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giorno per giorno

3^ Puntata – L'altra faccia della medaglia 

La donna era la colonna portante, insostituibile, della famiglia. Per secoli si era assunta ogni onere della casa e fuori della casa. Per tradizione gli uomini Carnici avevano vissuto di emigrazione, di lavori stagionali o precari e ad essa era richiesto uno sforzo sempre aggiuntivo. Il reperimento delle risorse primarie per la casa, dalla legna da ardere al latte e ai magri frutti dell’orto, per la stalla, dal fieno alla cura per gli animali, l’educazione dei figli. Per secoli era stato così, ma alla fine di quegli anni sessanta un nuovo vento di liberazione soffiava in tutto il mondo occidentale e, seppure mitigato, faceva sbattere porte e finestre anche negli stavoli più isolati. Era in corso una rivoluzione tecnologica e dei costumi che produceva una frattura senza precedenti rispetto al passato. La lavatrice, le macchine per cucire, le stufe a kerosene, i fornelli a gas, le automobili. Nella pubblicistica e nei costumi si evolveva una nuova immagine di donna emancipata, sentimentalmente libera, che aveva diritto alla propria individualità. Nelle famiglie si evidenziavano le prime microfratture. Per le signore più risolute il marito al bar e la moglie a “badare alla casa” da mattino a sera non era più un menage accettabile, le figlie si ribellavano alle madri, e di fronte alla secolare fatica di una economia domestica di sussistenza, il miraggio di uno stipendio e di una giornata che si potesse iniziare con la colazione e terminare con la cena ( per poi mettersi tutti davanti alla televisione ) era una meta praticabile. Nel giro di una generazione si passò dalle ragazze infagottate in abito da lavoro che fabbricavano scarpez nella stalla con gli occhi bassi  e giovanotti che si inventavano qualunque scusa per partecipare al filò a giovani donne che osavano puntare alla patente e all’indipendenza economica. Diritti sacrosanti, ma quella travolgente “globalizzazione” recise le radici della cultura della montagna, la relazione dei nativi con l’ambiente circostante. Essa non fu reinterpretata, aggiornata, riequilibrando le  discriminazioni tra i sessi, declinata alle tradizioni locali, ma progressivamente accettata come nuovo unico stile di vita. 

A Nevesa il salto temporale tra le generazioni esasperò un fenomeno già endemico delle piccole comunità: il pettegolezzo. Queste ragazze così libere mettevano a dura prova i circoli delle beghine già oberate di lavoro per la lingua. Le donne, i loro sentimenti e le loro storie private erano il loro piatto forte e anche i clienti vocianti dei bar non si tiravano indietro. Un passaggio ottenuto significava relazione sicura, l’assidua frequentazione di un negozio intrigo, una espressione sciupata la prova di un torto matrimoniale subito. Il sesso, dietro al paravento puritano, era il motore di tutto questo fiume di parole. Perciò restare ( da nubile ) o non restare ( da maritata ) in cinta rappresentava un’infinita occasione di maldicenza che provocava sofferenze aggiuntive a chi già ne pativa. La malapianta del pettegolezzo uccise e ferì soprattutto le donne, a volte trattate come serve in famiglia e come sgualdrine fuori ma non risparmiò gli uomini, specie quelli più sfortunati, fuori dal circuito del lavoro perché malati o depressi, che ne ricevettero il colpo di grazia. Entrare in un locale e vedere gli astanti impallidire e cambiare discorso doveva essere una umiliazione terribile.

Il passatempo preferito dagli uomini erano le osterie che, non si sa come, traboccavano di gente ad ogni ora del giorno. Un uomo non era un uomo se non andava al bar, anzi, se non ne frequentava almeno due o tre, per non fare torto a nessuno. Non era solo il fatto, di bere, fumare o giocare a carte, l’osteria era il gazzettino locale, il luogo dove si venivano a sapere le cose, o dove si potevano far arrivare messaggi a chi di dovere. All’osteria si concludevano contratti davanti a notai avvinazzati, si affrontavano discussioni sull’alta politica, si ascoltava qualche sunadoor, si evadeva dalla quotidiana fatica di vivere.  Per molti uomini adulti era la seconda casa, visto che alla prima, col buio che concludeva i lavori, doveva pensare solo la moglie. Visto che le donne si stavano stufando di fare solo le schiave la frequentazione dei bar, sicuramente l’industria più fiorente di Nevesa e dintorni, era motivo di continui dissapori. Senza contare quelli che si giocavano la camicia gettando sul tavolo il magro stipendio ( a carte o a dadi ) in un sottoscala che sapeva di muffa. Un altro rovescio della medaglia era la diffusione dell’alcolismo, una vera piaga sociale. Difficile convincere un rude cjargnel a preferire come dissetante l’acqua e menta, a meno che non si trovasse veramente in punto di morte. 

