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Nevesa come Neverland, è un paese che non c’è, o forse è esistito solo nei nostri pensieri

1° Puntata – l’Arrivo

 

Lavorare il marmo è sempre stata una cosa dura, fin dai tempi dei romani. I minatori erano spesso schiavi, e la nota frase di dileggio “ti mando in miniera”, riverbera da sempre la infima condizione di quei poveri disgraziati, peggio dei servi della gleba, dei facchini e degli scaricatori. Solo che la nostra miniera si chiamava Cava, e gli schiavi in quei primi anni sessanta non esistevano più. Era rimasto solo il nome: cava Romana di Nevesa Carnica. Si lavorava per la paga, a cottimo, tanti metri cubi, tanto denaro e forse troppo in fretta per tenere conto dei pericoli, che erano tanti. Il freddo, combattuto con ettolitri di acquavite, le polveri inalate mentre si incideva la parete con i martelli pneumatici, le ferite, perché per avere maggiore sensibilità si usavano le mani nude, i crolli, i precipizi, perché i luoghi non erano facilmente accessibili, le frane, l’errata manovra di un mezzo meccanico e poi il tritolo, che si doveva maneggiare bene, in tutti i sensi perché non sempre le quantità effettive corrispondevano a quelle dichiarate alle pubbliche autorità.  

Ma ne valeva la pena, il grigio carnico era un marmo sopraffino, unico, bruno, quasi un mosaico  con quelle venature di bianco, e in quegli anni andava di gran moda. Si usava per tutto, dalle piastrelle ai tavoli, dai rivestimenti per le pareti di edifici prestigiosi, ai monumenti funerari di persone che erano state importanti. 

Quella mattina di giugno l’umore del Perito che catalogava i blocchi non era dei migliori, troppo sotto pressione, le consegne dovevano essere più sollecite e lui stava rimuginando sul come ottenere più personale e affrettare l’estrazione. Lo tormentava un retropensiero. Quello di perdere la vena buona, di scoprire una parete di qualità scadente, fessurata o peggio. Mentre ci rifletteva, seminascosto tra una pietra e l’altra non si avvedeva che un altro sopra una gru muoveva un enorme blocco verso di lui. Il giovane gruista aveva appena appreso da un camionista di passaggio che la sua fidanzata lo tradiva, o meglio, correva voce, che era la stessa cosa, se non peggio. Il blocco si avvicinava, sostenuto da corde di acciaio, come una meteora ad accostarsi a quello dove il perito, accucciato, scriveva con il gesso i numeri di catalogazione, misura e provenienza. Quando la pietra lo colpì sul fianco non ebbe modo nemmeno di gridare, un sasso da diverse tonnellate che ti accarezza un fianco ti toglie il respiro. L’unica cosa che pensò, o che gli restò da pensare, era che quel ragazzo sulla gru poteva guardare meglio. I numeri si liquefacevano e poi niente altro…

In quella stessa mattina, alla stessa ora, in un’altra valle alpina, a poche centinaia di chilometri  da lì un bambino tentava di nascere, ma non ci riusciva.  Allora in ospedale non c’erano gli strumenti diagnostici di oggi, come l’ecografia, il medico andava ad orecchio. Quando c’era, perché era d’uso far nascere i bambini in casa e spesso arrivava prima la levatrice.  La mamma, Annamaria, era in autentico stato di shock, non potevano togliergli quell’esserino che aveva pazientemente atteso negli ultimi nove mesi in un ambiente estraneo,e, per certi aspetti, ostile. Erano momenti difficili in Sudtirolo, una catena di attentati ed intimidazioni anti italiane, eredità di due guerre e dei retaggi del fascismo, rendevano il clima difficile. Lei veniva dalla città, aveva seguito il marito fin lassù per amore, ma non era facile adattarsi ai ritmi della montagna, specialmente in un luogo dove quasi tutti, nelle faccende quotidiane, conversavano in un’altra lingua. Aveva intuito la preoccupazione dei sanitari, poi l’ostetrica padovana gli aveva spiegato, perché i dottori in quell’ospedale altoatesino erano tutti locali e ne aveva soggezione. Il bambino combatteva con il cordone ombelicale che probabilmente gli si era avvolto attorno al collo e lo stava soffocando; che assurdo modo di morire, ancor prima di nascere. Quella mattina però qualcuno, più in alto di loro, si doveva essere stufato di perdere vite a capocchia, persa una ne volle guadagnarne un’altra  e allora il ginecologo riuscì a predisporre un parto cesareo a tempo di record.  Il battito del cuore si affievoliva ma l’equipe fu più solerte e a forza riuscì a riportarlo alla vita, rianimandolo con tutte le manovre di cui era capace. Erano proprio soddisfatti i dottori, e il padre Pietro si vide recapitare il suo maschietto, piccino come un pulcino ma vivo. “Un altro italiano”, scherzò il dottore con i suoi colleghi “E che fatica per metterlo al mondo!”. Tutti risero. 

