Il
guardiano del sacro fuoco
5° Puntata – Diego il Dottore
Forestat è l’offesa più feroce, pesante, devastante
che si possa fare o ricevere in una valle della Carnia. L’ingiuria alla
mamma, alla sorella, o ai parenti tutti non può travalicare l’insulto di
non appartenenza, di estraneità. Quando per una errata manovra, o per un
alterco di vicinato, qualcuno lo offendeva con quell’epiteto Pietro, il
padre di Mario, si rabbuiava e diventava nervoso tutta la giornata. L’essere
escluso, allontanato della Comunità o esserne trattato come un residente di
serie B, era una vera e propria condanna inappellabile, le cui radici
affondavano nella notte dei tempi. In Carnia per secoli erano sopravvissute le
Comunità di villaggio, le Vicinie che su una certa solidarietà e
soprattutto sullo sfruttamento collettivistico del territorio avevano
costruito le basi della propria sopravvivenza. Si poteva risiedere per
generazioni in un villaggio senza godere dei diritti della vicinia, e
per entrare a far parte della Comunità si doveva spesso pagare una sorta di
tassa di accesso, che per i parametri del tempo era molto alta. Il principio
era semplice, la ricchezza comune, le comuni scorte, erano state
ammonticchiate con la fatica di generazioni. Gli ultimi arrivati potevano
accedervi solo se moralmente degni, e questo lo dovevano dimostrare a volte
nei decenni, e soprattutto se pagavano la loro quota parte. Dopo la
rivoluzione Napoleonica tutte le autonomie di villaggio erano state spazzate
via ma la memoria storica non si cancella facilmente.
Così, quando il maestro elementare si sforzava di spiegare
usi, costumi e tradizioni locali, Mario provava sempre un forte disagio.
C’entrava o non c’entrava lui con quelle cose? Poteva sentirsi parte o era
ritenuto al massimo un ospite, un clandestino a bordo? Il suo maestro si
soffermava, sull’ambiente e sulle consuetudini in modo quasi pignolo, certo
non era scritto in nessun programma ministeriale che dovesse occuparsene.
Anzi, i programmi governativi di allora tendevano a minimizzare le
particolarità, bisognava fare l’Italia, ma gli italiani erano ben lontani
dall’avere un forte senso di nazionalità, tranne forse per le partite di
calcio degli azzurri. Mario soffriva la sindrome dell’immigrato, la necessità
di essere incluso, il bisogno di Comunità, anzi la deprivazione dal vivere
pienamente, anche nella lingua, nel cognome, nelle liturgie, la vita della
valle. Alla luce di questo si potrebbe affermare che far accedere alla lingua,
tradizioni e consuetudini locali anche coloro che vengono da fuori non sia un
atto di razzismo, ma una scelta di inclusione. Il vero nesso, come insegnavano
le antiche Comunità di villaggio della Carnia, era il territorio.
“Chi lo ama e lo rispetta è uno dei nostri”, amava
ripetere il maestro, e spesso li portava di qua e di là, spiegando
minuziosamente luoghi, toponomastica, storia. Mario pagava tutto questo con
qualche attacco di asma allergica ma di quella affermazione era, intimamente,
felice.
La placida vita scolastica subì un soprassalto quando il
maestro si prese la libertà di farsi accompagnare nelle frequenti gite
scolastiche da un giovane studente di medicina, militante del Movimento
Friuli, una sorta di marziano politico autonomista, nel confronto dei blocchi
contrapposti che caratterizzava quel periodo. Diego, quasi dottore, ci andava
giù di brutto sulla Patria del Friuli, sullo scempio di Napoleone,
sull’Italianizzazione forzata. Tanto che la direttrice, appresi questi
fatti, richiamò il maestro ad una maggiore continenza. A dire il vero a
Mario, quel ragazzo che arrivava quasi alle lacrime davanti ad una cappelletta
votiva del secolo precedente, spiegando per filo e per segno la storia della
famiglia che l’aveva eretta, stava un poco antipatico. Si annoiava, non
gliene poteva fregare di meno dei cramars e delle vie romane, seguiva
distrattamente quelle dotte spiegazioni. Diego, quel ragazzo vitale e forte,
non aveva di meglio da fare che cercare ruderi nel bosco e “leggerci”
dentro le storie che custodivano? Al bambino pareva strano che, in un mondo di
grattacieli e macchine volanti, ci fosse qualcuno che si soffermava sul
particolare di un cippo o di una mulattiera dimessa. Amava dire poi:
“Non sentite le voci della gente che ci è passata sopra?”