Un locale particolarmente caratteristico di quei tempi ( e anche di oggi ) era il bar/ristorante da Otto, a Timau. Mario che già in casa sua si trovava a districarsi tra l’Italiano e due dialetti ( Veronese e Mantovano), lì sprofondava confuso in una babele multietnica. Mentre suo padre si scatenava nella classica partita a ramino ( una volta perse 30.000 lire, una fortuna ) restava praticamente a bocca aperta su come i timavesi passassero dal loro tedesco medievale, al friulano, all’italiano e, all’occorrenza al veneto ( con accento triestino o veronese ) a seconda dell’interlocutore. Nella sua ingenuità immaginava che possedessero un interruttore da qualche parte, perché quella naturalezza gli appariva incredibile. Alla fine lui preferiva esprimersi solo nella lingua della televisione, perché tutti quegli idiomi riuscivano soltanto a confonderlo.  

A proposito di  relazioni familiari rimase un classico Damiano, che faceva l’autista a Timau. Egli passava la giornata al bar da Otto con la macchina in attesa di qualche cliente. Finchè le automobili si contavano sulla punta delle dita poteva essere un’attività remunerativa. La sua passione erano le carte e per ammazzare il tempo si lanciava in infinite partite con gli avventori, sempre elegante ed impeccabile nel suo vestito scuro. La moglie, prima dell’ora di cena, scendeva e con il suo caratteristico accento romano lo pregava di salire. Lui rispondeva sempre educatamente   

“Si tesoro, si cara, si dolcezza, si fiorellino, arrivo subito…” ed ogni giorno si inventava un complimento nuovo, che nei fatti era una presa per i fondelli.  

Tutti si osservavano le punte delle scarpe per non scoppiare a ridere. Dopo mezz’ora si ripeteva la stessa scena, cambiavano solo i complimenti, e via così fino alle dieci di sera, ora in cui Damiano si prendeva il giusto riposo, per poi ritornare… 

Fin dall’asilo Mario aveva sperimentato la propria diversità. Di lingua, di cultura e per certi versi anche fisica. Il suo corpo gracile e una salute non certo di ferro si dovevano confrontare con un coraggio da leone e una certa baldanza interiore, che spesso e volentieri faceva a pugni con la realtà. Così il suo primo amichetto dovette conquistarselo. C’era una bambino definito “cattivo”, forse perché era più solo di lui. Abitava in una contrada prossima alla sua. Era praticamente inavvicinabile, tirava sassi e sputava ( e aveva solo tre anni ) agli altri ragazzetti della sua età ed al medico del paese appariva affetto da un certo “autismo”. Mario non esitò a prendersi gli sputi e qualche scapaccione per avvicinarlo, per vincere la sua solitudine e alla fine divennero inseparabili. Gustav apparteneva ad una famiglia che stava a Nevesa da sempre e giocava solo con lui. La sera si mettevano su un masso che era la loro “tana” e discutevano di tutto, con parole fitte fitte. Affrontarono l’asilo assieme, un asilo pieno di bambini. A Nevesa oggi non esiste più l’asilo e neanche la scuola, poiché di bambini non ce ne sono più. Una Comunità senza bambini smette di esistere per sfinimento, ma allora le maestre avevano il loro bel daffare a strare dietro a quei piccoli pirati. Nel cortile c’erano i giochi ed anche un modesto orto, che i bambini curavano personalmente. La zolla di Mario non restituì mai niente ed era occasione di aspri rimbrotti così egli sublimò la sua vendetta. 

