Per me si
va nella città dolente
6° Puntata – La crisi
Giovanni aveva un’automobile dalle gomme consumate e una vita
talmente sregolata da costituire un serio problema sanitario. Aveva solcato
per anni strade asfaltate e strade sterrate, aveva cercato con tutte le sue
forze di trattenere posti di lavoro laddove l’erosione della montagna e
dell’incuria degli uomini se li stava trascinando via. Certo era il fumo,
certo era l’alcool ma quello che lo sosteneva nel mezzo di una battaglia
impari era la fede. Credeva fermamente nell’ideale della giustizia e
dell’uguaglianza, sublimato nei lunghi anni di seminario, e la sua scelta di
fare il sindacalista, in quegli anni difficili, dove non c’erano permessi
retribuiti e distacchi “facili”, era stata la via di fuga per il suo
spirito “missionario”. Gli stipendi per quelli come lui erano poca cosa in
confronto alla battaglia titanica che dovevano sostenere ogni giorno, prima di
tutto con se stessi, di fronte alla superbia degli interlocutori ed alla
atavica rassegnazione dei sui conterranei “clienti”. Lo chiamavano si, ma
troppo spesso alla fine della corsa, quando non c’era più niente da fare se
non salvare il salvabile, qualche stipendio, una modesta ricollocazione, una
cassa integrazione speciale. La gente si aspettava da lui soluzioni
miracolistiche e quando li metteva davanti alla dura realtà spesso si
incavolavano con lui e allora nottate passate nei bar di qualche valle
sperduta, a spiegare, a convincere, a bere…
Sua moglie lo aveva lasciato al suo destino da tempo. Quando
l’entusiasmo giovanile del comune impegno sociale si era assopito lo aveva
visto ingrassare e imbruttire. Non è poi così vero che gli eroi son tutti
giovani e belli. Il divorzio non era contemplato, sia perché la legge era
ancora sub iudice, sia perché avevano preferito scansare tutta la trafila
delle carte e delle umilianti sentenze. Ognuno per sé, dunque. L’unica donna con cui aveva a che
fare era l’arcigna segretaria dell’ufficio, a Tolmezzo. Una donna
sfortunata, portatrice di handicap ( aveva patito la poliomielite da bambina )
che però aveva la vista del falco e l’intelligenza del serpente. Se non
fosse stato per lei, che lo teneva sempre sveglio intellettualmente, la sede
poteva anche chiudere. La grande cartiera era il centro del mondo sindacale di
allora poi una miriade di aziendine sparse sul territorio, quasi tutte con
meno di quindici dipendenti. Siccome la storia pesa sempre, era diffuso il
microlavoro sommerso, di pura integrazione del reddito familiare. Jacopo
Linussio si serviva di quel sistema più di due secoli prima, perciò le
magliaie a domicilio, rigorosamente pagate in nero, erano presenti in ogni
piccolo paese. Spesso, tra i sindacalisti, ci si trovava a difendere i mariti
ed in qualche maniera a perseguire le mogli e i “caporali”, così a sottrarre il minuscolo reddito che
rendevano quegli illeciti “appalti”. La “macchina” per produrre
semilavorati di lana, le “maglie”, veniva acquistata o affittata poi si
lavorava a cottimo, tanti pezzi, tante lire. Anche la mamma e la nonna di
Mario facevano quel lavoro, alternandosi alla macchina. Un lavoro privo di
qualsiasi soddisfazione, sempre avanti e indietro, avanti e indietro e poi
quell’odore di olio lubrificante che invadeva la casa…
Del talento ne aveva, Giovanni e parecchio. Ma quando aveva
cominciato ad abbandonarsi, quando gli venne chiaro che un altro mondo non era
possibile, che la realtà superava la fantasia, l’Organizzazione si era
dimenticata di lui. Era uno dei tanti portatori d’acqua dispersi sul
territorio Nazionale. Buono per portare una spilla durante i congressi e per
razzolare qua e là qualche tessera. Lui era originario di Paularo ma adesso
abitava a Tolmezzo, vicino al duomo, in un appartamento talmente piccolo che
bastavano tre passi per trovarsi in qualunque stanza. In ogni caso metteva nel lavoro ogni
energia e riusciva a farsi rispettare nelle trattative. Non aveva la fama di
duro ma i suoi interlocutori sapevano che aveva una parola sola.
