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Nega tuo padre e rifiuta il tuo nome

4^ Puntata – Lina e Gabriele 

Gabriele a Nevesa non ci era arrivato per libera scelta. Grabriele a Nevesa ci era arrivato in fuga. Anche lui faceva parte del nucleo dei “veronesi” ma la sua storia era diversa da quelle ordinarie degli altri. Suo padre era stato ucciso da un nucleo gappista ( partigiani comunisti dell’ala “dura” ) ben oltre il 25 aprile del 1945, ed il corpo non era stato mai ritrovato. Era studente di  filosofia al secondo anno, a Padova, quando, in quel clima surriscaldato di fine anni sessanta, si era trovato coinvolto nelle indagini sul pestaggio di un militante di estrema sinistra che per le ferite era rimasto paralizzato dal bacino in giù. Faceva parte dell’MSI, scriveva sul giornale clandestino, ma non era un assassino, anzi a quel pestaggio non aveva proprio partecipato. Quando la polizia era andato a cercarlo a casa, imbeccata da una delazione, la madre si era sentita male, ed il patrigno, infermiere professionale al palazzo della Sanità di Verona lo aveva praticamente cacciato di casa. Il problema più grosso però era che il suo nome era venuto fuori ed alcuni ambienti dell’opposta fazione, armati e pericolosi, lo avevano eletto a capro espiatorio. Per questo era fuggito e si era adattato al ruolo di passacarte nella Ditta, agli ordini del ragionier Giulivi, che lo trattava né più né meno come un fattorino ( gli capitava sovente di fare la spesa per la di lui soporifera moglie ). 

Aveva affittato una casa in contrada Muses, doveva lasciarla libera ed in ordine solo 20 giorni all’anno, quando i proprietari rientravano dal Lussemburgo. Un alloggio modesto proprio sotto il monte di Promosio, con lo spolert e la stalla attigua dismessa. I vicini faticavano a salutarlo, sembrava un pregiudicato inviato al confino. Quella casa era una specie di incubo, per lui che era abituato a farsi servire in tutto dalla mamma, ma l’aveva preferita all’albergo per non essere registrato e spiato, come se il maresciallo della locale stazione dei Carabinieri non sapesse già tutto di lui. Spesso si recava a pranzo a casa di Mario, perché Pietro, che era rimasto orfano ragazzino, provava per lui tenerezza, così giovane, così solo. Non parlavano mai di politica ma di questioni di lavoro, o degli amici del bar e quando Pietro aveva qualcosa da ridire sul Governo o sugli amministratori locali Gabriele cambiava immediatamente discorso. I suoi camerati sembravano averlo dimenticato e lui provava a liberarsi dai propri incubi occupando il tempo libero in lunghe passeggiate o con lo sguardo assente ad osservare i lampi del fuoco del camino, specialmente al bar da Otto, a Timau. Aveva la netta impressione di essersi impegnato la vita prima ancora di cominciare ad assaporarla.

 Fu durante uno di quei giorni che fumava guardando distrattamente dalla finestra che udì quella voce. A pochi metri da lui, in una delle case di fronte si sentivano forti le grida disperate di una ragazza. Dai colpi sordi che si potevano udire si poteva dedurre che la stavano picchiando.  Gabriele spense la sigaretta sul davanzale e scavalcò come un gatto la finestra. Si trovò da solo sulla strada. Quando fece il primo passo nella direzione di quelle grida  tutto si acquietò, fu allora che incontrò lo sguardo di quella donna, sulla cinquantina, che teneva la scopa in mano come a scacciare gli spiriti cattivi. Teneva lo sguardo discosto, oltre le montagne. Si volse e lo puntò con gli occhi fiammeggianti, come a dire “fatti gli affari tuoi”. Gabriele non capiva, se una giovane veniva malmenata lei sarebbe dovuta correre in soccorso, invece niente. Si allacciò le scarpe, per riflettere, poi capì. Era una questione familiare, lei era la madre, e stava là davanti proprio per evitare che qualcuno si immischiasse. Però che botte! Parevano cinghiate. Adesso, ascoltando meglio, si potevano udire solo dei singhiozzi sommessi. Per un attimo Gabriele fu tentato di chiedere che cosa stesse accadendo ma l’istinto lo sconsigliò. Così accesasi un’altra sigaretta, si apprestò a fare il giro della contrada. Erano le sei del pomeriggio di una Domenica. Salutò la donna con un rispettoso “buongiorno” ma non ne ricevette alcuna risposta. “Maledetti”, pensò. 

Era proprio incuriosito Gabriele, da quel piccolo fiore spezzato. Non sapeva come si chiamasse, né osava chiederlo ai vicini. Forse l’aveva intravista, ma non riusciva a metterla a fuoco. Vedeva il padre di lei vestito da cacciatore, con i baffoni alla tedesca, che inforcava la Guzzi. Vedeva sua madre ma lei non riusciva ad incrociarla, ne aveva solo un vago ricordo. Nemmeno aumentando a dismisura le gite in contrada, o le sigarette alla finestra. Così, una domenica, mentre pranzava come al solito a casa di Pietro buttò lì il discorso, approfittando della presenza delle donne che certo non potevano ignorare quella saga familiare.

