E' come
perdere uno di famiglia
11° puntata – La ditta chiude
Pietro corse a casa per svegliare tutta la famiglia. Era
arrivato l’autunno, le scuole avevano già aperto i battenti ma da settimane
il lavoro in fabbrica era scemato. Gli operai vivevano una specie di
pantomima, inutile quanto defatigante:
“metti questo là in fondo” e magari dopo mezzora…”rimettilo
qua!”
I camion erano sempre di meno a caricare il lavoro e, sulla
strada che attraversava la glerie, aveva cominciato, fatto mai
avvenuto, a crescere l’erba. Ch' à ti vignis la jerba davant la puarte
non è propriamente un augurio di buona fortuna e per la Ditta quel detto si
stava avverando. Si poteva di certo prevedere che quel giorno così triste
potesse arrivare ma tutti speravano succedesse più tardi, dopo che gli operai
avessero concordato il da farsi.
Il piccolo Mario aveva gli occhi semichiusi dal sonno e non
capiva la ragione tutto quel trambusto, di quel risveglio improvviso. Non
sapeva di dover partecipare ad un funerale.
Sul piazzale davanti all’Azienda sostava una piccola folla di
operai attorniati dalle loro famiglie, le discussioni erano concitate, a volte
violente, ma tutti avevano lo sguardo rivolto alla sbarra abbassata.
Poteva accadere che qualcuno, magari per burla, chiudesse la
sbarra, ma il lucchetto imponente che ci era attaccato e quel nuovo cartello
“vietato l’ingresso” rappresentavano un segno inequivocabile. Era
finita.
La Renzine puntò il dito su Pietro “Allora hai visto, Forest,
che bel risultato con i tuoi sindacati? Li abbiamo spaventati e loro se ne
sono andati!”
“Si, ma forse non ti ricordi che solo grazie ai sindacati ci
hanno pagato una mensilità su cinque e che tutto andava a rotoli già da un
bel pezzo!”
“Se avevamo pazienza forse i posti si salvavano” gli fece
eco l’amica bisbetica della Renzine.
Firmino, l’uomo con la gamba di legno, alzò minacciosamente
il braccio destro e la sovrastò: “I vostri posti forse, sei sempre stata la
leccaculo della parone!”. La situazione stava degenerando.
In quel momento la jeep dei carabinieri si posizionò sul
ponte, ma nessuno si avvicinò. Qualcuno aveva forse notato la piccola folla e
si volevano prevenire incidenti. Ne discese a sorpresa Don Carlo che ansimando
per la foga si andò a piazzare
proprio in mezzo alla gente.
“Sindacati, sindacati” cantilenava la Renzine, “Ecco i
risultati!”.
Qualcuno le dava ragione, altri torto, qualcuno scherzava. C’è
sempre qualcuno che scherza.
Il piccolo Mario aveva sinceramente paura, non era andato a
scuola quel giorno e come lui diversi altri bambini. Quello che vedeva
accadere davanti alla Ditta doveva essere molto grave. Si tranquillizzò un
poco solo quando udì il prete parlare.
“Inutile che litighiate tra di voi, c’era poco da
riassumere il personale, qui alla Ditta. Per quello che ho capito gli
imprenditori…” volò qualche
pernacchia ma Don Carlo si guardò bene, dato che era un prete, dal definirli parons.
Si schiarì la voce…“Dicevo, gli imprenditori non erano più
in grado di tirare avanti con false promesse…Il mercato dei marmi, da quello
che mi è stato detto, è in difficoltà e solo aziende capaci di fare
magazzino, insomma di tenere botta, possono lavorare tranquille…”
“E la nostra…” aggiunse Pietro “E’ indebitata fino al
collo e ha sempre bisogno di soldi, un periodo di crisi, magari ingigantito
dalle banche per i loro interessi, e la festa è finita.” Lo disse con
rassegnazione.
Poco dopo l’attenzione di tutti fu attratta da una figura
solitaria che a passo di lumaca proveniva dagli uffici. Aveva un bel coraggio,
quel tipo, in quel frangente poteva accadere di tutto.
