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La mossa del cavallo

7° Puntata – Al Bar del Commercio 

Il bar commercio di Paluzza non si era dato un nome a caso. Il “Commercio” era una sorta di borsa locale, dove si davano convegno gli operatori economici delle valli che convergevano a Paluzza. Non si trattava solo di lavoro ma anche di merci, granaglie, mezzi di trasporto, terreni. Durante tutto il corso delle giornate lavorative era un pullulare di conciliaboli e attività. Era l’ufficio di rappresentanza per una miriade di piccoli artigiani e lavoratori stagionali ma anche per i Sorestants, le autorità del paese, ed i funzionari della vicina banca non disdegnavano di frequentarlo. Ogni ambiente pubblico aveva la sua “vocazione” e  andare al “Commercio” voleva dire curare un affare, essere “in pista”. Il vociare di fondo garantiva una certa riservatezza e non mancavano i tavoli più lontani, vicini alle finestre schermate da pesanti tendoni, concessi in esclusiva dai gestori per gli affari più seri. Giovanni, il sindacalista e Pietro si incontrarono lì, un venerdì sera d’estate. Pietro lo aveva pregato di vederlo in un luogo più appartato, magari nel suo orto,  ma su questo il sindacalista era stato irremovibile, se lui si muoveva da Tolmezzo non lo faceva per nascondersi, a meno che non ci fosse di mezzo la vita di qualcuno. Se lo chiamavano dovevano dargli dignità e incontrarlo in un luogo pubblico. Pietro, il padre di Mario, non aveva avuto molta scelta, o lasciar perdere o prendere il toro per le corna. Poteva andare lui nella sede di Tolmezzo dei sindacati, ma a parte che gli sarebbe costato una giornata di lavoro, poteva sembrare ai suoi occhi una delazione, un atto vile, mentre incontrarsi in un bar voleva dire affrontare un problema di petto, senza infingimenti e dare il pubblico segnale: “non si scherza con le nostre vite”.

 

Pietro aveva ancora i vestiti da lavoro e gli scarponi sbiancati dalla polvere, ma la cosa non dava molto nell’occhio, lì tutti, chi più chi meno erano “in divisa”. Aveva chiesto al gestore uno dei tavoli “off limits” e l’aveva ottenuto e adesso attendeva nervoso, battendo aritmicamente le dita sul tavolo. Nessuno degli astanti sembrava gli desse bado ma in realtà le orecchie erano tese ad ascoltare ogni parola sibilata sul banco o sopra ai tavoli. Gli occhi aperti a cogliere ogni gesto, che a volte spiegava più delle parole stesse. Giovanni sopraggiunse con la sua borsa di pelle marrone, lisa dal tempo e da mille controversie, come se ci tenesse dentro mezza Carnia. Chiese di Pietro e la signora indicò in fondo, vicino alla finestra. Si diedero la mano e ordinarono un quarto di bianco, per cominciare ma senza una nazionale senza filtro da fumare Giovanni neanche incominciava il lavoro, a Paluzza lo conoscevano in pochi, ma non ci sarebbe voluto molto per incasellarlo nel giusto contesto.

“Alore?”

“Tre mesi e mezzo di stipendio, il vecchio se n’è andato e non credo che questi qui sappiano il fatto loro”.

“Cosa fanno?”

“Urlano”.

“Ma mi sembrava che il lavoro ci fosse, che l’azienda tirasse”.

“Per tirare tira…”

“Incassa?”

“Per incassare incassa”

“Lo sai da fonte sicura?”

“Sicura, un impiegato, anche se ho dovuto minacciarlo perché mi dicesse qualcosa.”

“Paura?”

“Paura”

“Qual è il problema”

“Le banche, sembra…”

“Se le banche rompono le uova è perché qualcuno vuole fare una frittata…”

“Cosa vuol dire?”

Giovanni si compiacque di trovare una situazione non del tutto compromessa. Di non dover solo partecipare all’ennesimo funerale. Avrebbe potuto indagare, capire quello che c’era dietro, se i debiti erano voragini o crepe che qualcuno voleva allargare per infilarcisi.

