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La triste ballata di Lina

13° puntata – Il ponte di Pumarmandl 

               Don Carlo aveva perso dieci anni di vita a comporre la lista, uno per ogni persona da ricollocare, esauriti i casi più gravi tutto si era fatto più difficile. In molti avevano famiglia, allora depennò quelli che possedevano la casa, lo stavolo e le bestie. Passò poi a cancellare i più giovani che avrebbero trovato meno difficoltà a ricollocarsi, anche lontano da Nevesa. I dubbi rimasero su Elvio, che era tornato dall’Australia e Gabriele, la cui tormentata storia d’amore con Lina lo inteneriva. 

            La ragione lo portò a scegliere Elvio detto Elvis, per non esporlo ad un'altra traversata oceanica. A lungo si pentì di questa decisione, anzi la ritenne sempre una pagina nera del suo sacerdozio, per non avere capito quanto profondo fosse il sentimento che legava i due ragazzi. 

            Gabriele la attese per l’ultima volta davanti alla Chiesa e, tra il grande scorno della madre di lei e la curiosità morbosa dei compaesani, gli riferì che per qualche tempo si sarebbe allontanato. Non aveva più i soldi per mantenersi al “Cacciatore” e nessuna speranza di trovare un lavoro sul posto. Non poteva immaginare che quella domenica di novembre Renzo, il padre di lei, avrebbe rotto tutti gli indugi e invitato par un cafè il suo fidato capomastro, novello pretendente di Lina. 

            “Da cosa nasce cosa” si era lasciato volutamente sfuggire il vecchio cacciatore, lasciando presagire per la propria figlia un crudele destino.  

            A Lina, la notizia che non avrebbe più visto Gabriele per settimane, forse per mesi e quella indebita intrusione nella sua vita privata avevano provocato un profondo turbamento.  

            Lei era una ragazza intelligente, gentile e piena di premure. Se l’avessero fatta studiare sarebbe certamente divenuta una brava maestra. La sua stanza era sempre in perfetto ordine e l’unico piccolo vezzo erano due bambole di pezza e la raccolta delle figurine della “Mira Lanza” che custodiva gelosamente sotto il materasso, per non apparire bambina.  

            Si teneva informata, per quello che poteva, con i rari giornali che arrivavano a casa. Dalle amiche più “libere” riusciva ad ottenere dei libri da leggere come “i promessi sposi” o “cime tempestose” che l’avevano molto commossa. Era una ragazza silenziosa e quando apriva la bocca lo faceva sempre con cognizione di causa.  

            L’amore per Gabriele era stata una grande, travolgente, novità come un temporale estivo che l’avesse sorpresa a falciare nei prati senza un riparo. Malgrado l’evidente contrarietà dei genitori di lei era cresciuto fino al punto di farla travalicare tutte le regole e i freni che le sue tradizioni le avevano imposto. Si sorprendeva la sera a sognare il suo ragazzo che, con grande delicatezza l’accarezzava nella penombra  della Domenica pomeriggio, al “Cacciatore”. Poi tutto era finito, qualche spione aveva infranto i suoi sogni e dal paradiso era riprecipitata giù. 

            Adesso si trovava davanti ad un bivio, piegare il capo alle pretese del suo genitore o ribellarsi. Come? Non poteva scappare di casa da sola e Gabriele, nel giro di poche ore, sarebbe stato troppo lontano. Qualche lettera di nascosto e niente di più. Quel capomastro poi, sempre sporco di calcina, con quei baffi ingialliti dal fumo che lo rendevano ancora più vecchio, gli faceva ribrezzo.  

            Così, dopo il cafè a casa sua, dove il favorito di suo padre, ripulito e irrorato di colonia, la riempiva di complimenti, dietro i baffi e il toscano, il suo inconscio iniziò a fantasticare un’orrida via di fuga. La notte si svegliava all’improvviso, terrorizzata, faceva fatica ad alzarsi ed a portare a termine le faccende di casa. Cominciava ad odiare suo padre e osservava con insistenza maniacale quella finestra chiusa, dove aveva intravisto la prima volta il suo dolce ragazzo. Una mattina, visto che il campionato era ricominciato, trovò sul davanzale un piccolo aereo ricavato da una schedina della SISAL. 