Quando la folla riconobbe Gabriele, l’impiegato portaborse di Giulivi, si fecero
avanti in diversi per farsi giustizia da sé, in mancanza d’altro. Non
sapevano che lui era stato sempre la quinta colonna degli operai, che solo
grazie a lui avevano potuto ottenere qualche informazione.
Era pallido e insanguinato, perciò Pietro ed altri due gli
fecero da scudo.
“Che succede, Gabriele?”
“Ho rotto una finestra per entrare negli uffici e mi sono
tagliato.”
“Perché?”
“Sono andato a prendere i conti del ragionier Giulivi, quelli
in “nero”, ne avevo sempre fatto copia ma la tenevo in un posto
segreto.”
“E che cosa ci possiamo fare?”
“Sono la dimostrazione che se qualcuno ci avesse veramente
aiutato, la Ditta non sarebbe finita così”. Lo fecero accompagnare a
medicarsi al Cacciatore per la via del flum, senza passare davanti alla
jeep dei militari. Volo qualche insulto ma Pietro li apostrofò:
“Tacete, voi che non sapete niente!”.
A parte il parroco ed il maresciallo dei carabinieri, a
distanza, nessun altro Sorestant, bianco, rosso e verde si fece vivo quel
giorno. Solo Diego il dottore, che Sosrestant non era, si trovò in mezzo a loro. Sintetizzò quello che stava accadendo
in pochi appunti sul suo taccuino:
“Effettivamente il mercato del marmo ha delle difficoltà,
come tutta l’economia dopo la crisi petrolifera. Un gruppo dirigente più
forte avrebbe potuto superare la crisi, grazie al castelletto delle banche, se
solo fosse riuscito a mantenere la loro fiducia… Si dovrebbe capire perché l’hanno
persa. Ma la domanda che mi nasce spontanea è: a chi andrà il marmo? Il
bruno Carnico è una pietra tra le più raffinate d’Italia. Può essere che, approfittando del momento,
qualcuno ha fatto come il gatto
con il topo?”
La folla si disperse prima di mezzogiorno, rimasero quelli più
incavolati ed il prete.
“Allora manteniamo l’appuntamento”, si rivolse a Pietro.
“Se serviva a tenere aperta la fabbrica siamo arrivati in
ritardo…”
“Ma possiamo tentare di riaprirla…”
Tutti
mugugnarono, nessuno ci credeva veramente.
Firmino stabilì
un obbiettivo “Vediamo di affrontare l’inverno senza fare la fame…”
L’adunata si sciolse.
La cappelletta di S.Giorgio stava in cima alla salita di Varmost.
Dopo trecento metri di mulattiera, il sentiero, un antica via di Kramars,
faceva un’ampia curva. Proprio sotto un grande faggio, c’era la cappellina
dove gli antichi emigranti si raccoglievano prima di affrontare il passo.
La metafora non poteva essere più azzeccata. Don Carlo li
obbligò ad una preghiera, chi non credeva si limitò a mettersi in piedi.
Erano una decina, compreso il Prete, Giovanni il sindacalista di Tolmezzo e
Diego il Dottore. Apparivano tutti fidati, ma per maggior sicurezza, Don Carlo
avrebbe interrogato le loro mogli in confessione.
Giovanni chiarì subito “Domani avvieremo le pratiche per
evitare il fallimento, chiederemo la cassa integrazione straordinaria,
denunceremo la serrata”.
Nessuno ebbe alcunché da ridire, perso per perso…
Diego il dottore si schiarì la voce: “Io sono convinto che
se non smuoviamo i Sorestants siamo destinati a perdere. Se la cosa
resta chiusa dentro i confini di Nevesa, prima o poi verrà insabbiata. Io, se
siete d’accordo, scrivo un articolo, lo invio a tutti i quotidiani della
Regione e lo faccio pubblicare integralmente sul mio giornale”.
Firmino era dubbioso: “Tanto can can, speriamo almeno di
divertirci, Dio…” e li si bloccò, fulminato dallo sguardo del parroco.