 

Ma c’erano occhi attenti nel bar, ad osservare quel conciliabolo. Il geometra Tare, un soprannome che gli era stato affibiato in quanto, direttore dell’ufficio tecnico di Nevesa, applicava un peso suppletivo per ogni pratica che gli passava per le mani, e non erano poche. Era diventato ricco, malgrado il magro stipendio da impiegato comunale e si stava costruendo una casa principesca nell’unico luogo in cui non sarebbe teoricamente stato possibile, nei pressi di  una curva sotto il Cret. Perfetto conoscitore di ogni scappatoia, di qualunque sotterfugio che consentiva di sfuggire alle leggi dello Stato e della Regione era stato uno degli interlocutori naturali per il comitato d’affari che aveva messo gli occhi sulle cave di marmo. Stava bevendo un sprizzato con un funzionario della banca e non gli potè sfuggire l’ingresso di Giovanni, che lui, a differenza degli altri, conosceva bene. Erano stati insieme dai salesiani alle medie e non aveva mai avuto in simpatia la sua coerenza testarda, la sua  intelligenza ribelle. Li portava bene i suoi quarant’anni, il Tare, anche se i capelli erano diventati grigi troppo presto, un paio di occhiali con la montatura in oro gli davano un aspetto civettuolo. Giovanni, il sindacalista, era trasandato, un vestito che era stato scuro liso sul sedere, una cravatta marrone a strisce che forse aveva conosciuto tempi migliori.

 

In quel locale tutti fumavano, e a quell’ora del giorno, intorno alle sei di pomeriggio si poteva intravedere una nebbiolina che lo attraversava, come la nebbia in valle Padana. Il Tare si rivolse al suo vicino di tajut, un funzionario della banca, spalle al banco e bicchiere in mano:

“Vedi anche tu quello che vedo io?”

“Due che parlano…”

“Uno è un sindacalista della CISL di Tolmezzo”

“La cosa si fa interessante…”

“L’altro…”

“E’ uno della Ditta, un operaio”          

“Due che parlano, non credo del prossimo campionato carnico…”

“Ah se la gente si facesse i cazzi suoi…”

“Una complicazione”

“Siamo qui per questo, per appianare le complicazioni”

“In Sicilia le appianano in un altro modo…”

“Ma noi siamo civili…” e risero.

 

Non si può sapere se in quel giorno si compì il destino di Pietro e della sua famiglia, se quel passo azzardato, quella scelta di incontrarsi con Giovanni in un luogo pubblico lo avesse bollato per sempre come piantagrane. Del resto lui si era preso la responsabilità di trasferire la famiglia a Nevesa e non sopportava l’idea di avere sbagliato, di averla esposta al fantasma della povertà.

Pietro si sentiva la coscienza a posto mentre tornava a casa, aveva ottenuto una serie di informazioni sul come approfondire il reale stato delle cose. Nel frattempo Giovanni si sarebbe preso cura di leggere i bilanci dell’azienda e comprendere se c’era qualche movente nascosto che aveva portato alla crisi. Non gli mancavano gli amici, anche se preferivano non vantarsi della sua conoscenza forse amici era la parola sbagliata, gente che gli doveva qualcosa o piccoli imprenditori che aveva aiutato con metodi non sempre al di sopra di ogni sospetto ( a fin di bene, secondo lui, la Carnia era luogo marginale e dimenticato ). Pietro era stato un ingenuo, varcare certi piccoli confini può costare un pedaggio oneroso, che rischi per pagare il resto della vita. Quando rientrò in azienda, ebbe perciò una brutta sorpresa, dall’oggi al domani fu confinato nella baracca della sega a filo elicoidale, isolato dagli altri lavoratori, esposto alle intemperie. Era una forma di quello che oggi chiamano mobbing. Isolare una persona, fargli capire chi comanda. Spesso questo accade apparentemente senza un motivo, una causa scatenante, ma in questo caso Pietro il motivo lo sapeva benissimo.

 

Per questo attese paziente alcuni giorni, fino a quando Lucio si trovò in azienda, nella casetta adibita ad ufficio, dopo la fine del turno. Gabriele si era immerso nelle carte e non sollevò lo sguardo.

“Perché mi ha messo nella baracca?”

“Qualcuno ci deve stare, e gli altri allora?”

“Facevano a turno, una settimana per uno..:”

“Bene allora aspetta la fine di questa, e poi vediamo”

“Ma quella non è la mia mansione!”