            Quando leggerai questo biglietto sarò già lontano ma non passerà giorno che non penserò a te. Verranno quei benedetti ventuno anni, ho letto che al parlamento italiano c’è una proposta di legge che prevede di portare a diciotto la maggiore età. Dobbiamo avere fede ma aspettami, nessuno può obbligarti a sposare una persona che non vuoi. Don Carlo me lo ha garantito. Scriverò a lui le mie lettere, così farai anche tu. Verrà il nostro tempo.” 

            Per Lina l’ingiuria che stava subendo, per futili motivi di orgoglio familiare, era troppo grande. La Loise si era allontanata, Gabriele si era dovuto cercare un nuovo lavoro e rientrare in famiglia. Lei era sola e sua madre non sarebbe mai divenuta un’alleata. L’unico pensiero che aveva esternato a suo marito era che c’erano tanti bei ragazzi in Carnia, forse non valeva la pena intestardirsi con il capomastro. L’altro gli aveva risposto: “Avonde cusì”.  

            Avevano, tra gli altri, un piccolo appezzamento alla confluenza del Flum con il torrente Bût e, visto che il livello dell’acqua stava aumentando, le era stato chiesto di recarsi nel fienile a recuperare una cassa di mele. Carichi fino all’inverosimile l’ultima volta le avevano lasciate sul posto. Gabriele era ormai lontano e la ragazza si era relegata in casa, era utile farle prendere un po’ d’aria.  

            C’era una mezz’ora di strada e si doveva attraversare un ponte di legno ricostruito più e più volte, perché si trovava in un’ansa che le piene del fiume trasformavano in un impetuoso mulinello increspato di rapide.  

            L´Aip era al di là del torrente e di quel ponte di legno sul Bût che le mamme stimavano pericolosissimo e quindi proibito ai bambini. Sui pericoli di quel ponte sospeso era fiorita una leggenda. Quella del folletto cattivo, il PUMARMANDL, che trascinava i bambini con sé in fondo al torrente, quando arrivava la piena. 

            Perciò la mamma di Lina la richiamava sempre quando saliva su quella passerella con un’unica spalliera. Costruirne due era sprecato, visto che la piena autunnale, con un’alta probabilità, l’avrebbe divelta. 

            Quante volte si era fermata a lanciare dei piccoli sassi nell’acqua, durante le pause della fienagione e a pensare al percorso di quei piccoli sassi, che, rotolando rotolando, sarebbero giunti fino al mare. 

            Alla fine del sentiero si poteva intravedere la “Crete” di Timau, e dietro, a emergere dall’Austria, si potevano scorgere dei nuvoloni neri, carichi di pioggia. Il ponte era saldamente in piedi ma i primi segni di aumento del livello dell’acqua inducevano alla prudenza. 

            Forse quello era veramente un luogo magico. L’ansia e i tremori che ultimamente, di quando in quando, toglievano il respiro a Lina la colsero non appena rientrò verso la passerella di legno con la gerla carica di mele. Quello che oggi chiamiamo “attacco di panico” la morse ad un passo dal fiume. Cosa lo avesse scatenato lo nascondevano i suoi sentimenti più reconditi mentre le prime gocce di pioggia precipitavano fitte e sottili. A fatica, con molta fatica riuscì, abbandonando la gerla a trascinarsi di nuovo dentro il piccolo fienile. Chiuse la porta dietro di sé e si ritrovò sola, con la pioggia che ticchettava sul tetto di scjandules. Faceva freddo e lei  si mise a piangere, tutto quello che aveva tenuto dentro fino a quel momento irruppe nell’angusto spazio dedicato ai frindiei.  

            Cosa le stava accadendo? Davvero c'era un folletto cattivo a presidiare quell'ansa del fiume? Ci doveva provare un'altra volta, il livello dell'acqua non sembrava così alto da impedire il passaggio. Sinistri flutti e mulinelli marroni si andavano increspando, il ponte era reso viscido dagli spruzzi. 

             Allora Lina comprese, era il PUMARMANDL che la chiamava, i nuvoloni bassi ed il buio precoce rappresentavano il fosco fondale di un dramma. Si fece coraggio, camminò con i muscoli contratti fino all'ultimo tratto di sentiero che portava al torrente ingrossato, il suo viso era sferzato da gelide folate.  Riprese la gerla delle mele sulle spalle ma quella sensazione di blocco, di terrore assoluto, questa volta la insidiò mentre si trovava a metà del guado. 