Le aziende, a parte alcune, avevano vita travagliata e breve.
Nessun finanziamento speciale, per quella terra marginale, solo olio di
gomito. Per quanto riguardava l’alta Carnia la tradizione industriale era
quello che era e si può dire che quasi si esaurisse nella zona intorno a
Tolmezzo. Altrove alcuni
mobilieri, piccole manifatture meccaniche e poi una spruzzata di microrealtà
poco più che artigianali. La Ditta di Nevesa era un’eccezione e per questo
la notizia che era in ritardo con gli stipendi gli trasmise una fitta di
preoccupazione. Se anche la Ditta cominciava a battere in testa non c’era
proprio speranza. Sembrava che gli affari andassero per il verso giusto, cosa
era potuto succedere?
La Ditta era gestita da una società costituita da tre
fratelli. Uno era il vero Boss, ammanicato con una grossa famiglia di
industriali milanesi di cui aveva sposato una rampolla, un’altro era il
classico fratello meno dotato del primo, perciò alla costante ricerca della
propria identità, il terzo era sempre al verde ed era arrivato a Nevesa al
traino degli altri due. La famiglia sperava che, cambiando aria,
quest’ultimo avrebbe anche cambiato abitudini ( rombanti automobili, amanti
dispendiose, Casinò di Sanremo). Erano originari della Lombardia,
imprenditori da generazioni, e già il loro nonno aveva differenziato
l’attività, che si svolgeva nel campo dell’estrazione della pietra e
nelle cave di sabbia in vari insediamenti dell’alta Italia. Quello di Nevesa
doveva essere il banco di prova per i due fratelli più giovani, una volta
avviata l’attività, con il pareggio di bilancio, il più vecchio sarebbe
stato liquidato. Era lui che girava, che faceva gli affari, gli altri due
erano stati confinati nell’alta Carnia a “farsi le ossa” ( e a non fare
danni ).
Fare l’imprenditore è una vocazione che non tutti si possono
permettere, trattare con i fornitori, le maestranze, le banche, i clienti,
richiedeva arguzia, energia ed anche resistenza fisica. Il numero uno, che si
chiamava Ernesto, queste cose le sapeva fare bene, ed aveva anche tutto il
pelo sullo stomaco necessario. Quando si intoppava qualcosa, bastava chiamare
“l’Ernesto” e lui arrivava a bordo della sua sfavillante Lamborghini
beige, urlava quando c’era bisogno di urlare, blandiva quando c’era
bisogno di blandire e tutto si aggiustava. Un giorno piovoso Ernesto arrivò e
comunicò ai due fratelli che ormai l’azienda era avviata e che adesso
sarebbe toccata a loro. Con un certo anticipo su quanto pattuito ma quel
momento doveva prima o poi arrivare. Concesse loro una comoda rateizzazione
per il rilevamento della sua quota, firmò quello che c’era da firmare e levò
le tende senza tante cerimonie.
Fratelli coltelli. Lucio, il mezzano, sapeva di assumersi un
bell’onere nel mandare avanti l’azienda praticamente da solo ( sul più
piccolo, Aldo, non è che si potesse contare ) ma aveva aspettato quel momento
da anni. Per questo la dipartita anticipata del fratello rappresentava per lui
un’opportunità. Voleva dimostrare finalmente di non essere da meno di Ernesto, il più vecchio. Gli oneri
con le banche erano piuttosto pesanti, ma l’esclusiva nelle concessioni
delle cave ed un certo giro d’affari lo incoraggiavano per il futuro, non
vedeva nubi all’orizzonte. Ernesto però aveva sentito puzza di bruciato, e
costretti i fratelli più giovani a impegnarsi anche la camicia per liquidarlo
e ed assumersi tutti gli oneri, aveva portato a termine una ritirata
strategica.
Il primo problema era sembrato tecnico. La Banca dell’alta
Carnia, sede di Nevesa, dove la Ditta appoggiava i Bonifici e aveva aperto una
linea di credito che copriva gli stipendi, aveva addotto alcune osservazioni
sulla regolarità delle garanzie fornite alla sottoscrizione del prestito.
Cose da contabili, tutta materia per il pingue ragioner Giulivi. Lucio si era
appoggiato a lui per la soluzione del problema, il guaio era capitato alla
fine del mese, pochi giorni prima del pagamento degli stipendi. Il ragioniere
invece che chiudere il buco lo aveva allargato, perché, effettivamente, la
Banca poneva problemi reali, occorreva del tempo.
