, un inconveniente di quattro anni con due
begli occhi azzurri, come i suoi…”
“Bene, in questo caso” Tare sorrise tra sé.
Il capannone e le apparecchiature, già pagati al 60% +
interessi, erano sotto ipoteca e, con l’eventuale fallimento, sarebbero
tornati alla banca. L’Istituto di Credito avrebbe fatto smontare le macchine
per rivenderle sotto costo. Il capannone ed il terreno ceduti alla società
dello Squalo sempre sottocosto. La Banca sarebbe rientrata senza rimetterci ma i piranha erano
pronti ad azzannare la preda:. Giulivi, che avrebbe sovrinteso con una royalty
l’amministrazione delle cave, Tare, che avrebbe ricevuto una pesante
tangente per il silenzio delle Istituzioni che lui aveva millantato, lo Squalo
che avrebbe gestito il marmo che gli interessava.
Il Direttore Centrale della Banca che aveva strozzato Lucio ed
i suoi fratelli, avrebbe finalmente chiuso un debituccio di gioco oltre
confine. Quest’ultimo aveva fatto circolare informazioni così diffamatorie
sui proprietari della Ditta che nessun’altro si sarebbe azzardato a prestar
loro dei soldi. Certo le Istituzioni si dovevano convincere, certo il curatore
fallimentare sarebbe dovuto essere adeguatamente indirizzato ma a questo
pensava l’avvocato, era lì apposta...
Questo fa la differenza tra dei banali truffatori e degli
imprenditori solo un po’ spregiudicati, la legittimazione da parte di chi
dovrebbe controllare e non controlla di chi dovrebbe garantire e non
garantisce.
Ai lavoratori non aveva pensato nessuno, nessuno poteva
smontarli e rivenderli sotto costo!
Tre giorni dopo l’assemblea fu pagato uno stipendio
arretrato. Gabriele sapeva da dove venivano i soldi, la solita banca, quella
che li aveva negati fino al giorno prima. Tutti gli operai, meno Pietro,
vennero chiamati con la vaga promessa di un secondo pagamento, a patto che non
partecipassero più ad una assemblea sindacale entro il mese avrebbero
ricevuto nuove comunicazioni. Il ragionier Giulivi sovaraintese compunto e
addolorato all’operazione.
La sera stessa Giovanni il sindacalista si recò di nascosto in
canonica da Don Carlo.
“Allora?”
“La fabbrica ha sei mesi al massimo”
“E tu come lo sai?”
”Lo so perché lo so. Tu sai quando una tradisce il marito? Io so che un
pesce grosso ha messo gli occhi sul marmo…”
“Sulla fabbrica?”
“Cosa gli interessa della fabbrica… sul bruno carnico,
sul marmo!”
“Gli altri sindacati?”
“Non hanno iscritti, alla Ditta…”
Don Carlo sospirò “Ma mi avevano parlato di una lista di
persone da riassumere, di cambio di ragione sociale…”.
“Secondo me falliscono e poi qualcuno si prende le cave”
“Ma occorre che il Sindaco sia d’accordo…”
“Questo è un problema tuo, com’era quel comandamento che
ci avevano insegnato? Ah si, non desiderare la cosa d’altri…”
Mentre tornava verso Tolmezzo, Giovanni si chiese se valesse la
pena mettere i bastoni tra le ruote a tutta quella gente potente che di sicuro
lo disprezzava e che non avrebbe mai accettato
di vivere in un bugigattolo come il suo tra mille scartoffie odorose di muffa.
Poi riportò alla memoria lo sguardo dei lavoratori, in maggior parte suoi
conterranei e decise che uno sforzo andava fatto.
Il piccolo Mario vide che suo padre diventava sempre più serio e
irascibile in famiglia, il bottiglione di vino sul tavolo finiva sempre troppo
presto. Le sue zie volevano a mandare dei soldi da Verona, per tirare avanti,
ma lui, orgoglioso, li rifiutava. Si doveva fare qualcosa ma cosa? Gli altri
lavoratori si erano accontentati dell’anticipo e di una vaga speranza,
Pietro voleva di più, era una questione di sopravvivenza ma anche di
orgoglio.
Come si chiamava quel dottore del Movimento Friuli? Ah si
Diego. Si sarebbe rivolto a lui. Sapeva che in fabbrica c’era un altro
manipolo di lavoratori che, per un motivo o per l’altro non potevano
allontanarsi da Nevesa e li chiamò a raccolta in casa sua, sarebbe stata una dura battaglia e gli abitanti
della valle non potevano fare finta di niente…
Nevesa era così bella vista dell’alto, nel cuore della
notte, sembrava una donna al culmine della sua bellezza, ma se avesse avuto
occhi ed orecchio avrebbe colto i segni del decadimento e dell’oblio che
sarebbero alfine arrivati.