“Quelli che mi abitano di fronte, li ho sentiti urlare”

La nonna Ada fece un’espressione del tipo “non farmi parlare”, mentre tagliava la polenta con il filo.

“Urlano tutti di questi tempi”, sospirò Pietro guardando Annamaria

“Ma quelli gridano forte, c’è una ragazza che piange”

“Che famiglia” sbuffò nonna Ada, come se sapesse già tutto. “Una figlia è rimasta incinta da un militare, uno di Salerno, un alpino di leva a Paluzza, alla fine l’ha anche sposata, ma i genitori si sono rifiutati di andare al matrimonio”.

“E l’altra?” chiese Gabriele con nonchalance

“La Lina? La Lina paga per tutti”, rispose Ada ed il discorso si chiuse lì. 

Fu così che Gabriele, visto che non aveva di meglio da fare, passò i giorni successivi a strolicare sul come avrebbe trovato il modo di comunicare con quella ragazza bionda che finalmente aveva intravisto, mentre andava a prendere i latte nella stalla. D’altra parte lui era spesso fuori la sera e di giorno lavorava. Solo la Domenica aveva qualche possibilità, ma, a quanto pareva, doveva scontare qualche tipo di punizione perché lei non usciva mai. Fu mentre si beveva un grappino dalla Esterina, a Nevesa, che gli sovvenne l’idea. Dalla Ester, una pugliese che era salita in Carnia per un matrimonio combinato, si poteva giocare a Totocalcio e rimanevano spesso schedine della SISAL non giocate che di solito la padrona regalava ai bambini.  Nella contrada Muses c’erano diversi bambini, cosa poteva esserci di strano se qualcuno di loro faceva dei piccoli aerei di carta e li lanciava in giro. Se poi lo si lasciava atterrare all’interno di una finestra semiaperta per il caldo primaverile, poteva apparire solo un incidente. Certo, se l’avesse fatto Gabriele poteva indurre in sospetto, ma l’ingenuità di un bambino…Perciò fece un accordo segreto con Mario. Vai alle Muse a giocare e fai un aereo di carta con questa schedina ( certo allora non si strappavano i fogli dai quaderni di scuola, solo le schedine erano gratis ), gli spiegò tutto e lo incoraggiò con l’ultimo Monello, una rivista per ragazzi che si stampava in quei tempi. Niente per niente. 

Sul primo aereo giunto a destinazione, nella stanza di Lina, c’era solo una frase innocente, sulla colonna di Juventus-Milan: “Nessuno è solo…”. A questo punto Gabriele, nelle sere successive, quando tornava dal lavoro, rimase a lungo ad osservare la casa di fronte dalla finestra semiaperta sui vasetti di geranio. Fu cosi’, un giorno, che la vide e non come le altre volte di sfuggita, una ragazza con il secchio in mano, o con la falce sulle spalle, ma come una donna… Lei le volgeva le spalle e canticchiava mentre con un bricco di caffè pieno d’acqua innaffiava i fiori e ancheggiava. Canticchiava, una canzone carnica, Sul puint di Braulins, forse, sottovoce quanto bastava per non apparire spavalda, abbastanza forte per farsi udire da lui. Rilasciò il resto dell’acqua sulla strada, Gabriele era quasi deluso, adesso sarebbe rientrata. Non fu così, sollevò lo sguardo o lo osservò spavalda. Era lo sguardo di sua madre, più giovane, più ingenuo, più intenso. Gabriele si lasciò cadere la sigaretta dalle mani e si scottò. La intravide sorridere ma quando risollevò lo sguardo non c’era già più, però, osservando meglio, potè scorgere sulla strada un foglio di carta ben piegato, sembrava una schedina del totocalcio. Attese il buio, ansioso,  per andarlo a recuperare. Lo aprì pian, piano come fosse una caramella al rosolio.

“Nessuno è solo…” aveva scritto lui

lei rispose enigmatica: “Tu si”

 

Finalmente Gabriele aveva trovato una ragione e Mario un’occasione per iniziare la raccolta del Monello e dell’Intrepido. Tra Lina e Gabriele c’era uno scambio di frasi brevi, quasi quotidiane, perché un messaggio lungo, se intercettato, avrebbe potuto indurre in sospetto. La ragazza non si può dire che fosse segregata, solo accompagnata. In chiesa, al cimitero, al cinema, al lavoro in braide. Gabriele aveva saputo da nonna Ada che Renzo, il padre di Lina e Gisella, la sorella che si era dovuta sposare con un teron, non era stato particolarmente cattivo, sino a quando si era verificato il fattaccio. Anzi le aveva sempre lasciate piuttosto libere, aveva loro dato fiducia, magari attirandosi la deplorazione delle beghine, poi tutto era precipitato. Gli sguardi ed i commenti della gente lo avevano turbato al punto da ammalarlo. Era stato un impresario conosciuto, rispettato in paese, e quegli sguardi fissi, quei risolini avevano toccato le corde sbagliate della sua anima. La madre l’aveva preceduto, più debole, più sensibile al pettegolezzi. 