            A quel punto la situazione si fece veramente pericolosa, c'era una spalliera sola e con tutto quel peso addosso l'idea di perdere l'equilibrio su quel legno sdrucciolevole le fece orrore. L’acqua non era altissima ma la corrente veloce ed infida. Si maledì per non aver pensato di tagliare per la strada dei prati che portava, un paio di chilometri più a valle, ad un ponte in muratura e ad una strada asfaltata. I piedi e le mani presero a tremare, non c'era anima viva nel suo raggio visivo e aveva la netta sensazione che il PUMARMANDL la chiamasse attraverso la voce del vento, che ululava tra le assi della passerella. 

            Si, la piccola Lina impazzì per amore sul ponte del PUMARMANDL e quando l´acqua le arrivò alle caviglie, le parve chiaro il destino che le era stato assegnato. 

Vi si abbandonò.

            L´acqua ridiscese nel giro di un´ora ma quando andarono a cercarla ritrovarono solo una gerla, solidamente incastrata alla spalletta del ponte, che non si disperdessero le mele. Di lei più nulla. 

            Fu organizzata una vasta battuta di salvataggio lungo tutto il corso del Bût ma l´acqua è maledetta quando da un rivolo insignificante si trasforma in un mostro. Il PUMARMANDL aveva mietuto un’altra vittima.

            I familiari non cedettero subito all´evidenza e mandarono i carabinieri a cercare Gabriele, al quale, evidentemente, intendevano addossare tutte le colpe. Immaginavano o forse speravano in una messa in scena.  Lo fecero fermare per due giorni dai carabinieri della sua città affinché rivelasse dove l´aveva nascosta.

            Si può immaginare l´angoscia del giovane che aveva intuito che cosa potesse essere accaduto. Dalla guardina della vecchia questura di Verona poteva scorgere l´Adige, anch´essa agitata e immaginare lo scempio che i flutti potevano fare della piccola Lina, di quella ragazza che aveva amato tanto.

            La trovarono sotto il ponte di Zuglio, incastrata tra due massi. Il funerale fu imponente, a Gabriele fu impedito di partecipare, pena l’immediato foglio di via. Indimenticabile però l´omelia di Padre Carlo. Ne riportiamo un piccolo estratto: 

            “Siamo qui a piangere una povera ragazza, una nostra figlia diletta. Sento le voci in paese, le sento. Dicono "ah se non ci fosse stato quel tale..." io vi dico, nel rispetto dell´immenso dolore della sua famiglia, che le vie del Signore sono imperscrutabili e che quei due ragazzi si sono amati davvero. Non so se oggi, negli anni settanta, le ragazze debbano ancora attendere passivamente l´arrivo del "principe azzurro" ma Lina aveva già scelto e io non vi ho trovato nulla di sbagliato. Anziché cercare delle colpe possiamo immaginare una disgrazia, un´improvvisa ondata di piena, mentre Lina obbediva ad una richiesta di sua madre, sono cose che accadono in montagna. Piuttosto a tutti i genitori dico, abbiate più comprensione, ascoltate i vostri figli, lasciate loro scegliere con più libertà la propria via, affinché non si sentano smarriti e cerchino soluzioni estreme alle proprie inquietudini…"


            Nella chiesa c´era un grande silenzio. Il piccolo Mario teneva gli occhi bassi. I genitori non riuscivano a contenere le lacrime. Avevano ordinato di persona la corona di fiori di Gabriele, anche se non fu possibile apporre la dedica che lui aveva pensato “da chi ti amerà sempre”. "I tuoi amici veronesi" c´era scritto ed era il massimo che Don Carlo aveva accettato per non urtare i sentimenti della famiglia di lei.

 

***

             La congrega del geometra Tare fu di parola ed anche a Pietro fu trovato un lavoro, al limite di quei quaranta chilometri di raggio che l’accordo aveva previsto. In una zona industriale dell’alta val Tagliamento c’era un’azienda di mobilieri che necessitava di un operaio generico. Si trattava di quaranta chilometri, ma in linea d’aria e per arrivare da Nevesa al posto di lavoro occorreva non meno di un’ora di macchina. D’inverno, a volte, non ci si arrivava per niente. Pietro era un marmista specializzato e si doveva adattare ad un lavoro che non aveva mai fatto con uno stipendio sensibilmente ridotto. 