Don Carlo sospirò, fece una pausa e annuì
“Po ben, visto che amate frequentare i bar di tutta la
valle…anche la Domenica mattina” tutti si guardarono come a dire “Non è
vero..:”
il prete continuò sornione “Spargete la voce, fatelo sapere
a tutti, non c’è niente che corre di più di una voce nei nostri bar…”
“La nostra industria più florida” sibilò Giovanni. Tutti
risero amaro.
Don Carlo continuò: “Dobbiamo guadagnare del tempo. Facciamo
filtrare un nuovo pettegolezzo, che la fabbrica riaprirà…”
“Si ma nel frattempo dobbiamo mangiare.” Soggiunse uno.
“E’ vero” sospirò Don Carlo, cercherò di aiutarvi con i
soldi della Parrocchia. Acquisterò generi di prima necessità …
“Ma quanto può durare?” chiese Pietro, che non voleva
vivere di carità, oramai siamo già indebitati fino al collo “Un mese, due
mesi?”
Diego allora decise di parlare: “Dobbiamo tentare questa
ultima sfida, perché la fabbrica è l’unica attività di una certa
rilevanza a Nevesa”.
Elvio, quello che era tornato dall’Australia lo apostrofò:
“fai presto tu a parlare, tra poco sarai dottore e un posto ce l’hai nella
vita, ma noi, noi che cosa facciamo, cazzo! Non è con le teorie che si mette
insieme il pranzo con la cena.”
Lo studente non apparve offeso e preso fiato e coraggio gli
spiegò: “Se non vogliamo che nel giro di due generazioni Nevesa diventi un
paese fantasma occorre che qui ci sia lavoro…”
Tutti annuirono gravi.
“Noi siamo ricchi di legname, acqua, marmi e graniti ma,
invece che sfruttarli e lavorarli sul posto o li concediamo a qualcuno che
paga due lire per le concessioni o neanche li sfruttiamo perché qui tutto è
disagiato, le strade, i servizi, le comunicazioni… La fabbrica di Nevesa era
una delle poche realtà dove i Sorestants avevano imposto che la
materia prima si lavorasse sul posto…”
Don Carlo gli prese la parola, per rafforzare la sua tesi:
“Se perdiamo anche la fabbrica vuol dire che qui non si può investire e
difficilmente troveremo altri disposti a tentare…”
Pietro si accalorò “Ho l’impressione che lo sviluppo della
Carnia sia una cosa che non interessi una sega a nessuno…”
Giovanni che aveva ascoltato fino a quel momento rispose: “Il
problema qui è che ci sono stati dei disonesti che hanno approfittato di un
momento di crisi del mercato del marmo per mettere in ginocchio l’Azienda.
Se le banche mollassero i cordoni della borsa, se trovassimo dei nuovi soci
disposti ad affiancarsi o a sostituire gli attuali forse ce la faremo. Questo
però dipende dai Sorestants, banche incluse…” .
Diego si accodò :”Perciò dobbiamo chiedere una riunione
straordinaria del Consiglio Comunale, costringere il sindaco a prendere
posizione…”
Firmino celiò:”Si con quell’ufficio tecnico che si
ritrova…”
“A quello ci penso io” ribattè scuro in volto il parroco.
Su quella affermazione la riunione fu tolta, anche perché il
tono delle voci e certe parole erano poco consone al luogo.
La campagna di “sensibilizzazione” ebbe inizio. In tutti i
bar della valle si parlava della crisi della ditta di Nevesa, di famiglie sul
lastrico, di imprenditori fuggiti, di nuove cordate, di grandi interessi in
gioco. Perfino sui quotidiani regionali uscirono due trafiletti di spalla.