 Il giovane doveva trovare un modo per incontrare Lina da sola e alla fine si decise, poteva essere soltanto la stalla, nascosto sotto al fieno, di prima mattina. Era un rischio ma chi non risica… E poi Gabriele pensò al suo omonimo D’Annunzio, alla beffa di Buccari ed al volo su Vienna, insomma, la missione non era poi così impossibile. 

Si svegliò all’alba e non si recò direttamente nella stalla, che stava a pochi metri dalla casa di Lina. Lo staali aveva due livelli, uno, in basso, dove stavano due mucche, uno in alto, dove era stipato il fieno che veniva rilasciato all’occorrenza. C’era una strada di ciotoli che scendeva giù verso la strada provinciale, lui la percorse all’inverso e salì in alto su una di quelle scale formate da un unico tronco con i pioli ad incastro. Era mattina presto e faceva freddo, attese. La sentì arrivare e dai passi comprese che era sola. Udì il rumore metallico del secchio e allora si sporse dal buco e la chiamò.

“Lina, Lina”

Alla ragazza prese un colpo, vedere quel tipo, i suoi capelli neri rovesciati, quegli occhi scuri, penetranti, le mancò il respiro. Se lui si era innamorato di lei, vedendola canticchiare e annaffiare i gerani lei lo fece in quel momento. Se un ragazzo era così pazzo da sfidare il mondo per andare da lei, allora valeva veramente la pena di interessarsi a lui. Gabriele scese con un balzo, e senza attendersi repliche le schioccò un bacio sulla bocca, lei uno schiaffo. Poi si guardarono e risero. Adesso che era saltato giù si accorse che c’era una comoda scala a pioli, ma vuoi mettere l’effetto. A quel punto sgattaiolò via da dove era venuto. Si sporse di nuovo:

“Solito sistema?”

“Solito sistema” rispose lei 

Ma il campionato stava finendo. 1970 – 1971 l’Internazionale di Invernizzi era in testa. 

Vi furono altri fugaci incontri nella stalla, e per fortuna che le bestie erano mute. In ogni caso era venuto il momento di fare il passo avanti e trovare il modo di convincere i genitori di lei a mollare un po’ la briglia. In fondo lui era un giovane istruito, aveva qualche cosa da nascondere, ma faceva un lavoro onesto, magari sottopagato, ma onesto. Affrontare il padre direttamente era sconsigliabile, magari attraverso amici comuni, il ragioniere… Fu quando arrivò a regalarle un anellino, niente di speciale che accadde il patatrac. Si sa le ragazze si vantano, e poi chi era più fidata dell’amica del cuore? La Luisa si sentì avvampare d’invidia di fronte al quel modesto, nel costo, simbolo d’amore e, da perfetta gatta morta, non potè fare a meno di rivelare la “tresca” alla di lei madre. Per quello strano fenomeno che era il telefono senza fili, si era passati dai baci alle carezze, e poi via via fino al classico: “E’ uguale a sua sorella”. Così, mentre prendeva contatti per agganciare Renzo, il padre di lei, la sventura cadde sui due innamorati. 

 Renzo si sforzava di urlare in italiano perché lui sentisse.

 

“Puttana, vuoi fare la fine di tua sorella?”

“Ma papà non mi ha neanche toccata…”

“Con un forestat, mai, scordatelo!” 

E interveniva la madre:

            “Ti ho dato un’educazione, ti mando in chiesa tutte le domeniche, e tu sempre attaccata alla radio” 

E Renzo “La sfondo, questa radio, chissà cosa vi mette in testa”, rumore di mobile sfasciato. 

E poi le botte. Ad ogni colpo Gabriele trasaliva così come se le avessero date a lui. Se fosse intervenuto si sarebbe tirato dietro una serie di imputazioni da codice penale. Decise di farlo solo se quelli fossero andati oltre. Si mise a fumare compulsivamente alla finestra. Adesso si sentivano solo le cinghiate ed i singhiozzi. La madre uscì con la scopa come a dimostrare a tutti, che stavano spiando di sicuro, che aveva la situazione sotto controllo. Lo vide e gli piantò gli occhi addosso ma questa volta lo sguardo di Gabriele, che annuiva come Marlon Brando in fronte del porto, dovette impressionarla parecchio, così  abbassò lo sguardo. 

Quella notte Gabriele non dormì, si sentì un vigliacco, comprese che doveva dare a Lina una prova del suo amore. Allora si vestì ed attese che Renzo inforcasse la sua Guzzi, con il cappello con la piuma ed il completo da cacciatore. Lo avvicinò, e quello fece finta di non vederlo, bofonchiò qualcosa del tipo “non ho niente da dirti”. 

Gabriele bloccò la ruota davanti tra le sue gambe, lo guardò bene negli occhi, il padre di Lina era stupefatto, a bocca aperta.

“Se tocchi ancora tua figlia”

Renzo rantolò una domanda

“Ti ammazzo.”                      

 

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