Il battesimo fu impartito nel giro di poche ore, poiché fidarsi è bene, ma di fronte ad un parto così difficile il cappellano preferì inserire subito quel moscerino nel catasto delle anime. Lo chiamarono Mario, come lo zio morto in Africa, durante la seconda guerra mondiale. Sua madre era veneta, suo padre abitava da 25 anni in Sudtirolo, ma era di origini lombarde. Il Regime aveva incoraggiato gli italiani ad occupare quelle valli spingendo la popolazione locale verso la Germania, e allora la famiglia di Mario si era trasferita nella speranza di una vita migliore.    

Possedevano una panetteria/pastificio artigianale in quel di Mantova prima della guerra. Un incendio di cui non si erano mai chiarite le cause li aveva messi sul lastrico e solo la tessera della prima ora del Partito Nazionale Fascista aveva permesso al padre di lui, Dante, di trovare casa e lavoro nell’Alto Adige da italianizzare. Quella tessera era stata estorta a schiaffoni ma quello che faceva fede era la data di emissione, 1921, e non le sue originali motivazioni. In realtà il nonno di Mario non era mai stato fascista, ma di simpatie socialiste che lo avevano indotto ad aiutare molte famiglie indigenti durante la guerra e a coprire con il silenzio i pochi oppositori locali. Malgrado ciò quando si ammalò nessuno si ricordò di lui e la sua malattia, e poi la sua morte, avvenuta in povertà, avevano portato Pietro a lavorare duro fin dai 14 anni. Il giovane era scampato per puro miracolo ad una rappresaglia nazista dopo l’otto settembre, contro il personale  della sua fabbrica che produceva munizioni ed esplosivi per le forze armate italiane. Un soldato della Wermacht, che era di guardia, vista la sua giovane età lo aveva bruscamente allontanato prima del massacro. La lapide che ricorda quei poveri italiani era stata poi più volte distrutta da mani ignote e poi ricostruita da altre mani, altrettanto ignote. La sua dimestichezza con l’esplosivo lo aveva poi portato a lavorare nelle cave di marmo, dove era diventato un tecnico esperto.  Annamaria l’aveva conosciuta al matrimonio di un suo amico veronese, di cui era cugina, e poi si erano innamorati, un fidanzamento su e giù per la val d’Adige. 

Quella estate di attentati non poteva che preoccupare. L’azienda locale poi era in crisi e lo stipendio latitava da tre mesi. Pietro, visti i precedenti, adesso che c’era anche un bambino da crescere, accettò di buon grado un’offerta che veniva dalla provincia di Udine. Nevesa Carnica, per la precisione. Un Perito era morto in cava mentre segnava i blocchi e, passato l’inverno, occorreva un tecnico esperto che lo sostituisse. Ne parlarono in casa, Annamaria avrebbe preferito trovare una soluzione a Verona, ma Pietro giunto piccolissimo da Mantova non poteva vivere senza le montagne attorno.  Sua madre Ada, suocera di Annamaria e convivente degli sposi, che aveva già patito le proprie tribolazioni, sapeva benissimo che era meglio avere un lavoro da qualche parte che fare la fame a casa propria. I camionisti, che erano i veri Apolli di quell’Italia in pieno sviluppo economico, avevano spiegato al capofamiglia, magnificandola, che posto era Nevesa. Somigliava maledettamente alla sua valle, dicevano. Perciò avanti, un vecchio Autocarro, un trasloco affrettato e via attraverso strade antiche e speranze rinnovate.   

Quanti passi, quante curve, quanti spiazzi e ponti e torrenti e paesini rubati alla montagna dovettero superare per giungere a Nevesa. Partirono in mattinata, senza salutare.  Stipati su  un autocarro, la Vespa nel cassone. Presero la strada delle montagne che sulla cartina  sembrava più breve, ma la velocità  era quella che era. Sembrava che la meta  fosse sempre dietro la prossima curva ma nella realtà non arrivava mai. Passato Tolmezzo puntarono a nord, seguendo  il corso di un torrente, e poi ad ovest fino alla conca naturale dove gli Antichi avevano messo radici. Nevesa. Apparve all’improvviso,  o meglio le luci, scavallato un dosso, sulla  sinistra. L’autocarro si fermò ballonzolando su uno spiazzo e l’autista si fece strada nella penombra  facendo segno che era ora di bere qualcosa. Erano le sei del pomeriggio e già il sole se ne era andato. Per essere marzo non c’era male. C’era freddo, Annamaria scese con il bambino, per sgranchirsi le gambe, e si guardò intorno. Ebbe chiara una sensazione di profonda estraneità, un'altro paese sconosciuto, un'altra storia da disegnare sulla pagina bianca della vita. Dà sempre una certa vertigine incontrare un luogo completamente nuovo, ben sapendo che ti diventerà famigliare, volente o nolente. Fu così, alzando lo sguardo, che vide la Montagna, il Cret, che dominava tutto, minacciosa come il dito di Dio. Sarebbe stato difficile sfuggirgli. Udì l'incedere del torrente sulla sinistra e odorò il fumo di legna che già si alzava dalle case. Le donne si apprestavano a preparare la cena. Sarebbe stata bel accolta? Il bambino, gracile e malaticcio com'era, avrebbe sopportato quel clima? L'onnipresente suocera, avrebbe ancora avuto da ridire su tutto? 