“Momento difficile, ti devi adattare…”

Il discorso si impantanò, Lucio non gli aveva fornito nessun appiglio, ma quando Pietro fece dietro front per andarsene via, a quell’altro non riuscì di mordersi la lingua:

“E poi nella baracca non rischi di fare brutti incontri…”

Pietro non aspettava altro.

“Di che incontri parla, fuori di qui io sono un uomo libero!”

“Si, libero di dire cazzate, ci mancavano solo i rompicoglioni, adesso!”

 

Gabriele si era praticamente tuffato, per nascondersi l’anima, dentro una bolla di accompagnamento.

Pietro rimase un attimo interdetto,. Poi capì: “L’ho fatto solo per la Ditta!”

“La Ditta non è tua, non sono cazzi tuoi.”

“Si ma da più di tre mesi non pagate gli stipendi, io ho una casa da mandare avanti” e fece un gesto eloquente in direzione del suo scantinato.

“Tutto si aggiusterà, stiamo elaborando una strategia che ci farà uscire dalla crisi, il ragionier Giulivi sa bene cosa fare…”

“Ah, buono quello…” e gettò uno sguardo su Gabriele, immobile.

“Cosa vuole dire? Arriviamo alla diffamazione adesso?”

“Si svegli!” e Pietro uscì sbattendo la porta in modo così forte da rischiare di rompere il vetro.

Lucio fulminò Gabriele con uno sguardo: “Tu lo conosci, cosa voleva dire?”

“Non lo so”, mentì  Gabriele “Non so di cosa parli…”.

 

Invece lo sapeva benissimo e montava da tempo in lui il sospetto che Giulivi non fosse del tutto estraneo a quella brutta vicenda. Gli appariva, come si dice, il cavallo di Troia che si insinuava tra i blocchi di marmo per aprire la strada delle cave al nemico. Era lui il contatto con le banche, ma pareva muoversi nella direzione opposta a quella che avrebbe dovuto, e poi quelle telefonate con gli impiegati, con quello stesso funzionario che aveva spiato Pietro e Giovanni al bar del Commercio. C’era da farsi venire i brividi, ma Gabriele non aveva altro che quel lavoro, e…Lina.

 

C’è un momento, in una crisi aziendale, quando una situazione da difficile si fa critica ed è quando vai al negozio degli alimentari e non hai soldi per pagare ( anche perché i risparmi i familiari di Mario li avevano investiti nella nuova casa ). Allora si usava il libretto della spesa dove a fine mese si saldava il conto con i piccoli esercenti. Annamaria sapeva che quelli erano gli ultimi soldi che aveva, ne avrebbe pagati un paio ma agli altri avrebbe dovuto chiedere credito, non solo per i conti i sospeso, ma anche per i prossimi mesi, perché aveva un bambino e la pensione sociale della nonna copriva l’affitto e una piccola parte delle spese per la casa. Era una primissima necessità, tranquillizzare il padrone di casa e non trovarsi in mezzo a una strada. I suoi parenti a Verona la imploravano di rientrare ma trovare un lavoro in quel momento di crisi ( era il momento dello Yom Kippur, lo shock petrolifero, l’austerità, lo sceicco Yamani )  anche a Verona era difficile, e su tutto dominava in Pietro l’orgoglio di non darsi per vinto, di affrontare le traversie della vita a muso duro e anche lo strisciante sospetto che una parte dei Cjarniei avevano verso gli estranei, i foresti. Lui voleva dimostrare di essere come uno di loro, degno di fermarsi in quella terra che nel fondo del suo cuore aveva imparato ad amare.

 

A Nevesa le risposte per Annamaria furono secche e  taglienti: “Non facciamo credito, saldi il suo conto!”, “Se non può pagare allora non venga in negozio!”,”Peccato, ma non possiamo fare la carità…”. Tranne una, quella di una signora che aveva conosciuto a Paluzza anni prima ad un corso di ricamo e aveva aperto un piccolo negozio di alimentari in quel di Casteons, sulla destra venendo da Paluzza. Forse perché era una donna e madre anche lei ebbe pazienza e accettò di farle credito, di sfamare nei fatti la sua famiglia. Per la prima volta nella sua vita, facendosi avanti un freddo autunno, si recò nel bosco a fare legna e si rese conto che il baratro non era poi tanto distante.

 

Ma la battaglia era solo iniziata.