Lucio ebbe l’orgoglio di non chiamare il fratello che con
qualche pacca sulla spalla e qualche borsa sotto il tavolo aveva in passato
risolto molti problemi. In realtà il comitato d’affari aveva mosso la prima
pedina. Come un Boa Coscriptor avvolgeva nelle sue spire la vittima e si
preparava a soffocarla.
Gestire un’azienda non è solo guardare agli affari di tutti
i giorni ma saper trattare con le persone anche e soprattutto con i propri
lavoratori. Ernesto era un maestro del bastone e della carota ed era stimato
quanto bastava. La gente si faceva in quattro per lui perché sapeva di essere
riconosciuta, anche materialmente. Appariva un padrone paternalista, dialogava
con tutti, fino all’ultimo manovale e chiunque avesse un problema sapeva di
potersi rivolgere a lui. Questa, più che generosità, era politica aziendale.
Gli operai attendevano anche settimane che lui tornasse da qualche viaggio,
pur di relazionarsi con lui, ignorando i fratelli. Di fronte ad una crisi,
anche se si immaginava passeggera, bisognava stringersi e invece Lucio, alle
rimostranze dei lavoratori ( 32 uomini ed otto donne ) aveva reagito con
l’arroganza dell’insicurezza.
“Se non vi va bene così, trovatevi un altro lavoro!”
Sapeva bene che non era possibile.
Pietro era stato colto dall’ansia un minuto dopo che aveva
visto quel rapido mutamento di orizzonte. Si può dire che fosse l’uomo di
fiducia di Ernesto, il più vecchio, e svolgesse il vero ruolo di trait
d’union tra le cave ed il laboratorio. In quegli anni non c’erano stati
orari, sabati, caldo e freddo. Si
lavorava come delle bestie ma c’erano anche delle belle soddisfazioni, a
fine mese. Sua moglie, Annamaria, non si era mai rassegnata all’idea di
finire i propri giorni a Nevesa. Lei veniva dalla città ed il paese piccolo,
la montagna impervia, non erano cose per lei. Pietro invece era riuscito ad
integrarsi bene. La pro loco, le gare di briscola, l’associazione dei
pescatori, era un pesce nell’acqua. Per questo non aveva esitato a investire
tutti i risparmi in un piccolo pezzo di terra e a gettare le fondamenta di un
esistenza nell’ipotesi di una piccola casa. Non erano stati i se ed i ma in
famiglia a trattenerlo. Era vero che affidarsi ad un’unica fonte di reddito,
per quanto buona, poteva diventare pericoloso, per questo aveva chiesto la
licenza per un chiosco di bevande al comune. Il suo terreno era sulla strada
provinciale, ci si doveva passare per forza. Quei mesi erano stati la
traversata tra il dire ed il fare ma una crisi proprio in quel momento era
come acquistare una macchina fiammante ed abbattere il primo palo della luce
trovato per strada.
Mario era stato molto felice di sognare una casa con una
cameretta tutta sua. Quasi tutte le domeniche giocava su quel terreno
denominato la ponte che non distava molto dalla fabbrica. Casa e
bottega. Quei terreni erano demaniali ma gli abitanti di Nevesa se li
tramandavano di generazione in generazione come fosse stata cosa loro e ci
costruivano sopra in un guazzabuglio di permessi dati e poi revocati da
diverse amministrazioni in perenne conflitto tra loro. Pietro era riuscito a
chiudere lo scantinato ma il blocco delle buste paga lo aveva raggelato. Nella
vita si fanno delle scelte, a volte senza ritorno, non sono poi molte, e se ti
accorgi di finire in un vicolo cieco, di avere sbagliato, lo scoramento, la
rabbia ti possono spezzare. Avevano un bell’orto e, a parte l’inverno,
c’era sempre qualcosa da dissodare, un ravanello da raccogliere. Ovviamente
era già sorta una lite confinaria con il vicino, si trattava di un paio di
metri quadrati ma erano già arrivati quasi alle mani. Perciò, osservando la
sua piccola proprietà, che aveva acquistato contro tutto e tutti, si decise a
fare un passo che in quei tempi non era facile. Chiamare i sindacati.