Tutti i bambini si guardavano stupiti.
“Provate a udirli nella vostra mente, ogni oggetto conserva
la memoria di coloro che l’hanno costruito, amato, percorso,
utilizzato…”
Forse era matto,
quel tipo, ed il maestro che gli dava spago era ancora più matto di lui.
Il piccolo Mario, aveva poi avuto l’impressione che, una
volta appreso il suo cognome, così italiano, così estraneo Diego non lo
considerasse più. Forse era solo una piccola paranoia, un minuscolo tarlo che si stava facendo
strada nella sua mente disorientata. Non che ai suoi conterranei della
contrada di Varmost il quasi medico apparisse del tutto simpatico,
anzi. In quegli anni i giovanotti dovevano mostrarsi aperti, spigliati.
Ispirarsi ai divi del cinema e della televisione, fumare come turchi, essere
sboccati quanto basta, brindare a Campari, Cynar o Stock 84. Nella
bassa furoreggiavano le balere ma a quelle transumanze del sabato sera Diego
preferiva incontrare la sua gente, osservare le stelle da una valletta poco
frequentata, ascoltare il canto degli uccelli. Già allora tutto questo era
considerato “out”. Il suo
cattolicesimo integro, quasi preconciliare, lo metteva in urto sia con gli
oppositori sia con i governanti, che accusava apertamente di malversazioni. Il
suo cruccio maggiore era quello di vedere la comunità disgregarsi, le
tradizioni diventare solo date sul calendario, o occasioni di smodate
baraccate. Malgrado il mondo si
stesse muovendo sempre più vorticosamente lui rimaneva fermo al suo posto.
Solo chi conosce i carnici, può compredere la cocciutaggine, a volte più che
velleitaria, di cui sono capaci.
Mario avrebbe capito meglio le ragioni di Diego se ne avesse
conosciuto la storia. Anzi, del tutto probabilmente gli sarebbe divenuto
simpatico. Perché era così legato ai luoghi e alle tradizioni? Per un
semplice motivo, perché nella sua prima giovinezza le aveva già perdute una
volta. Suo padre era stato un buon merciaio, arrotino, con un piccolo negozio
sulla piazza di Nevesa ma lo spopolamento delle montagne lo aveva convinto a
tentare il grande salto in una città piena di opportunità. Una bottega a
Milano, Porta Romana, in società con un lontano parente emigrato venti anni
prima. Diego aveva già otto anni ed il terribile impatto del piccolo alpino
con la città tentacolare lo aveva segnato per sempre. I compagni di scuola lo
prendevano in giro per via di quel suo accento così strano, per quei vestiti
che parevano usciti da un baule di sfollati, per la sua atavica ingenuità.
Lui si richiudeva in sé stesso nel suo silenzio e stringeva forte a sé
qualche piccolo oggetto di legno, un cavallino, un carretto, che aveva
intagliato quando stava ancora a Nevesa. Se l’impatto con una grande città italiana era stato così traumatico si può immaginare cosa abbia potuto
significare per tanti bambini che, dopo una traversata oceanica su una nave
puzzolente, finivano nei sobborghi di città ostili, dove erano ritenuti al
massimo braccia per i lavori più umili, dove non capivano una parola
dell’idioma locale. A quanti è accaduto questo…
Fu così che Diego si ammalò di tristezza. Gli affari del
padre andavano bene, le sue sorelline erano così piccole che nemmeno avevano
colto il cambiamento di panorama, ma a lui quanto mancava poter scendere al
fiume, costruire delle piccole dighe e farci il bagno d’estate, o sentire
l’odore del bosco, quando si andava per funghi. Qualche volta chiedeva il
permesso di uscire ma, in mezzo a quei palazzoni di periferia, a quei
fazzoletti di terra maleodoranti si sentiva fuori dal mondo. I ragazzini della
sua età giocavano a calcio in strada e a volte lo chiamavano per stare in
porta ( il ruolo meno apprezzato ma era già qualcosa ) ma lui dava sempre
l’impressione di stufarsi e così non lo chiamarono più. A scuola studiava
sodo, non gli restava altro da fare, ma una malattia sempre più grave lo
aveva preso dentro. Piangeva e parlava da solo, sembrava sempre più stanco.