Entrarono nel bar, era attraversato da una spessa cortina di fumo, il bambino tossiva. La barista salutò l’autista che era conosciuto anche da quelle parti, visto che batteva tutte le vie del marmo. Era stato lui a segnalare Pietro alla direzione della Ditta. In fondo al locale c’era un grosso televisore in bianco e nero che era stato appena acceso, diffondeva l’inizio delle trasmissioni. Una enorme antenna stilizzata che sostituiva il monoscopio, e una colonna sonora trionfale. Annamaria si chiese perché mai quegli uomini rudi si facessero rapire da una immagine tanto ripetitiva. 

"Tra poco andiamo a casa"  rassicuro Pietro, che già aveva effettuato un sopralluogo la settimana prima e disposto il necessario. 

"Meno male" rispose Annamaria, "Meno male". Si chiese se avesse senso rallegrarsi, non c’era niente in quel momento che potesse dare un senso a quella parola: Casa.   

Fu così che il piccolo Mario aprì gli occhi sul mondo, da quella contrada che i locali chiamano “Soga”, una spruzzata di case rubate alle falde della montagna. Aveva un cognome diverso, ma, come dicono gli etologi è l’imprinting che conta. Uno può essere un’anatra e credersi un cigno, o viceversa. I suoi primi profumi e colori furono quelli  di quella terra marginale così carica di energia repressa. Il verde dei prati allora tutti falciati fin sulle falde della montagna, fin dove si poteva, fin dove la pendenza consentiva di osare. I fazzoletti di terra di cui ogni famiglia si faceva un vanto, con quel “radicchio del nostro orto” e gli stavoli a mezza costa. Poi quelle stalle non ancora trasformate in garage e i pollai, e il purcit, confinato nel cortile ad attendere poco ansioso Sant’Andrea e festeggiare personalmente sulla brea

Degli immensi boschi di conifere dove la mamma non voleva ci si inoltrasse da soli e delle mille leggende che li circondavano. Del grigio duro della montagna e del flum, che cambiava d’umore e di colore a seconda delle stagioni e dove tutti attingevano qualcosa, perché il fiume era l’anima della Comunità, la sua sorgente. Dell’azzurro che si stagliava contro il Cret, il dito di Dio, un monito contro chi sfidava le leggi  immutabili della natura. Del bianco della neve che Mario imparò ben presto ad attendere con ansia, scrutando il cielo minaccioso e le nuvole basse, la neve, fonte di infinito divertimento di sci improbabili, slitte vecchie di generazioni e palle di neve. 

Poteva misurare tutto grazie all’ambiente che lo circondava, l’inverno rigidissimo con le bronchiti ineluttabili e i muratori che bloccavano i lavori, l’inverno bianco dei camini delle case che sbuffavano come ciminiere, la primavera colorata di fiori, il taglio del fieno gli attacchi di asma allergica, l’estate delle lunghe passeggiate, delle partite di calcio e dei bagni nel fiume, l’autunno marrone con le mele e le nocciole da raccogliere sui prati e le donne che trasportavano i frindiei. Le transumanze del bestiame all’alpeggio, le grandi manovre dei militari che distruggevano le strade con i loro carri, i piccoli aerei del campo della vicina Paluzza, le “Cicogne”, che volteggiavano insieme alle aquile sopra la cima dei monti e il ripetitore della Rai TV. Lassù in alto che pareva un razzo in attesa del conto alla rovescia, in partenza per la Luna. 

 Quello non era solo il suo mondo quello era “il” mondo, ma nelle case troneggiava un nuovo mobile che esibiva i lustrini di un’altra realtà che non si accontentava del poco e con fatica, e sulle strade c’erano sempre più automobili ad appestare l’aria. Un’aria mossa da un vento nuovo, il vento poderoso del Progresso.

Si ringrazia Alfio Englaro per le splendide foto di ambienti Cjargnei

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