            L’intera giunta comunale era andata in visita all’asilo. Un monocolore conservatore. Le maestre come solevano fare chiesero ai bambini di cantare in coro e poi incoraggiarono i singoli più dotati a farsi sentire dal Sindaco. Chiamarono Mario e Robertino, figlio del bolscevico senza Dio del paese, che però possedeva una gran bella voce.  I due si interrogarono sulla canzone da cantare. Il vicesindaco, con fare accondiscendente, indicò loro di eseguire quella che conoscevano meglio tutti e due. Dopo un breve conciliabolo frontista ( il papà di Mario era socialista ), i due trovarono l’accordo e con fare compito e fiero intonarono: “Compagni, avanti! Il gran Partito”. In certe famiglie quelle  canzoni si apprendevano assieme ai ritornelli dello zecchino d’oro e poi Mario aveva sempre pensato che l’”Internazionale” fosse stata dedicata alla squadra del suo cuore, una passione che condivideva con Gustav e una buona parte degli abitanti del paese. Mal gliene colse alle maestre di chiamare ad esibirsi Mario e Robertino, ovvero i figli di due rossi. E lo sapevano bene perché si poteva dire che loro avessero inventato la tecnica degli exit-polls.

Il lunedì dopo ogni elezione chiedevano a tutti i bambini di dichiarare il voto dei loro padri ( le madri evidentemente non contavano ) e li ammucchiavano da una parte e dall’altra, chi non parlava veniva tenuto in piedi per ore. I figli dei comunisti e dei socialisti tutti insieme dietro alla lavagna. Il fronte popolare non sarebbe mai dovuto prevalere, ed era meglio educarli fin da piccoli a stare dalla parte giusta. 

La Gente moriva anche a Nevesa. Mario aveva l’idea che quando uno diventava vecchio una certa mattina non si svegliava più, se la civetta cominciava a cantare erano affari suoi. Fu scioccato quando venne a sapere che la sorellina di Gustav era gravemente ammalata e poi era morta. Questo non era previsto e rimase deluso quando il telegiornale della sera non riportò la notizia. D’altronde sua nonna Ada lo portava al cimitero a mischiarsi tra tanta gente sconosciuta. Perché lo facesse, visto che là non aveva parenti, per lui era una mistero ma in qualche modo era un atteggiamento che la associava alla Comunità. Al cimitero trovava altre vedove anziane, parlavano dei loro dolori e si capivano. Il cimitero doveva essere un luogo silenzioso ma era talmente ben frequentato nei giorni di festa, da costituire un polo di attrazione, specialmente tra le donne di una certa età. Come dimenticare, la Shula, la Palma che aveva la casa sul Cret e le tante nonne che riponevano la gerla solo per trovarsi in fotografia qualche giorno dopo. I funerali poi erano una cosa imponente, lunghi serpentoni di folla, i sorestants in prima fila e le persiane chiuse. Guai lasciarle aperte ed essere scoperti a curiosare, si veniva segnati a dito per giorni. La morte era un evento grave, ma le veglie rappresentavano un rito di riconciliazione con  la vicinia, si veniva invitati a mangiare o bere qualcosa (tipica la grappa con la coda di vipera dentro ) ed era obbligatorio partecipare. 