Fu così che la sua mamma si decise a chiamare un dottore e poi, visto che
qualche soldo l’avevano, si rivolse ad un grande psicologo. Forte fu la
sorpresa di quei genitori nell’udire la diagnosi, una sorta di sindrome
d’abbandono. Il bambino aveva perso i suoi punti di riferimento e stava
diventando un disadattato. Viveva in un mondo suo, dove cercava di ricreare,
almeno nell’immaginazione, gli ambienti che aveva perduto. Si coglieva dai
disegni, dagli oggetti sepolti in cartella, da un linguaggio che non si
adattava al presente. Non c’era una cura, o forse, riportandolo da dov’era
venuto, qualcosa si poteva migliorare. Detto fatto lo misero su un treno e
alla stazione di Udine lo venne a prelevare la zia materna, che era rimasta
vedova di guerra e non aveva mai potuto crescere un bambino. Al parcheggio
degli autobus pranzò con un toast, ma per lui si trattò di un pasto
indimenticabile. Aveva appena terminato la quinta elementare, con gli esami e
tutto il resto, gli avevano promesso un regalo. Dunque era quello il premio? Esisteva un
regalo più grande di ritornare?
Con le attenzioni della zia ed i soldi del padre Diego si
riprese e diventò un ottimo ragazzo, un po’ bizzarro, ma bravo. Nessuno si
azzardò più a chiedergli di tornare a Milano.
I fine settimana, quando non era impegnato all’Università,
li trascorreva su e giù per le
valli, grazie ad una 500 scassata. A cercare contrade dimenticate ad
intervistare anziane signore che avevano visto in faccia due guerre. Diego era
anche un bravo giornalista, scriveva per il foglio del Movimento Friuli e non
perdeva una virgola della cronaca locale. Nella conca di Nevesa e nelle valli
attigue non c’era persona che non l’avesse visto passare almeno una volta.
Si riteneva, probabilmente a torto, che fosse stato lui ad imbrattare con la
vernice bianca la Casa del Popolo. C’era scritto in grande MOVIMENTO FRIULI
ed il segretario locale, un redivivo Peppone, non l’aveva fatta mai
cancellare, anzi, aveva fatto aggiungere da un altrettanto anonimo pittore,
con la vernice rossa, MOVIMENTO DEL C…...
Ci si divertiva anche così, a Nevesa. Da alcuni anni Diego si candidava alle elezioni,
prendeva i soliti 15 voti da amici e parenti ma non si demoralizzava. Verso i Veronesi
aveva un atteggiamento neutro, erano lì per far funzionare una fabbrica che
dava lavoro ad una 40 di persone e poi i rapporti con i veneti risalivano ai
secoli della pacifica dominazione della Repubblica di Venezia. Certo non li
riteneva membri della comunità ma solo ospiti, più o meno graditi, a seconda
della loro educazione.
Il danno si compì quando fece assegnare dal maestro ai ragazzi
un compito controverso. Una poesiola locale, da imparare a memoria, dove si
prendevano in giro gli abitanti di Cercivento, di Sopra e di Sotto.
A questo punto si levarono gli scudi.
La pronuncia sbagliata dei foresti fu occasione di
grandi lazzi e risate da parte dei locali. In classe con Mario c’era il
figlio del maresciallo dei carabinieri, originario di Siracusa, che non la
prese troppo bene. Il bambino, già abbastanza dileggiato per quella paternità
istituzionale si presentò a casa in lacrime.
“In classe si insegna l’Italiano!”, sbottò l’augusto
genitore.
Senza pensare che gli abitanti di quel vituperato paese di
Cercivento, appresa la notizia, giunsero a inviare formale protesta al
consiglio comunale di Nevesa e poi litigarono tra di loro per decidere chi
doveva firmare per primo.
Già quella collaborazione volontaria provocava negli avversari
politici di tutti i colori un certo imbarazzo, finalmente avevano trovato il
casus belli. Il maestro fu visitato da un ispettore ministeriale e se la cavò
per il rotto della cuffia ( il fatto che avesse sposato la sorella del sindaco
non risultò del tutto marginale ).