Delle sue idee private, votava socialista come il nonno, la
Ditta si era sempre infischiata, visto che lavorava come un mulo, ma tirar
dentro i rompicoglioni era tutta un’altra questione. Per le
informazioni che era riuscito a raccogliere la situazione era seria, e la
dipartita di Ernesto, vista la sagacia dei suoi fratelli, non prometteva nulla
di buono e lui non aveva altro che la Ditta. Doveva sentire Gabriele,
bazzicava l’ufficio e qualcosa doveva pur sapere…
Il Maresciallo dei carabinieri non si perse in chiacchiere, fu
molto chiaro con Gabriele. Doveva ringraziare il fatto che nessuno l’aveva
sentito profferire la minaccia ( quel “ti ammazzo” ) al povero Renzo, il
padre di Lina. Aveva il foglio di via già pronto.
“Non credo che a casa ti aspetti un comitato di
accoglienza…” Gabriele tacque.
“La ragazza è minorenne e mi auguro che tu non sia andato
oltre…” Gabriele scosse la testa.
“Qui hai un lavoro, tienitelo
stretto, ma adesso devi cambiare aria. Non posso lasciare che un ragazzo
minacci un uomo senza conseguenze, non voglio che veniate a contatto”
Gabriele annuì.
“Andrai all’albergo, al
Cacciatore, ho chiesto all’oste di farti un prezzo speciale, se fai un po’
di economia te la puoi cavare…”.
Gabriele rimase piuttosto
stupito per la cortesia del carabiniere, non gli aveva chiesto nulla, forse
perché sapeva già tutto. Si limitò a considerare con un filo di voce: “La
ringrazio maresciallo, non credo di meritarmi la sua gentilezza…”
“Infatti non te la meriti,
anche se, detto tra noi, a quell’impresario qualcuno doveva mettere un
freno. Non è poi così una grande disgrazia sposare uno del sud. Mia moglie
che è di Belluno, allora, cosa dovrebbe dire?…” Lasciò la frase sospesa.
“Lina è una brava
ragazza..” osò Garbiele.
Il maresciallo gli indicò
l’uscita con un gesto di fatalità “Ha
da passà a nuttata…”
“Grazie!”
“Di niente”
La porta si chiuse e il
maresciallo ripose nel cassetto il fonogramma giunto da Verona. Il giovane era
stato scartato dalla leva per insufficienza toracica, certo avere il papà al
palazzo della sanità non era uno svantaggio, non gli sembrava così gracile.
Sembrava essere un pericoloso estremista, ma, fuori dal branco, pareva solo un
ragazzetto alla ricerca della sua
strada.
Per Gabriele erano state dure quelle settimane, il campionato
era finito e quell’estate correva via senza che la situazione con Lina si
sbloccasse. L’unico filo di comunicazione era il piccolo Mario che, in un
modo o nell’altro riusciva a far pervenire ai due innamorati messaggi sempre
più accorati. Adesso che stava al “Cacciatore”, Gabriele era sempre più
preoccupato. Anche lui non riceveva lo stipendio da mesi, ma, a differenza
degli operai, aveva percepito degli “acconti”, direttamente dal ragionier
Giulivi, il quale si era raccomandato la massima discrezione con tutti. Erano
soldi extracontabili e Gabriele si era chiesto perché mai gli avesse fatto
quel favore, non certo per bonomia. Si vergognava un po’ quando andava a
casa di Pietro a mangiare, perciò portava sempre qualcosa di suo e gli andava
tutto per traverso quando l’altro gli diceva: “Siamo tutti nella stessa
barca…”
Gabriele era praticamente il
fattorino del ragioniere, prendeva le telefonate ed, ultimamente era roso dal
tarlo del sospetto. Strano che Giulivi si trovasse così spesso in ufficio,
strano che avesse fatto un inventario fuori stagione del materiale prima
ancora che la banca creditrice capofila avesse chiesto indietro i soldi.
Giulivi non era quello che si dice un uomo cristallino, era già stato
coinvolto, uscendone pulito in una bancarotta. In fondo lo sapeva, Gabriele,
perché si prendeva quell’”anticipo”, doveva semplicemente tenere la
bocca chiusa su ciò che avesse, anche inavvertitamente, visto e sentito. Ma
quando emergevano tutte quelle preoccupazioni, a casa del piccolo Mario,
quando intravedeva il suo faccino tirato, non poteva fare a meno di
rabbuiarsi.
Era la Crisi.