 

Per Gabriele e la Lina fu un periodo decisivo. La Loise, la stessa ragazza che con la sua odiosa spiata aveva provocato il patatrac, l’aveva contattato per telefono, sul lavoro, dal posto telefonico pubblico di Nevesa, e per fortuna aveva risposto lui. C’era la possibilità di vedere Lina. Oramai la famiglia di lei si fidava ciecamente della Loise, poiché fatta una spiata, sicuramente non avrebbe esitato a replicare, ma la ragazza aveva una coscienza ed era rimasta atterrita dalla piega che aveva assunto quella piccola storia d’amore. Per settimane la Lina si era rifiutata di  incontrarla poi però, di fronte al suo pianto alle sue suppliche, si era intenerita e ne aveva accettato le scuse. Adesso da nemica sarebbe diventata complice e che complice! Il punto è che “Il Cacciatore” era chiuso la domenica, poiché, come diceva la parola stessa, il gestore aveva altre cose da fare nel giorno del Signore. Ai pochi clienti che frequentavano stanzialmente l’albergo era stata consegnata la replica della chiave della porta di servizio, da cui si accedeva attraverso una vecchia scala a chiocciola che partiva direttamente dall’orto di famiglia. Rampicanti  e una piccola vite, perennemente sterile favorivano una certa discrezione. Perciò si sarebbero visti in albergo, nella stanza di lui. Era una scelta di indicibile rischio, ma era meglio che vedersi nel bosco, lì entrava solo Gabriele e, a dispetto dell’assurdità della cosa, l’omertà degli altri clienti rappresentava una inossidabile garanzia. A vegliare sull’onore della ragazza sarebbe rimasta lei, la Loise, appartata, discosta ma tenendo i ragazzi sempre sotto gli occhi, almeno questi erano i patti.

 

Quella scala a chiocciola era chiamata dai clienti dell’albergo la “scala di Giulietta”, quella sua discrezione permetteva ai clienti di far arrivare la Domenica pomeriggio le loro compagne, senza che il personale dell’albergo avesse nulla da ridire. Almeno ufficialmente. Chiudere un occhio era compreso nei servizi optional dell’Albergo. La Domenica dimoravano lì solo i tecnici dell’Anas, della centrale elettrica o i lavoratori della Ditta, non tutti celibi, ma molti “fidanzati” in loco. Nessuno avrebbe mai tradito gli altri, perciò si era venuta a creare una situazione di tacito accordo di cui Gabriele aveva pensato di approfittare. La Loise aveva paura, aveva spergiurato ai genitori di Lina che l’avrebbe accompagnata sulla montagna, una bella passeggiata estiva, in realtà la stava portando alla perdizione. Perciò si rifiutò reiteratamente di aspettarla nell’orto del Cacciatore e percorse anche lei quella scaletta, resa meno rumorosa dal feltro, e il breve corridoio che portava fino alla camera di Gabriele. Lui stava attendendo, ben pettinato e vestito di tutto punto. C’era penombra e dei vecchi quadri di caccia appesi alle pareti, un odore di muffa e vecchi merletti. Il tappeto proseguiva per poi girare ad angolo retto verso altre camere. La Camera di Gabriele era una delle prime, appena dopo il bagno. Aveva ancora la bacinella e un vecchio armadio sopra il quale il giovane aveva riposto le valigie. Poche parole un bacio furtivo poi fu Lina ad accompagnarla, Luisa faceva cenno di no ed arrossiva, stavano commettendo una grave colpa!

 

“Va, ci rivediamo in chiesa…”.

 

Lei non seppe dirle di no, e mentre si volgeva  inorridita vide Lina porre la sua mano sul capo di Gabriele per poi sincerarsi che lei richiudesse bene la porta. A Luisa rimase impresso quello sguardo liberato, felice e complice, lo sguardo di una donna. Corse con tutte le forze che aveva verso la chiesa di S.Celestin, la parrocchiale, si inginocchiò tra i banchi deserti della Domenica pomeriggio e pregò, pregò con tutte le sue forze di non compiessero nulla di irreparabile, o meglio, che Lina non seguisse la strada della sorella.