Oltre la vita c’era la religione e non solo. Nei paesi c’era sempre una fattucchiera che si cimentava con qualche sorta di magia. Mario e i suoi coetanei conoscevano alcuni luoghi dove si potevano trovare nicchie con fotografie, effetti personali, ciocche di capelli e strani graffiti.  Solitamente si trovavano sul fianco della montagna, nei pressi  della casa dei “protetti”. Un retaggio di antichi rituali che risalivano al feudalesimo. C’era almeno una strega a Nevesa, ma nessuno osava dire chi fosse. Guai toccare i suoi “manufatti” ma i bambini se ne fregavano assai. La faccia “ufficiale” dell’aldilà era la parrocchia e la mamma Annamaria non faceva mancare Mario ad una messa. Per gli 800 abitanti di Nevesa c’erano tre chiese, tra le quali una così grande che ci poteva entrare un battaglione. Posti di lavoro pochi, ma una chiesa da nababbi, una vera cattedrale. Il papà Pietro lo rinfacciava sempre al giovane parroco, ma lui era stato costretto ad ultimarla da un lascito testamentario. Il preidisciut di Nevesa era sotto la scopa del pettegolezzo. Un cuore sofferente per le mezze parole che parlavano di perpetue, ragazzine, strani giri con la macchina. Mario ascoltava sempre volentieri il suo Catechismo, perché quel ragazzo faceva tutto con passione. Cominciò a capire che c’era un modo di farsi ascoltare là in alto, oltre il Cret e le nuvole. Questo fu uno dei più bei regali della sua vita. Quando il giovane prete non resse più alla sua solitudine e tentò di lasciare questo mondo, Mario ascoltò dietro alla porta i commenti tristi e acrimoniosi, verso chi aveva rovinato quel prete, dei suoi genitori. Loro non videro ma lui pianse a lungo e amaramente… 

A parte i bar di cui abbiamo già detto, le rimesse degli immigrati, gli impieghi e le pensioni statali, qualche malga isolata, l’economia per il resto era poca cosa. Esclusa la Ditta, che proprio in quegli anni impiantava il suo laboratorio di marmi, si poteva contare solo d’estate sugli stranieri che varcavano il passo di Monte Croce e si fermavano a fare rifornimento. Non che la montagna fosse povera, ma tutti i beni erano stati  dati in concessione, dal legname, alle pietre, all’acqua. Per questo la Ditta era un’eccezione. Qualche amministratore accorto aveva concesso l’uso delle cave di marmo ma in cambio, con un gentlemen agreement, aveva richiesto l’impiego di manodopera locale nei ruoli generici, in modo da strappare qualche famiglia all’emigrazione. Venissero pure gli specialisti da fuori ma un po’ di ricchezza doveva  fermarsi in valle. Questo semplice concetto dovrebbe sempre essere applicato quando si sottraggono risorse primarie ad una Comunità locale. Anche a Nevesa però c’era un mito, un Eldorado, una pietra filosofale. Un’infrastruttura che avrebbe risolto tutti i problemi per decenni: IL TRAFORO.

Studi su studi, consulenze su consulenze, avevano dimostrato che bucando il Cret ci si poteva trovare in Austria, ad una quota ragionevolmente bassa. Servivano ingenti finanziamenti ed una scelta politica, quella di privilegiare un asse, Tolmezzo Lienz anziché quello Tarvisio Klagenfurt. 

Un mito, appunto, perché quando gli ingegneri si mettono di buzzo buono non è detto che il risultato finale corrisponda alle aspettative. Di solito promettono bene e poi razzolano male. Costruiscono alti viadotti di cemento che distruggono le valli, le scavalcano come oggetti lanciati dai cavalcavia. Una bella superstrada di fondovalle, questa si che sarebbe servita, con la possibilità di svicolare nei paesi e di  incrementare l’industria ed il commercio. Ben venga il traforo poi ad aprire il confine del Nord, se l’avessero mai realizzato con criteri di sostenibilità ambientale ( allora non erano stati ancora pensati ).  Avrebbe cambiato il volto di quella valle, senza contare il lavoro assicurato per almeno dieci anni. La nascita dell’Unione Europea e la caduta dei dazi sulle merci avrebbe fatto il resto. Se poi qualcuno avesse immaginato che esistevano anche le ferrovie ( bastava un binario ) e non solo le automobili e che una tratta fino a Paluzza esisteva fin dalla prima guerra mondiale, forse i Verdi austriaci, contrarissimi, ci avrebbero potuto ripensare. L’unico movimento che l’idea del traforo produsse in realtà furono le periodiche visite dei politici nazionali sotto elezioni. Un sopralluogo, una bella mangiata, uno stuolo di fotografie con i locali sorestants e arrivederci al prossimo giro, a parlare di traforo. Occorreva fantasia e la voglia  di reinventare la montagna  alla luce dei veloci cambiamenti che il mondo proponeva. Invece, forse per ataviche eredità, negli amministratori di Nevesa, dominavano la rassegnazione e l’assistenzialismo come modelli di sviluppo.

 

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