“Mai
più!” gli intimò.
Adesso le cose sono cambiate, i ragazzini prendono coscienza
delle loro tradizioni, in classe si
programmano degli appositi laboratori ma gente come Diego ed il coraggioso
maestro ( la cui mano sulla scheda elettorale si posava in segreto sul sole
nascente ) aveva aperto la strada molti anni prima. Di quella poesia sulle risse tra i due
borghi di Cercivento fu però in seguito cancellata ogni traccia.
Diego non la prese bene, fu uno smacco terribile essere
allontanato dai bamibini. In fondo non faceva altro che insegnare loro le
proprie radici e per chi non ne aveva, piantarne di nuove. Mario ebbe modo di
ascoltare i genitori che parlavano di lui ma, con sua grande sorpresa non udì
toni sprezzanti. In fondo non aveva fatto niente di male, una innocente poesia
non era poi questo grande problema e poi era un modo per avvicinare i
ragazzini che non erano originari di Nevesa alla cultura e alle tradizioni
locali. A rivederla bene la poesia sulle risse tra compaesani era anche carina
e poi Mario non aveva mai provato ad usare il cjargnel. Ci provò ma sentitosi
impacciato si fece aiutare dal suo amico del cuore Gustav che lo corresse e lo
ricorresse finchè il risultato non si fece buono. La ripeteva di continuo
Mario dentro la sua mente. Era una sfida, una piccola chiave per entrare nel
mondo degli originari, finchè non ebbe la giusta occasione di mettersi alla
prova. Nella piazza delle corriere di Nevesa scorse la lunga zazzera scura del
giovane Diego che controllava gli orari, forse attendeva qualcuno. Il piccolo
Mario non ci pensò due volte, gli battè sulla spalla. Compito e sugli
attenti gli recitò tutta la poesia a memoria. Era il suo biglietto di
ingresso nella Vicinia.
Diego rimase interdetto da tanta determinazione, ma prima che
potesse meravigliarsi, ringraziare o dire qualsivoglia cosa il piccolo Mario
sparì, di corsa oltre il muretto della scuola. Fu allora che Diego capì che
il suo lavoro non era stato inutile e che anche un forest poteva
calarsi, rispettandola, nella realtà locale. Nessuno l’aveva recitata così
bene, nemmeno i suoi compaesani, e ciò lo fece riflettere...
Pensò a se stesso ai suoi turbamenti di bambino.
Gli sovvenne un’idea. Sarebbe andato alla fabbrica dove
lavorava il padre di Mario a fare un intervista per il giornale, meglio, si
sarebbe rivolto direttamente a lui, che era un tecnico specializzato. Si domandava adesso come mai non ci
avesse pensato prima. Forse perché aveva un’idea della sua valle ancora
incontaminata e quel fabbricone che si prendeva sempre più spazio gli pareva
fuori dal mondo. Senza contare le unghiate delle ruspe sulla montagna. In ogni
caso per tenere la gente attaccata a Nevesa si doveva pensare anche
all’economia, non solo alle tradizioni e a quel minimo di turismo di
passaggio che la faceva sopravvivere. Presto i giovani non si sarebbero più
accontentati delle quattro cose che offrivano le contrade, o di fare tre
lavori, per campare. Se qualcuno portava occupazione senza rubare risorse era
il benvenuto. Non sapeva il buon Diego che quell’idea di sviluppo stava già
scivolando via. Sulla
scrivania di un azzeccagarbugli e di un gruppo di politicanti senza scrupoli
le carte si stavano ammonticchiando. Il grigio carnico era un marmo bello,
prezioso, in giro per il mondo cominciavano ad apprezzarlo. La fabbrica
lavorava a pieno ritmo e se non fosse stato per la distanza dai mercati e per
le strade inadeguate si sarebbe sviluppata ancora di più. Per questo qualche
geologo aveva cominciato a fare villeggiatura da quelle parti e qualche
commercialista si era messo al lavoro per cogliere i punti deboli, i debiti,
le coperture bancarie della Ditta. Uno studio di avvocati aveva esaminato la
natura delle concessioni. Quella che ritornava era sempre la stessa domanda:
“come si fa a togliergli l’esclusiva?”. Quel marmo argentato era
diventato un affare troppo grosso per Nevesa. La Crisi era in agguato.