 

Nella baracca del filo elicoidale la vita era piuttosto dura e monotona, era un forno d’estate, una ghiacciaia d’inverno. Il filo veniva immerso in una soluzione di acqua e sabbia e poi tagliava il marmo, se si rompeva il per l’usura o il calore c’era il rischio di lasciarci la pelle per il colpo di frusta. La baracca era il “castigo” dello stabilimento ed era lì che Diego, il giornalista dottore, voleva incontrare Pietro, senza alcun preavviso. Anche lui aveva saputo dell’incontro di Paluzza con Giovanni e sapeva che qualcosa bolleva in pentola. Aveva maturato, Diego, uno spiccato fiuto giornalistico, se non gli dava la possibilità di pensare alle risposte, di cogitare una linea avrebbe avuto delle impressioni genuine, forse delle verità.  Veniva  dal fiume Diego e di primissima mattina aprì la porticina di legno che portava alla sega. C’era un forte rumore di fondo e Pietro pensò che il ragazzo, che conosceva di vista, passasse di lì per caso e avesse bisogno di qualcosa. Urlarono:

“Come va la Ditta?”

“Cosa cerca qua, Dottore?”

“Informazioni”

“Vuole che mi buttino nel fiume a fare la trota, ha visto dove mi hanno confinato?”

“Possiamo aiutarla?”

“Aiutarla chi?”

“Noi del Movimento Friuli..:”

“Ah, il movimento del …. Mi lasci lavorare”

“Ma abbiamo un giornale”

“Mai visto, chi lo legge?”

“Senta vuole che la chiudano questa azienda?”

“Quanti rappresentanti avete in consiglio Comunale e in Provincia?”

Diego si zittì, si rese conto che Pietro aveva paura, un articolo del giornale in quel momento poteva provocare la canea dei debitori, non solo dell’azienda, ma anche degli operai.

“Le prometto che non scrivo una riga, voglio solo sapere.” Pietro lo squadrò:

“Da quattro mesi non riceviamo lo stipendio, il lavoro c’è ma la liquidità va a coprire i debiti e gli operai si stanno svenando. I soci dicono che faranno una nuova società, con nuove persone, ma la situazione entro 15 giorni si potrebbe fare drammatica, allora avrai di che scrivere…”

“Mi farà sapere? Questo è il mio numero di telefono, o può passare da mio zio, che ha il negozio di merceria, a Nevesa.”

Pietrò annuì e sentì chiudersi la bocca dello stomaco, vedeva i giornalisti come gli sciacalli che annusavano l’odore di cadavere, e l’azienda, evidentemente, cominciava a emanare miasmi.

 

Doveva rompere l’isolamento, così, all’ora di pranzo attese i suoi colleghi sul piazzale e chiarì loro le idee:

“Dobbiamo fare una assemblea”

La sola parola evocava le parole Rivoluzione, Casino, Licenziamento.

“Ma siamo matti” disse una donna “Allora si che ci cacciano”

Un altro “Ma qualcosa dobbiamo pur fare, i negozi non fanno più credito”.

La Renzina, che era una donna pia e che credeva fermamente al fatto che qualcuno lassù avesse una soluzione per tutto fu perentoria:

“Andiamo dal Parroco, facciamo una delegazione e andiamo dal parroco, lui è tenuto al segreto e potrà fare sicuramente qualcosa”.

Tutti annuirono Pietro rispose duro.

“Le trattative non le fanno i parroci!”

Lo guardarono tutti stralunati e lì venne fuori l’atavica rassegnazione dei carnici, se l’Azienda doveva chiudere avrebbe chiuso a meno di un intervento divino.

“Dobbiamo fare un’assemblea!”

La Renzina non lo sentì nemmeno: “Oggi vado dal parroco, poi lo visitiamo in cinque o sei, vieni anche tu Pietro”.

Più che una domanda era una affermazione.

“Ci faremo dare l’olio santo” sbottò Pietro, e la conversazione finì lì.

 

Al piccolo Mario non mancò mai nulla, i suoi genitori e la nonna sarebbero morti di fame pur di non scontentarlo. La cosa che gli mancò veramente fu la sicurezza. Lui in Carnia aveva aperto gli occhi, non era come per uno che va e che viene, ed appariva sempre più chiaro il rischio di fare fagotto. L’ansia si respira in una famiglia, quando le cose vanno male, e lui ne respirò forse troppa per rimanerne immune nel proseguo della sua vita. 

  

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