            In qualche modo, costringendolo così lontano, lo punivano senza contravvenire alla parola data.  Era durissima ma arrabbattandosi, dividendo la spesa della benzina con altri operai raccolti sul percorso, si poteva sopravvivere.  

            L’Amministrazione di Nevesa, la primavera successiva, subì il primo tracollo della storia. Sebbene furono mandati a votare anche i morti,  il sindaco fu sostituito dal cognato cacciatore, che apparteneva all’opposto schieramento, ma la fabbrica restò chiusa. 

            Mario esordì l’anno successivo con la maglia nerazzurra della squadra locale contro il Timaucluelis, prendendosi cinque goal. Non fu importante il risultato ma la grande emozione di calcare un campo di gioco che aveva sempre  guardato solo da fuori. 

                        Il piccolo Mario allargò il suo raggio d'azione ai boschi e alle mille opportunità che la natura di quei luoghi poteva offrire. Aveva sviluppato un'indole solitaria e fantasticava di avventure sulle piccole dighe che i ragazzini costruivano sul fiume o nelle capanne di tronchi e rami di abete che edificavano nelle radure. 

            Quanti litigi con i proprietari dei prati dove cercavano di giocare a pallone, quante ramanzine per un ritorno dopo il tramonto o una sbucciatura fuori ordinanza. Era povero Mario, non si poteva certo permettere le biciclette ultimo modello che qualche coetaneo sfoggiava con orgoglio ma di una povertà dignitosa. A scuola era bravo e oramai ogni angolo di Nevesa gli pareva familiare, e, tranne che per il cognome, si poteva dire che condividesse in tutto e per tutto le radici del Tei di S.Celestin

            Aveva anche preso a parlare il Cjargnel con un accento impeccabile e sorprese suo padre e tutti gli avventori del bar, quando, al terzo giro di tajuts proruppe in un “Cemût fasèiso a vê simpri sêt, vualtris omenaz?”  

             Purtroppo quando suo padre si tagliò una falange alla sega circolare che non era per lui uno strumento familiare e quando la terra tremò, mettendo in crisi tutto l'apparato produttivo del Friuli, la sua famiglia si dovette arrendere e abbandonare per quattro soldi il pezzo di terra che non divenne mai una casa, per emigrare.

            Fu una mattina senza luce che il piccolo Mario lasciò Nevesa, per sempre. Quelli che leggono queste parole e hanno vissuto quell'esperienza possono capire. Sarebbe tornato come un villeggiante e avrebbe scrutato con curiosità i nuovi occupanti della sua casa, il cui cancello aveva martoriato con centinaia di pallonate, ma nulla potè essere più come prima. Lasciare quei monti dove tutto gli era familiare per la periferia anonima di una grande città, dove era solo un numero e dove allora si soleva scrivere sulla carta di identità "immigrato da…" anche se ti muovevi da una Regione all'altra, fu uno shock che non fu facile da superare. 

            Gli stessi ragazzini di città avevano altre aspirazioni e valori rispetto a quelli a cui si ispirava lui. Nessuno poteva permettersi di fare quattro passi e andare a pescare sul Flum, o guardare le nuvole scalare le montagne nei giorni in cui il sole faceva capolino nel cielo terso dopo un temporale. 

            Mario lo sapeva bene: i suoi genitori non avevano lasciato il suo paese per scelta, ma solo per necessità. 

            Il giorno che se andò da Nevesa gli ultimi a salutarlo furono Diego il Dottore e Giovanni il Sindacalista, che aveva già fatto scalo al bar sul ponte di Sutrio. Diego conosceva bene il cammino della speranza e la sua fu l’unica calda carezza di una mattina troppo fredda. 

            Sfilò, sotto lo sguardo del bambino, la stretta di Nojaris, sfilarono Tolmezzo e Amaro, dove aveva segnato un gol memorabile, sfilò poi Gemona ferita. I monti divennero colline, il tamburo nel petto prese a  battere più forte. Una lacrima furtiva fece capolino, nascostamente, tra i suoi occhi. 

            Dietro, l’autocarro carico di mobili e di storie solcò la pianura, poi approdò in una strada anonima all'estrema periferia della grande città, tra un motel e una fermata dell'autobus.

            Per anni Mario si rifiutò di accettare la nuova realtà ed oggi che è un uomo possiamo rivelare un piccolo segreto: spesso correva in bicicletta fino al passaggio a livello, dopo la scuola, per osservare ammaliato i treni che portavano all’est.

  

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