L’articolo più importante però lo scrisse Diego sul giornale del suo
Movimento. Siamo in grado di riportarvene un ampio stralcio:
“Quanti blocchi di bruno carnico e di grigio fiorito si
apprestano a lasciare le nostre cave verso i centri di lavorazione del
Lombardo/Veneto? Se così fosse si si dovrebbe parlare di spoliazione, sotto
gli occhi distratti della Amministrazione Comunale di Nevesa…Non altrimenti
si potrebbe definire lo sconsiderato sfruttamento del nostro territorio, che,
se la lavorazione non rimanesse in zona, disarticolerebbe la nostra già
asfittica economia. E’ doveroso affrontare questo problema che è destinato
ad emergere con prepotenza in un periodo in cui la precarietà del posto di
lavoro e la crisi economica sono fortemente accentuate…”
“Il Comune di Nevesa aveva concesso tutte le agevolazioni per
l’utilizzo del terreno su cui è stato edificato il laboratorio e stipulato
un contratto di concessione per le cave altrettanto vantaggioso…Ora si avvia
una procedura di liquidazione che sfocerà quasi sicuramente in un fallimento,
con la nomina di un curatore fallimentare che venderà non solo i beni di
proprietà della Ditta. Con essi alienerà la promessa di un futuro stabile
per decine di famigle…A chi saranno concesse le cave più promettenti? Quale procedura si utilizzerà?,
Saranno coinvolti tutti gli enti preposti, o come temiamo, ci si limiterà ad
affidare la pratica all’ineffabile ufficio tecnico di Nevesa?”
“ Le Regioni vicine si vedono piovere come manna dal cielo la
materia prima dalla Carnia e vi impiegano la propria manodopera, per contro la
Carnia bastonata, salassata, sfregiata tace e sopporta. Nessuno può tirare in
ballo la scusa che in Carnia mancano gli operai specializzati per la
lavorazione del marmo. A Nevesa ci sono, anche se ancora per poco. I nostri
lavoratori sono costretti ad emigrare, non solo verso altri Stati ma anche
verso il resto dell’Italia…Non è più possibile proseguire su questa
strada, assistere impotenti allo spopolamento dei nostri paesi.”
“ Abbiamo la materia prima in casa, bene, facciamo in modo
che venga lavorata in casa!…Il Comune conceda a tizio o caio l’uso delle
cave ma lo costringa ad assumere per la trasformazione operai residenti in
zona e si imponga una accisa rilevante su ogni blocco di marmo grezzo che
viene esportato….Occorrono indirizzi e scelte chiare per l’immediato
futuro, ma senza una forte volontà politica, senza una seria presa di
coscienza della classe dirigente delle nostre valli, il declino è
inevitabile!”
Copia dell’articolo di
Diego il Dottore fu affisso in ogni bar e alcuni operai lo distribuirono
all’uscita della messa di S.Celestin. I fedeli meno accorti ebbero modo di
protestare con Don Carlo per quella “invasione di campo” ma il parroco
rispose genericamente che avrebbe provveduto.
“A cosa provvederà?” gli chiese un parrocchiano
particolarmente ottuso.
“Agli operai…” rispose Don Carlo.
***
Il geometra Tare sobbalzò sulla sedia quando si vide tirato in
ballo da quegli articoli, nessuno lo aveva mai accusato pubblicamente di
pescare nel torbido. Il suo prestigio nella Comunità veniva messo in
discussione, l’operato dell’intera amministrazione veniva gettato nel
ridicolo. Doveva parlare immediatamente con il Sindaco.
Il Sindaco si era fatta fare una copia di tutti gli scritti e i
volantini usciti su quell’argomento, c’era anche un comunicato della
triplice sindacale che lamentava il rifiuto dell’Azienda ad un confronto e
la scarsa sensibilità delle Istituzioni. L’opposizione aveva raccolto le
firme per una convocazione urgente del consiglio, ed aveva raggiunto il numero
legale grazie a qualche consigliere di maggioranza, noto per la propria
frequentazione della sacrestia. Una bella manovra di aggiramento, non c’era
niente da dire.
Tare lo osservò, aveva gli occhi infossati e lo sguardo torvo.
Non lo aveva mai visto così. Sarebbe stato difficile ma doveva portarlo
assolutamente dalla sua parte. Gli
argomenti non gli mancavano…
“Tare, mi hai combinato tu questo grosso casino?!”